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Il bandito nero Peppe Misso racconta la guerra a Ferlaino

 Il Napolista oggi pubblica abbondanti stralci di una lunga intervista a Giuseppe Misso, il grande bandito della Sanità, che fu costretto a farsi camorrista. Una storia intrigante raccontata in I leoni di marmo, la sua autobiografia romanzata recentemente ristampata da Milieu Edizioni. Il popolare blog sportivo di Massimiliano Gallo giustamente mette a fuoco soprattutto le vicende della "guerra a Ferlaino" e i rapporti con Maradona. Manca qualsiasi riferimento alla sua identità politica. Misso era infatti di dichiarate simpatie fasciste e fu, a metà degli anni '70, tra gli ispiratori tra  le prime liste di disoccupati di destra, che nacquero alla Sanità, nel quadro delle iniziative sociali promosse dai fuoriusciti "peronisti" del Msi... Misso, protagonista della più grande rapina della storia della malavita napoletana (il Monte di Pietà del Banco di Napoli) fu anche accusato e condannato in primo grado per la strage del 904. L'appello che lo prosciolse diede l'occasione ai nemici di organizzare un'imboscata alla barriera autostradale di Caserta per ammazzarne la moglie. 


Il Corriere della Sera Lettura ospita una lunga intervista di Teresa Ciabatti a Giuseppe Misso, detto ‘o Nasone, uno dei maggiori boss della camorra, oggi collaboratore di giustizia. Tre pagine da leggere tutte d’un fiato, come fossero un romanzo che racconta la Napoli degli anni ’90. Misso è un camorrista sui generis: allevatore di colombi, amante della letteratura (scrittori preferiti Céline e Dostoevskij), poeta e scrittore a sua volta. 

 Fondatore del clan Misso, ha comandato ufficialmente Napoli dal 1999 al 2003, ma c’è chi dice lo abbia fatto per almeno 20 anni. Dicono di lui che sia stato uno dei capi più sanguinari. Ha iniziato a rubare quando aveva 5 anni.

«Rubavo per mangiare. In generale rubavo quello che non avevo, anche il presepe. Legno e sughero per le capanne, e i pastori a San Gregorio Armeno. Sono l’ultimo di sette figli. Prima che nascessi, i miei avevano un panificio alla Porta di San Gennaro, stavano bene. I miei fratelli possedevano la bicicletta che, all’epoca, a Napoli, significava essere importante. Poi nel ’43 gli americani bombardano la città. Scendono a bassa quota e mitragliano i civili, tra questi mia sorella Agata, dieci anni. Per il dolore mia madre abbandona il commercio, cadiamo nella miseria. Nel ’47 nasco io. Quasi subito mio padre va in Brasile e non torna più».

Il primo furto con scasso è arrivato a 14 anni, in un negozio di elettrodomestici. Fu arrestato per la prima volta e da allora fu un continuo entrare ed uscire dal carcere. Ha partecipato anche alla prima rivolta nella storia di Poggioreale, nel 1968. In quell’occasione, gli agenti picchiarono duramente i detenuti coinvolti, racconta, che furono trasferiti al carcere di Mistretta, caricati nudi su un treno. Arrivati lì furono messi nel letto di contenzione.

«Una specie di gabbia con le sbarre a cui vieni legato e ammanettato. Disteso su una rete col buco centrale per i bisogni. Direttamente sul ferro. Mi fingo pazzo, al tempo l’ultima chance per uscire. Urlo frasi sconnesse: “La neve ci ucciderà”, “Le formiche mi stanno mangiando la faccia”. Fui trasferito a Barcellona Pozzo di Gotto, manicomio criminale.

Lì ci sono i matti veri, e qualcuno che finge come me, per esempio Frank Tre dita. Anche a Pozzo di Gotto letto di contenzione e botte. I secondini ci pisciano addosso. Pisciano e sputano nel cibo. Una notte, con un cucchiaio, uno dei matti veri cava un occhio a un altro che dormiva. Si aggira con l’occhio sul cucchiaio, offrendocelo: “Gradisci l’ovetto?”».

