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Tisei, il pentito/4: la sòla a Bianchi, la delusione di Vigna

  Aldo Tisei è uno degli ordinovisti tiburtini pentiti, transitati dalla militanza di paese alla lotta armata e poi alla malavita organizzata. Muore di overdose il 26 ottobre 1988. Lo trovano con un ago al braccio in una stanza d'albergo a Milano. Era tossicomane da una decina di anni. Gode della stima di giornalisti e magistrati ma molte delle sue accuse crollano per l'assoluta inconsistenza e contraddittorietà. Alla sua vicenda ho dedicato un saggio inedito (qui puoi scaricare l'intero testo) che sto pubblicando a puntate (questa è la quarta e ultima) tra ieri e oggi su Fascinazione  


Tisei tenterà comunque di nobilitare la causa della sua scelta di collaboratore di giustizia e al tempo stesso di trovare giustificazione nella spirale di ripicche e di reciproche accuse di “infamia” che si rimbalzavano addosso Ordine nuovo e Avanguardia nazionale: Seppi di essere stato esclusivamente uno strumento nelle mani dei servizi segreti. Mi convinsi che il nostro progetto politico era un'utopia, una folle utopia e che le nostre azioni si erano trasformate in una violenza barbara. E tutto questo mi ha spinto a parlare (…)”. 

E così restituisce un'immagine dell'area nazionalrivoluzionaria profondamente segnata dai sospetti e dai tradimenti. “Concutelli che diffida di Signorelli, Signorelli che sospetta di Concutelli. Concutelli e Signorelli che hanno grossi dubbi su Stefano Delle Chiaie. Tisei: Tradiva tutti o quasi tutti. Lui arrivava in un posto e subito dopo arrivavano i carabinieri o la polizia. Tutti finivano in carcere tranne lui che spariva sempre in tempo. Ora mi chiamano infame, ma un tipo come Delle Chiaie ha un ruolo ormai chiaro: è una spia prezzolata”.


L'allarme della Corte d'Assise di Bologna


La stessa Corte d'Assise di Bologna, nelle motivazioni della sentenza per la strage alla stazione, pur rivendicando la sostanziale tenuta in dibattimento dell'apporto testimoniale dei “pentiti” avverte l'esigenza di segnare un 'distinguo' sulla controversa personalità di Tisei: “Ha subito una recentissima condanna per calunnia in altro procedimento. Trattasi di condanna non definitiva, in ordine a fatti che la Corte non ha gli strumenti per valutare autonomamente. Nondimeno, la circostanza deve destare serio allarme. Peraltro, estrema cautela è consigliata dalla semplice lettura degli atti legittimamente formati nel presente procedimento o acquisiti allo stesso, che non evidenzia certamente spunti calunniosi, ma individua tuttavia il Tisei come persona diversa da altri `pentiti', ed inidonea a fornire le medesime garanzie di affidabilità. Culturalmente meno attrezzato ed intellettualmente meno dotato del Calore e dell'Aleandri, il Tisei, se può riferire fedelmente ed attendibilmente fatti materiali, mostra un approccio rozzo e tendenzialmente appiattente rispetto a realtà astratte e più complesse”.

 
Le fandonie sul delitto Calabresi


In realtà, come abbiamo visto, neanche nei fatti materiali, Tisei è sempre affidabile. Come quando si avventura, nel gennaio 1982, ad avallare la pista nera per l'omicidio Calabresi 

"Le circostanze che ho riferito le appresi in un colloquio intorno al gennaio 1977. Oltre a me erano presenti Paolo Signorelli, Concutelli e Calore [e qui già affiora un piccolo falso: perché Signorelli e Concutelli hanno interrotto i rapporti nel luglio precedente per il dissenso del “professore” sulla precipitazione lottarmatista dei Gruppi d'azione ordinovista, nda]. Quella è stata l'unica occasione in cui ho sentito parlare dell'omicidio Calabresi. 

Concutelli riferì di un traffico d'armi tra l'Italia e la Svizzera e disse che Nardi, lo Stefano e la Kiess abitualmente portavano armi in Italia dalla Svizzera, attraverso il valico di Ponte Chiasso, abitualmente portavano pistole Browning coi caricatori bifilari e Walter P38, nonché esplosivo. Questo traffico è iniziato precedentemente all'omicidio Calabresi e continuò per diverso tempo. Poiché Calabresi aveva scoperto questo traffico d'armi fu eliminato da Nardi, Stefano e Kiess. 

Concutelli riferì solo questo senza aggiungere alcun particolare sull'azione. Mi resi conto che Calore era all'oscuro di tutto, proprio come me. Signorelli mi disse di aver incontrato nel 1976 a Torremolinos in Spagna, Gianni Nardi il quale gli aveva detto che era stato lui, con Stefano e Gudrun Kiess a eseguire l'omicidio Calabresi. A sparare sarebbe stato appunto Nardi. Signorelli disse queste cose convinto. Voglio far presente che Ordine Nuovo era un'organizzazione rigidamente militare per cui non ritengo che Concutelli potesse riferire cose inesatte parlando di operazioni militari come l'omicidio Calabresi".


