È un franchista di Vox il falconiere cacciato dalla Lazio
Al.Ab. per "il Messaggero"
È nell'occhio del ciclone, ma forse non se ne rende nemmeno conto: «Non so perché si sia scatenato tutto questo caos», dice Juan Bernabé, il falconiere spagnolo della Lazio. Era ancora spaesato, frastornato ieri pomeriggio a bordo della sua auto a Formello, il 53enne nato a Cadice. Faceva volare nei cieli l'aquila del Benfica, prima della chiamata di Lotito. Nel 2010 il suo trasferimento nella Capitale: per anni ha vissuto dentro il centro sportivo biancoceleste, poi Bernabé si è trasferito alle porte di Roma insieme all'aquila Olympia, sempre al suo fianco. E al fianco dei laziali, nella buona e nella cattiva sorte.
Dopo l'ultimo derby, l'abbiamo vista sul braccio di Sarri sotto la Curva Nord. Sabato sera, era in braccio a Juan mentre esibiva il saluto romano e inneggiava al duce sotto la Tevere. Bernabé, ma ha capito il putiferio che ha scatenato il suo saluto col braccio teso?
«Innanzitutto, non c'entra nulla con la Lazio e per questo sono dispiaciuto. Per me è un saluto militare, io sono nato dentro l'esercito. Ho una cultura di destra, sono del partito Vox come tanti amici calciatori e ne vado orgoglioso. In Spagna il gesto fascista si fa con il braccio piegato sul cuore a livello del petto. In Italia a quanto pare è anche così, non lo sapevo».
Scusi, se non si sente fascista perché urlare Duce Duce?
«È vero, l'ho fatto e non lo rinnego perché io stimo Mussolini, ha fatto tante grandi cose per l'Italia così come Franco in Spagna. Sono un estimatore di entrambi e ne vado fiero».
Quindi, lei si dichiara orgogliosamente fascista? Sa che è un reato?
«Sono un uomo che ha rapporti con tutte le razze, che ha girato il mondo, che fa business in tutto il mondo».
Sarà, ma quello che ha fatto rischia di costarle il posto di lavoro. Lo ha capito?
«A me non è ancora arrivato nessun comunicato di sospensione dalla Lazio, ma lo sto aspettando. È nell'aria, lo so già a livello informale ed è giusto».
Ammette le sue colpe?
Sono responsabile di ciò che ho fatto. È stato un impulso legato all'euforia del post partita dopo un grande successo. Non sapevo fosse vietato quel modo di esultare nel vostro paese, altrimenti non l'avrei fatto. Non volevo mettere in difficoltà la Lazio. Ma sono qui, sono uomo e come tale pronto a pagarne le conseguenze subito».
Dopo tanti anni, era diventato un beniamino del tifo.
«Sì, è vero. Tutti i tifosi ormai per strada mi fermano, ma queste cose fanno parte della vita. Ci sono momenti brutti e belli, ma io ho superato anche di peggio».
Si riferisce alla malattia contro cui ha combattuto e per la quale era sparito dall'Olimpico?
«Certo. E poi anche il Covid ci si è messo di mezzo. Non solo per me, anche per Olympia è stato molto difficile in questi mesi, perché a causa dei blocchi internazionali sono rimasto lontano per molto tempo. Poi ho ottenuto un'autorizzazione per allenarci insieme, ma non posso dimenticare il lavoro di mio genero Matteo, che è anche sceso in campo al mio posto. Quando sono tornato ho vissuto momenti speciali, ogni giorno Olympia cantava sentendo la mia voce ed è qualcosa di forte a livello emotivo».
Non farà più parte dello show.
«Vedremo...»
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