Al manicomio criminale riuscì a resistere undici mesi.

«L’essere umano si adatta a tutto».

Di quanti soldi disponeva in quegli anni?

«Venti, trenta miliardi, non so quantificare. Amavo spendere, e regalare».

Racconta come spendeva.

«Vestiti dal sarto, scarpe, oggetti di lusso come orologi e statue. A fine anni Settanta avevo la carta Visa con credito illimitato, e una Jaguar bianca col telefono dentro. Dovunque arrivassi, Forcella, Secondigliano, la gente veniva intorno. I bambini circondavano la Jaguar, Peppe Misso, Peppe Misso, chiamavano — e chi l’aveva mai vista una macchina col telefono dentro».

Chi chiamava dal telefono della macchina?

«Assunta, la mia compagna, per dire di buttare la pasta».

Dove sono oggetti e vestiti costosi di allora?

«Ho subito due saccheggi da conoscenti e parenti nei periodi in cui ero in carcere. Nel ’92, dopo l’uccisione di Assunta, hanno preso libretti al portatore, gioielli, pellicce. Nel 2003, prima che la casa venisse confiscata, hanno portato via ogni cosa: mobili, vestiti, cravatte. Centinaia di cravatte di Marinella. Addirittura il Dom Perignon, si sono presi il Dom Perignon, casse e casse».

Non resta niente?

«Il carillon. Un cofanetto che, caricato, suonava Il lago dei cigni. Nella casa vuota, non tanto di mobili, ma di Assunta, l’ho fatto suonare».

Nel 1979, dopo due anni e otto mesi, uscì di prigione e trovò una Napoli trasformata. Da un lato La Nuova Camorra organizzata di Cutolo, dall’altra la Nuova Famiglia, il clan Giuliano-Secondigliano-Fabbrocino-Luigi Vollaro.

«Solo chi c’era sa che prima del ’78 la camorra a Napoli non esisteva. Esisteva la mafia silenziosa con le sue filiali, i Nuvoletta e gli Zaza dediti al contrabbando di sigarette. La camorra nasce con Raffaele Cutolo che battezza in carcere, e si diffonde con una propaganda attraverso televisioni di Stato e giornali. Ogni volta che viene intervistato, nelle pause processuali, Cutolo lancia messaggi, ed emana sentenze di morte».

Rifiutò di allearsi con Luigi Giuliano «l’amico fraterno, boss», anzi, lo avvertì di lasciare in pace i commercianti di via Duomo.

«Divento socio di Nino Galeota, già proprietario di Uomo, negozio di scarpe, e apro con lui Eurosport, negozio di articoli sportivi. Il patto con Giuliano, da me stabilito e da lui accettato, era che loro non chiedessero il pizzo a Nino Galeota e a nessun commerciante di via Duomo».

E invece il cognato di Giuliano andò a chiedere il pizzo a Galeota.

«Allora io capisco di non potermi più tirare indietro, sono in guerra… la prima cosa che faccio: salire in terrazzo e distruggere la colombaia. Sapevo di non potermi più prendere cura dei miei colombi».

Meglio liberi?

«Da ragazzino facevo il giro delle uccellerie per aprire le gabbie. Quando andavo in visita alle persone della Sanità, quelli si affrettavano a nascondere le gabbie. “Se lui li vede, li libera” dicevano. Era vero. Liberavo pure i canarini».

Torna a parlare del negozio articoli sportivi:

«Da un amico fotografo Nino si fa dare le foto delle azioni salienti delle partite. La domenica, a fine partita, la gente viene a guardare le foto, e compra le scarpe. Il nostro era il negozio dei calciatori del Napoli».

Misso è quello che mise la bomba sotto casa dell’allora presidente del Napoli, Ferlaino.

