Walter Jeder in proud and glory di Tomaso Staiti
Sei anni fa moriva il barone Tomaso Staiti di Cuddia, un protagonista della fascisteria lombarda dai cupi anni 50 al nuovo millennio. Prima di proporvi una fresca testimonianza di Walter Jeder, uno che ha avuto un ruolo di rilievo in 50 anni di storia del neofascismo milanese, vi riproponiamo una essenziale rassegna stampa dei testi prodotti da Fascinazione sul "barone nero".
“L’esercizio dell’oblio è una specie di medicina per il nostro equilibrio personale perché ci alleggerisce dal fardello dei cattivi ricordi. La memoria, in questi casi, si fa furba: attiva un meccanismo di selezione capace di virare in meglio le vicende del nostro passato e di cancellare quelle spiacevoli. Perciò, quando ti chiedono fare appello alla tua sincerità per tracciare il ritratto di qualcuno che è “andato avanti” provi due sentimenti contrastanti: la necessità di rendere testimonianza e la fatica di essere costretto a far correre veloce, all’indietro, la bobina della tua esistenza. Col rischio di incagliare in qualche immagine, a torto o a ragione, ben rimossa.
D’altra parte, quando si hanno sulle spalle più di sette decine di primavere, e vieni chiamato a guardare indietro, sei costretto ad accorgerti di quante vite si siano intrecciate, lungo gli anni, con la tua. Qualcuna è scivolata via come un alito di vento, altre hanno lasciato tracce più profonde che sopravvivono al tempo e al suo gioco di specchi. Tomaso Staiti, per il suo carattere, non appartiene alla categoria dei ricordi sbiaditi ma ha marcato, in modo ricorrente, una quarantina d’anni della mia presenza a Milano.
Per dare il mio contributo, conviene cominciare dalla coda. Dai fotogrammi relativamente più recenti.
Da quel marciapiede di via Larga, a Milano, trecento passi avanti e trecento indietro in fitta conversazione: il luogo dove, quasi ogni settimana, finivo per incontrarlo attorno all’ora del pranzo.
Appuntamento facilitato dal fatto che il mio ufficio incombeva proprio lì, davanti al Lirico, mentre la sua abitazione quasi incrociava il mio percorso giornaliero.
Col carattere che si ritrovava, il vecchio Tom avrebbe tirato via, dopo un breve scambio di saluti ed una battuta pungente sottolineata dal suo inconfondibile sorriso ironico, se non ci avesse reciprocamente fregati la chimica della stima, l’ampiezza degli aneddoti, la caustica lucidità dei giudizi. Andava a finire che la passeggiata si trasformava in una rassegna spietata dell’attualità e della politica. Un esercizio che travolgeva fatti e persone della nostra storia condivisa e ci costringeva ad evitabili esercizi di rievocazione. Vedendoci affabulare, non si sarebbe detto che quel settantenne abbronzato, fascinoso e in gran forma, alla faccia dei quindici anni di divario d’età, stava mettendo alle corde Walter, l’ex militante ormai ingessato in panni di manager, facendo tiro a segno, stile luna park, su tutta una galleria di personaggi. Persone che avevo custodito nel territorio protetto dell’amicizia, sentimento che, a volte, ci vuole ciechi, come fa l’amore, fino a negare la verità.
Tomaso impallinava tutti. Non risparmiava neppure il mio vecchio “maestro” Pino Rauti. Lo buttava giù dal piedistallo con spietata franchezza, facendone un ritratto ombroso e sbilenco, pur sapendo che io ero stato un “ragazzo di via degli Scipioni” e, come tale, conservavo una vera devozione per Pino. Perciò, mentre custodivo gelosamente la parte nobile della lezione rautiana, poco m’importava la cronaca delle oscure beghe che l’avevano portato a rompere, dopo averlo fondato, con il Movimento sociale Fiamma Tricolore.
Lui, il Barone, classe 1932 e iscritto al M.S.I., dal 1949, romualdiano di ferro e deputato dal ’79, reso celebre per quei due sganassoni al ministro Goria - una vita all’opposizione in un ambiente di oppositori - era avanzato irruente sulla scena politica milanese scartando di lato, come un cavallo da torneo. Finché, nel luglio del ’91, con il ritorno di Fini alla segreteria, aveva lasciato un partito che gli andava sempre più stretto, per passare, da Deputato, al Gruppo Misto, cominciando a intraprendere un po’ tutte le vie alternative.
Innamorato e deluso dai suoi molti “flirt”: dal M.S.-F.T. all’avven- tura del Fronte Sociale Nazionale, dalla Destra di Storace alla Costituente di Futuro e Libertà, presto abbandonato.
Ebbe perfino moti di simpatia per un certo Leghismo, colto e marginale alla Gianfranco Miglio, fino a dichiarare, provocatoriamente, nel 2014, la tentazione di votare Grillo.
Tutto questo rievocavamo, disincantati, al tavolino di un bar affacciato su via Pantano a due passi dal suo rifugio domestico.
Ce la raccontavamo senza reticenze, senza sconti per nessuno, perché in fondo ci volevamo bene.
