Sabato, Marzo 15 2025

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Uccidere un fascista. Il libro di Culicchia tra speranza e rimorso

 


di Mario Colella

"Strappa da te la vanità, / Paquin strappala!" (Ezra Pound)

Può, ad un libro che narra una vicenda sì terribile come "Uccidere un fascista" di Giuseppe Culicchia (2025, Mondadori, Strade Blu), affidarsi una speranza che non sia quella di una riconciliazione pelosa, finta, non sentita ma altra, più profonda e sensata? Sì, perché quando il racconto dei fatti è così efficace, privo di ipocrisia e strumentalità, scevro dalla propaganda, corredato dalla descrizione/immaginazione di luoghi, persone, stati d'animo, inquadrato nella Storia ma soprattutto nelle storie di singoli e famiglie, si compie un piccolo miracolo. 

Il lettore è trasportato in quell'epoca, ne respira le tensioni, ne percepisce le paure, ne vive la violenza. Se c'è una speranza da affidare a "Uccidere un fascista" è quella di estirpare dai più giovani, quelli che ancora ne subiscono un fascino, a sinistra come a destra, il culto degli anni '70. Non di tutti gli anni '70, non di quelli della passione per le idee e l'impegno, del desiderio, della musica e perfino - specie dal '77 - dell'ironia (Il Male, Andrea Pazienza, Gianfranco Manfredi, Camerini e gli Skiantos) e del comunitarismo più vero (i raduni giovanili rock, i campi Hobbit, le esperienze di Mauro Rostagno sotto l'influenza di Osho). Bensì di quelli della violenza inutile e vigliacca che nessun contesto di guerra, sia pure civile, può giustificare. 

Sì, perché in un attentato - non, si badi, uno scontro di piazza - con conseguente vile uccisione di un diciannovenne disarmato, mite, nel quotidiano diviso tra la fidanzata, la scuola, la passione per il calcio e quella per idee senza diritto di cittadinanza, che non si era macchiato di nessuna aggressione o provocazione che non fosse quella di vivere i tuoi stessi ideali - anticapitalistici, terzomondisti, vicini alla causa dei pellerossa - scegliendo però la parte sbagliata, non troviamo alcun nesso con le passioni, l'entusiasmo, la voglia di vivere in un mondo migliore, la fantasia al potere. E neppure con la reazione alle stragi che videro coinvolti esponenti dell'estrema destra ma avevano ben altra regia.

Sergio Ramelli, giovanissimo  “fiduciario” (vale a dire referente) del Fronte della Gioventù presso l’istituto che frequentava, viene ucciso a colpi di chiavi inglesi in testa il 13 marzo 1975, in Piazza Amadeo a Milano, nei pressi di casa. In effetti non muore subito ma conserva un labile e ormai pregiudicato contatto con la vita fino al 29 aprile, mentre la madre gli tiene la mano in ospedale, il padre comincia ad incubare quel malessere che lo porterà alla morte per crepacuore e i fiancheggiatori dei suoi assassini continuano a inveire come iene sul suo corpo morente.

 Perché, appunto, "uccidere un fascista non è un reato", anzi è giusto, è un dovere, anche se non sai niente di lui, non l'hai mai visto, non sei a conoscenza di nessun episodio di violenza cui abbia preso parte, sai solo che ha scritto un tema in classe in cui aveva manifestato la sua condanna per un assalto brigatista alla sede del MSI di Padova. 

Un dovere. Da espletare con tutta l'adrenalina del caso ma col massimo della prudenza, pianificando, studiando nei particolari l'azione da espletare, da automi, obbedienti burocrati di una rivoluzione ridotta ad eliminazione fisica esemplare di innocenti, con la "giustifica" già in tasca ("è una guerra"), con l'ideologia come corazza ("siamo dalla parte giusta della Storia").

Culicchia è bravissimo a farci vivere ogni momento di quella tristissima vicenda, passando dalle parole di Pasolini sulle stragi cosiddette di Stato alle risultanze della Commissione Pellegrino, fino a farci assistere impotenti a quell'orribile giorno, con le paure che stava vivendo Sergio e che cercava di occultare ai suoi genitori, il ritorno a casa col motorino Ciao, la furia dei suoi killer; fino a farci stare nel suo cranio fracassato, nei brandelli di cervello che ne fuoriuscivano, in quelle idee sbagliate, da colpire nel corpo di chi le sosteneva. 

Fino a dare contezza dei deboli tentativi dei suoi uccisori di banalizzare la loro colpa e fronteggiare quella giustizia che dopo dieci anni - gli ex studenti sono ora professionisti più o meno affermati e presentabili in una Milano molto diversa da quella dell'antifascismo militante - li perseguirà, prendendo avvio dal ritrovamento di un archivio con schedature di militanti e simpatizzanti di destra, frutto di appostamenti e meticolosa, paranoica ricostruzione delle loro abitudini, rapporti, ecc..

Ramelli non potrà diventare un professionista come loro, non potrà mettere su famiglia con la sua Flavia, non potrà più imitare i suoi idoli calcistici su un campo di calcio di periferia, non potrà più mettere sul piatto i suoi dischi rock e il 45 giri di "Prisencolinensinainciusol" di Celentano acquistato qualche anno prima, la sua vita sarà interrotta bruscamente ma quel suo volto coronato da lunghi capelli - simili a quelli dei suoi antagonisti più che ai corti tagli dei sanbabilini - sarà celebrato dai suoi amici, familiari e camerati ogni anno. Ma in fondo anche le vite dei responsabili della sua morte saranno perlomeno segnate, perché non è pensabile che l'alibi ideologico regga per così tanti anni; prima o poi, giustizia o meno, fai i conti con quello che hai realizzato e quella cosa che chiamiamo coscienza. Uno di quegli uomini, passato per l'eroina e l'India, mette fine al suo transito terreno pochi anni dopo i fatti. Ramelli invece resta in vita come la voce in fondo alla cattiva coscienza di una generazione, sinistra o destra poco conta, proprio come il fantasma di Moro lo sarebbe stato per la coscienza più nascosta dell'intero paese, dei suoi apparati e uomini di potere. 

La sua politica è stata spesso debole rispetto alle pressioni di potenze straniere mentre chi non ci stava, da Mattei a Craxi, ne ha pagato le spese. Lo Stato era attraversato da tensioni, gruppi di potere, logiche inconfessabili che si traducevano in "ragion di Stato", ricerca di sempre nuove emergenze che stabilizzassero un potere fragile. A un certo punto fece forse comodo dividere una generazione esuberante, viva, ribelle, armare l'uno contro l'altro, farne zombi paranoici, per poi ripulire le pozze di sangue rimaste sull'asfalto, anzi occultarle con cumuli di siringhe mentre qualcuno aveva lavato la sua coscienza e messo la giacchetta nuova per diventare un tranquillo borghese come papà. 

Per quanto, naturalmente, si possa lavare, quella roba lì, la coscienza appunto, e indebolire, alleviare la voce che dentro non ti dà tregua, come gli autori dell'omicidio di Sergio tentarono di fare con una perlomeno tardiva lettera alla madre Anita che recitava: "Siamo assaliti dal rimorso. Non avevamo nulla contro suo figlio, non l'avevamo mai conosciuto né visto". Mai conosciuto. Mai visto.

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