La rozzezza del metodo Tisei

Una decina di procedimenti giudiziari – compreso uno di revisione - hanno invece deciso che la responsabilità diretta di quell'omicidio è del vertice di Lotta continua. Il metodo Tisei è evidente nella sua rozzezza: riprende fatti arcinoti (il traffico d'armi per cui era stato arrestato Nardi, le ultime indagini compiute da Calabresi, la morte in Spagna di Nardi latitante in Costa Brava) per adattarli al suo sistema di relazioni. 

E' invece interessante che Tisei, con congruo anticipo, per avvalorare le sue affermazioni usi lo stesso argomento di don Tommasino Buscetta: il comandante di Ordine nuovo, così come un mafioso, non può mentire. Lui, invece, sì. Paradossalmente, proprio la sua spudorata capacità menzognera costituirà a lungo un elemento di credito. 

Proprio in occasione di una delle sue prime uscite pubbliche, osserverà il cronista dell'Unità Gian Piero Testa, uno dei protagonisti della controinformazione degli anni 70: “Attorno a lui c'era molta curiosità: un pentito o un bluff? Tisei si è incaricato di dissipare i dubbi. Ha, infatti, ribadito le sue accuse con una serie tale di riferimenti, nomi, date, fatti, che risulterà molto difficile per chiunque smantellare la sua deposizione

Il legame con Paolo Bianchi

Comunque, all'uscita dal carcere si lega a Paolo Bianchi, il camerata tiburtino che, grazie alla moglie, Isabella Vetrani ha arricchito il percorso del pentimento giudiziario con la riscoperta della religione. Nel suo “cammino di fede” nella comunità neocatacumenale, contro il parere della donna, che ne percepisce gli evidenti problemi e teme che ritrascini il marito nel gorgo della perdizione, Bianchi si fa carico dell'antico compagna di lotta e di rinnegamento.

«Più vado avanti nel mio cammino di conversione e più mi rendo conto dell’enorme importanza che sta assumendo la Chiesa nella mia vita. Senza la Chiesa, avrei forse continuato anche peggio di quello che ero prima, con l’aggravante dell’esperienza del carcere che per me è stata terribile, dieci lunghi anni drammatici. Attraverso la Chiesa invece ho ritrovato il perdono di Dio che ha ridato un significato alla vita. Il perdono ti cambia completamente l’ottica, ti aiuta a vedere la vita degli altri per quello che sono, senza giudicarli»

Così Paolo Bianchi, definito da Concutelli un “Giuda da pascolo” (una battuta folgorante, se si considera che è stata innescata da una sua ammissione vittimistica: durante una latitanza particolarmente disperata aveva tirato avanti mangiando l'erba) ha dimostrato - con una folgorante conversione - di meritare il nome avuto: «ma non ho iniziato il cammino di redenzione in carcere. Quello è iniziato dopo, quando sono tornato a casa». 

La prima confessione Bianchi l’ha resa ai giudici e si era guadagnato così la libertà. Attraverso la moglie, Isabella Vetrani, che lavorando come segretaria nello studio dell’avvocato Arcangeli aveva alimentato un comitato di solidarietà per i detenuti anticomunisti e lo aveva poi aiutato nella latitanza, ha cominciato a frequentare questo movimento carismatico cattolico dalle forti caratteristiche settarie.

L'autobiografia di Paolo Bianchi

Nella riscoperta di Cristo Bianchi ha trovato la soluzione dei suoi problemi. La sua vicenda l’ha raccontato al padre spirituale, don Carmelo, con la sua bella fetta di narcisismo e di vittimismo autogiustificatorio: 

«Avevo iniziato - scrive al sacerdote - a sedici anni, nel 1970, con un furto ad un ex deposito militare. Era il periodo in cui ci consideravamo tutti rivoluzionari, a destra e a sinistra. Anche per me era valido il mito di Che Guevara, e non mi rendevo conto allora che la violenza non guarisce il male ma semmai lo aggrava (...) Ero stato strumentalizzato dalla società, dalla scuola, specialmente dalla figura di un professore del circolo di Tivoli, [Signorelli] che mi ha fatto entrare per la prima volta nel tunnel dell’avventura terroristica (...) 