«Io e Nino eravamo stremati, una sconfitta dietro l’altra. Il presidente Ferlaino ci stava portando alla rovina. Così mettiamo una bomba di tritolo sotto casa sua, e un’altra allo stadio San Paolo. Non è finita: facciamo volare un aereo sopra la città con lo striscione: “Ferlaino via, Juliano torna”. Poi volantini e manifesti, un assedio».

Ferlaino si dimise.

«Tornerà pochi mesi dopo, richiamando Juliano, e facendo una squadra come dicevamo noi: nell’84 compra Maradona».

Di Diego dice:

«Grandissimo giocatore. Non ho apprezzato la sua amicizia con il clan Giuliano, né il momento in cui si rifiutava di riconoscere il figlio, lo dissi a Josè Alberti, il vero responsabile della sua venuta a Napoli, fu lui a convincerlo. Dissi a Josè che non volevo più sentire parlare di Maradona per come si era comportato col figlio. Josè mi rispose: “Ti giuro che lo riconoscerà”».

Gli chiedono quanti morti si porta sulla coscienza.

«Ho condotto una guerra nell’ambito della quale sono state uccise molte persone, non sono in grado di quantificare».

Attualmente è collaboratore di giustizia, ovvero pentito.

«Non sono un pentito, non ho niente di cui pentirmi. Certe decisioni andavano prese, era giustizia».

Ha scontato 34 anni di carcere. Racconta cosa gli manca della vita di prima.

«Chiamare la gente: dottore, sindaco, vicesindaco. Chiamarli, e quelli venivano. Oggi non viene più nessuno».

Ha due figli: un maschio ed una femmina. Il maschio si chiama Marco, in onore di Marco Aurelio. Avrebbe voluto che si laureasse, aveva per lui grandi sogni. Quando aveva 7 anni glielo portarono in carcere e Misso capì subito che era gay.

«Mi basta uno sguardo. Con la vita che ho fatto, capire in pochi secondi se una persona voleva ammazzarmi o no, ho sviluppato una certa conoscenza dell’umanità. Unita alla conoscenza dei colombi. Mi basta uno sguardo per capire se un colombo è maschio o femmina».

Dopo vari tentativi di nascondere la sua vera natura, il figlio si trasformò in Jessica.

«Si fa crescere i capelli, comincia a truccarsi. In seguito si veste da donna: gonne e tacchi alti. Gli dissi: non potevi chiamarti Marta? Marta è un bel nome, Jessica no. Non mi piace, penso a Jessica Rabbit».

Oggi Jessica ha un compagno, è felice, va a cena fuori con il padre.

«Per la verità me la sono sempre portata nei migliori ristoranti e non solo. Io mia figlia non l’ho mai nascosta».

Al processo fu denigrato da Luigi Giuliano perché aveva un figlio trans. Ma anche in quell’occasione lui lo difese.

«In Tribunale, davanti a tutti, mi rivolgo al Giudice: “Signor Giudice sì, mio figlio è gay, è per caso una vergogna?”».

Prima di lei: il destino dei figli omosessuali dei boss?

«Scomparivano».

Dice che da Napoli manca da un po’, ma analizza comunque alcuni fenomeni, come quello delle stese dei ragazzini.

«Esistono perché i capi li lasciano fare. Se ai capi non facessero comodo, li avrebbero già presi e sciolti nell’acido. Questi ragazzini distolgono l’attenzione dai grandi affari della camorra, come il processo di penetrazione criminale nel circuito finanziario legale. La mafia è finita in quanto sono finite le famiglie, la camorra non finirà mai. Sono ancora tantissimi».

Sotto il programma di protezione ha potuto rifarsi la colombaia, ma per un’epidemia di aviaria ha dovuto distruggerla per la seconda volta.

«Non c’è cosa peggiore che togliere la casa ai colombi. Tu sai che da quel momento loro vanno soli. Alcuni sopravvivono, altri no».      

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