Era stato lui, il fascista “bon vivant”, sempre elegante, e palestrato (anagrafe ingannata dalla frequentazione dello Skorpion Club di corso Vittorio Emanuele), a schiudere - come una specie di licenza premio - le porte dei night club, come il “Nepenta” di piazza Diaz, agli imbranati e mal vestiti “ragazzi neri”. Tanto per mostrare loro quali seduzioni esistessero al mondo, oltre i lugubri rituali della militanza dura e pura, anche agli inizi dei terribili anni ottanta.
Difficile collocarlo nella galleria degli esponenti missini, con quel suo stile di vita tessuto di classe e provocazioni. Staiti restava un personaggio a sé. Guascone e imprevedibile nelle sue sfaccettature: incendiario sul palco di un comizio; marziale nel lancio col paracadute ormai fuori età; beffardo al desco di Pane e Farina a sparare una girandola d’invettive; altero e pensieroso dietro la scrivania del suo ufficio parlamentare.
Nel suo studio milanese di via Matteotti ci raggruppava, di tanto in tanto, per avere qualche scambio di idee sulle prospettive della politica in divenire, gruppo eterogeneo di “nuovi destri” e di “credenti- militanti”.
Lo ricordo scuro in viso quella volta che ci convocò d’urgenza per renderci partecipi di un “avviso i naviganti” ch’era partito, nientemeno che dal Ministro degli Interni. Virginio Rognoni gli aveva confidato che certe sue fonti riservate lo avevano informato come alcuni militanti missini – tra cui il mitico Ugo Bersani detto “Balilla” - fossero nel mirino delle BR. Sarebbe stato difficile ad uno Stato che non aveva saputo salvare la vita ad Aldo Moro prendersi cura di qualche attivista del partito di Almirante. Inutile dire che Balilla sparì letteralmente, da un giorno all’altro, dalla scena milanese.
Negli anni a seguire, lo vidi in occasioni meno drammatiche e più consone al suo spirito vitalista e creativo. Con Peppe Nanni, a margine delle conferenze del circolo “Il Filo di Arianna” o delle serate promosse da ContrOpinione, la sua testata giornalistica.
Conservo, anche, una foto che lo ritrae plaudente nelle prime file del teatro Poliziano tra le ottocento persone che parteciparono ad un concerto di musica alternativa nel marzo dell‘80. In platea - sorpresi che i missini potessero trovare un tale concorso di pubblico nonostante l’area circostante fosse stata robustamente blindata dalla polizia e radio Popolare avesse chiamato gli antifascisti alla mobilitazione - c’erano anche gli inviati del Giorno, di Panorama e dell’Espresso.
L’evento (in cartellone c’erano Gli Amici del Vento, gli ZPM e Fabrizio Marzi) arrivava sull’onda della stagione dei Campi Hobbit ed era stato promosso anche dalle redazioni del Candido e di Radio University. Tre luoghi che mi avevano visto protagonista e tre buone ragioni per non mancare.
Perciò la serata fu presentata da me e da Guido Giraudo.
Il Barone non c’era per caso. Quattro mesi prima aveva organizzato sotto le insegne del suo Circolo culturale “Quarto Tempo” un altro concerto alla Sala Gonzaga (“Musica fuori dall’arco”) per ribadire che le nostre idee non potevano essere chiuse nel recinto degli impresentabili.
Convinto che le canzoni fossero non solo un solido elemento di cultura ma anche un formidabile strumento di lotta, Tom me ne “commissionò” due che divennero la colonna sonora della sua campagna elettorale. Scrissi il testo di “Giovinezza” e di “Una canzone per vincere” che Fabrizio Marzi, in primavera, incise nel suo primo 45 giri. Il disco portò bene a Staiti che venne eletto alla Camera.
Nel 2006, quando decise di raccontarsi senza veli nelle pagine di “Confessione di un fazioso”, tra i mille episodi della sua vita, Staiti menzionò, con affetto, anche quella nostra esperienza musicale.
Ma la sua passione si accendeva, in modo speciale, per il giornalismo. Tanto che, tra i tanti percorsi ribelli per “provarla nuova”, finiva sempre per trovare le vie della scrittura.
Quando mi chiese di collaborare al suo ultimo periodico, “Intervento”, non mise paletti alla mia libertà di espressione e colse il mio pudore quando riuscì a riagganciare anche firme importanti, come l’ultimo Erra e l’ottimo Cabona.
Non buttava la Patria – come scrisse in una feroce lettera a Buttafuoco – “per quanto sputtanata e sbrindellata”, ma odiava la nostalgia e il torcicollo; restava ancora convinto dell’obbligo di uscire dalla palude come si era provato a fare con il progetto (abortito) di una “Destra comunitarista, libertaria, militante, non occidentale, creativa e... persino musicale”.
Per strada, nelle rare riunioni di redazione, nelle conversazioni infuocate che ci scambiavamo, Tommaso s’inferociva e s’incupiva con gli amici che, sia pure in buona fede, distribuivano assoluzioni per gli errori del passato.
“Così ti fa male, te la prendi troppo” l’ammonivo. E lui mi mandava allegramente a quel paese.
In una delle ultime telefonate, con voce mutata, accolse (quasi) la bontà della mia terapia pacificatoria. Ma non fu un buon segnale.
Walter Jeder
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