Dalle risse di strada e dai campi paramilitari, passai così alla lotta armata e alle rapine. Una volta guidai un commando con tale abilità e decisione da far pensare a un lavoro da professionisti. Poco dopo venni arrestato. Nel carcere di Regina Coeli tornai all’attività politica. Intanto a Roma era giunto Concutelli, che dopo il delitto Occorsio prese il comando della costituenda organizzazione terroristica GAO

Uscito dal carcere per decorrenza termini entrai subito nella nuova organizzazione, dandomi alla latitanza. Venni di nuovo arrestato e passai il ’78 in carcere. Quando uscii, nell’aprile ’79, la situazione politica era cambiata: Ordine nuovo si era sciolto, nascevano i NAR. Io ero oramai diventato un vero bandito: compivo rapine a ripetizione, volevo far rinascere l’organizzazione politica del tempo di Concutelli ma incontrai diffidenza ed egoismo, da parte di piccoli gruppi. Durante una rapina venni carcerato. In carcere iniziai uno sciopero della fame. Ero disposto a farla finita per sempre»

Un attentato fallito

Tisei e Bianchi denunciano un presunto attentato subito alla vigilia del processo d'appello per Occorsio. E' la sera di sabato 4 gennaio 1986. Racconta Tisei: "Scendevamo le scale del palazzo di via Alessandria dove abitiamo. Io ero davanti, Paolo mi seguiva. Arrivati all'ultimo gradino abbiamo notato una persona, un' ombra seminascosta nel buio, che sostava nell'androne. Abituati come siamo a stare all'erta, con i nervi a fior di pelle, abbiamo subito intuito che si trattava di un agguato. Ho gridato a Paolo di fuggire e in quel momento abbiamo sentito esplodere i colpi di pistola. Quattro, uno dietro l'altro, che per fortuna ci hanno mancato". 

Subito dopo la sparatoria i due attentatori sono fuggiti, gridando. "Se fossero stati dei killer di professione", osserva Bianchi, "ci avrebbero inseguiti e uccisi. Invece era gente inesperta. Erano nervosi ed eccitati. Una delle pistole, inoltre, deve essersi inceppata e questo ha fatto naufragare definitivamente il piano".  

Ma l'agguato contro i due ex ordinovisti pentiti non convince gli inquirenti.  Solo un avvertimento, oppure gli anonimi attentatori hanno sparato per uccidere? La Digos è prudente e nasconde a fatica un certo scetticismo. Anche se il volantino dei Nar rivendica un omicidio dato per scontato e invece fallito, la dinamica dell'agguato fa pensare piuttosto a un avvertimento mirato non a un tiro al bersaglio sbagliato.

Una ricostruzione diversa su piazza Fontana

Si presentano in coppia a uno speciale del Tg1 dove si lamentano della protezione promessa e non assicurata e si accreditano come “ricostruttori” della storia della guerriglia nera. In qualche caso vanno contro corrente: mentre tutti i “pentiti neri” in diversa misura avallano la tesi dominante su piazza Fontana (bomba fascista, Freda l'organizzatore) i due addebitano la strage a Valpreda. Si differenziano soltanto nella fonte (all'epoca erano entrambi bambini): Signorelli per Tisei, Delle Chiaie per Paolo Bianchi. E così vanno avanti in perfetta intesa.

La sola a Bianchi, la delusione di Vigna

Bianchi si impegna sul terreno della nuova prospettiva di vita, ma non è un santo. E così puntualmente arriva la rottura: Tisei ha bisogno di soldi per avviare un'attività commerciale, l'amico glieli presta generosamente, sbattendosi in giro per procurargli, e lui lo accanna e sparisce. La moglie di Bianchi considera benedetti quei soldi persi se sono serviti a liberare il marito da quella cattiva compagnia. Non è il solo amico ferito al cuore dalla sua proterva strafottenza, che è poi, banalmente il dispositivo tipico dell'egotismo da tossicodipendenza. 

E' così anche per il suo mentore, PierLuigi Vigna, il pm tignoso grande accusatore del processo Occorsio, che proprio in quegli anni aveva costituito nel carcere di Sollicciano il primo incubatore del “pentitismo” in nero, favorendo i contatti tra Valerio Fioravanti, Sergio Calore e Angelo Izzo, al momento ancora formalmente irriducibili impegnati in un lavoro di “ricostruzione storica” dello stragismo nero. Quando il 25 febbraio 1985 Tisei compare al processo Occorsio in gabbia perché è stato arrestato la sera prima per spaccio di stupefacenti mentre avrebbe dovuto essere agli arresti domiciliari nei pressi di Fiesole, per Vigna è una brutta botta. 

Dalla china della tossicodipendenza Tisei non si riprenderà più. Col passare degli anni continua a perdere colpi. Anche nei processi di “mala” i magistrati cominciano a non dargli più credito e fioccano le assoluzioni per gli imputati della “banda di Tivoli”. Nel giugno 1988 Tisei è condannato a 7 anni per calunnia (la stessa pena riportata per il concorso nell'omicidio Occorsio) per le storie inventate sul laghetto di Guidonia. Il 20 novembre lascia la casa dei genitori a Tivoli, il giorno dopo prende alloggio in un alberghetto nei pressi della stazione ferroviaria di Milano. Per ottenere uno sconto presenta un tesserino da poliziotto. Lo trovano il pomeriggio del 26 cadavere nella sua stanza, l'ago in vena, la manica rimboccata con il laccio emostatico, i sintomi classici dell'enfisema polmonare da overdose. E' il quarantacinquesimo morto dell'anno per l'eroina a Milano. (4-fine)

 

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