5 settembre 1938: il Re firma il primo decreto contro gli ebrei
Il 5 settembre del 1938 in Italia fu firmato il primo dei 180 decreti conosciuti come leggi razziali. La prima di queste leggi ordinava l’esclusione degli ebrei dalla scuole e fu firmata dal re Vittorio Emanuele III mentre si trovava nella sua villa in Toscana, dopo avere fatto colazione e dopo una passeggiata al mare. Le leggi razziali, promulgate dal regime fascista, sono un serie di regi decreti legge, ordinanze e circolari contro le persone di religione ebraica.
In occasione del 70esimo anniversario, nell'autunno del 2008 l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale e il Centro di Studi ebraici organizzarono due giornate di studio sulle leggi razziali in Italia. A Francesco Soverina, all'epoca responsabile della ricerca scientifica dell'Istituto campano di storia della Resistenza, fu affidato il tema "Le leggi razziali del regime fascista: un
capitolo imbarazzante della storia italiana". Lo storico contesta le interpretazioni riduzioniste e inquadra la vicenda nel più ampio contesto dell'ondata antisemita in Europa e dalle spinte alla "difesa della razza" che la proclamazione dell'Impero suscitava. Ecco l'introduzione dell'intervento, pubblicato integralmente in allegato.
I provvedimenti del 1938 vanno collocati, invece, entro un fondale ancor più ampio. Più che l’allineamento con la Germania hitleriana, pesano nello spingere Mussolini ad intraprendere la campagna antiebraica da un lato la necessità di «rifare il carattere degli italiani» mantenendo il Paese in uno stato di mobilitazione permanente, dall’altro l’estendersi della persecuzione antisemita in campo internazionale. Polonia e Romania nel 1937, Ungheria nell’aprile 1938 e Austria un mese dopo avevano già adottato una legislazione discriminatoria. Il Duce non vuole essere secondo a nessuno e inoltre, rinsaldando i legami con il Führer, si ripromette di venir fuori dalla situazione di isolamento determinatasi in seguito alle sanzioni per l’aggressione contro l’Etiopia. Dopo la Germania nazista è l’Italia fascista il primo Paese in Europa a introdurre una normativa antiebraica su base razzistico-biologica. Neppure nell’Europa Orientale, benché l’antisemitismo fosse molto radicato, si era arrivati a tanto, limitandosi ad emanare divieti e restrizioni, per quanto molto pesanti. E su alcuni punti il fascismo va oltre persino rispetto al nazismo. Come ha messo in evidenza Valerio Di Porto, nella Germania di Hitler non c’è una norma sull’espulsione generalizzata degli ebrei stranieri paragonabile a quella italiana del 1938 e l’allontanamento degli ebrei dalle scuole ha un andamento più graduale. Con l’adozione su larga scala dell’antisemitismo, il 1938 si configura come anno cruciale per l’ebraismo europeo. Le varie legislazioni antisemite faciliteranno, infatti, di lì a poco il compito della macchina di sterminio nazista, consentendo una rapida e precisa identificazione delle vittime. In Italia, proprio nel 1938, si ha il passaggio da un razzismo intermittente, coltivato da alcune componenti estremistiche del regime, ad un razzismo di Stato, le cui premesse sono da un lato la «demografia totalitaria» del fascismo, volta a promuovere l’incremento della popolazione, dall’altro l’avvio di una politica di protezione della razza in seguito alla conquista coloniale dell’Abissinia. Al 3 marzo 1937 risalgono i Provvedimenti per l’incremento demografico della nazione, basati sui «doveri patriottici» della donna, in vista della fascistizzazione integrale. Più in generale nella politica demografica del fascismo, in cui si coglie la preoccupazione per il motivo spengleriano del declino dell’Occidente, è centrale la questione della natalità.
Le leggi razziali del regime fascista: un capitolo imbarazzante della storia italiana
Il varo, ad opera del fascismo, delle leggi razziali nel 1938 rinvia alla problematica delle radici e dell’onda lunga del razzismo in Italia, alla straordinaria indulgenza degli italiani con la propria storia. Il mito autoassolutorio degli «italiani brava gente» è uno stereotipo in larga misura infondato, come la storiografia ha dimostrato negli ultimi decenni. Si pensi alla deportazione e al massacro delle popolazioni libiche nel tentativo di riprendere il controllo, nei primi anni Trenta, di un possedimento coloniale che stava sfuggendo di mano, all’uso massiccio e sistematico dei gas asfissianti nella guerra d’Etiopia (un vero e proprio Olocausto, a lungo dimenticato), ai progetti di «genocidio culturale» e di «bonifica etnica», allo sterminio programmatico nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale. Secondo una chiave di lettura che finisce con il ridimensionare responsabilità del fascismo e degli italiani, l’antisemitismo, incluso nel 1938 tra i cardini dell’assetto statuale del regime, viene raffigurato nel nostro Paese come un fenomeno avventizio, capace di dar luogo ad una persecuzione essenzialmente sul terreno dei diritti, ma lungi dal reggere il confronto con quanto esso determina in Germania e nel Nuovo Ordine del Terzo Reich. Le misure del 1938 sono presentate – è questa la tesi riconducibile alla ricostruzione di Renzo De Felice – come una conseguenza dell’alleanza del fascismo con il nazismo, un effetto della linea di politica estera maturata a partire dalle decisioni prese da Mussolini intorno alla metà degli anni Trenta.I provvedimenti del 1938 vanno collocati, invece, entro un fondale ancor più ampio. Più che l’allineamento con la Germania hitleriana, pesano nello spingere Mussolini ad intraprendere la campagna antiebraica da un lato la necessità di «rifare il carattere degli italiani» mantenendo il Paese in uno stato di mobilitazione permanente, dall’altro l’estendersi della persecuzione antisemita in campo internazionale. Polonia e Romania nel 1937, Ungheria nell’aprile 1938 e Austria un mese dopo avevano già adottato una legislazione discriminatoria. Il Duce non vuole essere secondo a nessuno e inoltre, rinsaldando i legami con il Führer, si ripromette di venir fuori dalla situazione di isolamento determinatasi in seguito alle sanzioni per l’aggressione contro l’Etiopia. Dopo la Germania nazista è l’Italia fascista il primo Paese in Europa a introdurre una normativa antiebraica su base razzistico-biologica. Neppure nell’Europa Orientale, benché l’antisemitismo fosse molto radicato, si era arrivati a tanto, limitandosi ad emanare divieti e restrizioni, per quanto molto pesanti. E su alcuni punti il fascismo va oltre persino rispetto al nazismo. Come ha messo in evidenza Valerio Di Porto, nella Germania di Hitler non c’è una norma sull’espulsione generalizzata degli ebrei stranieri paragonabile a quella italiana del 1938 e l’allontanamento degli ebrei dalle scuole ha un andamento più graduale. Con l’adozione su larga scala dell’antisemitismo, il 1938 si configura come anno cruciale per l’ebraismo europeo. Le varie legislazioni antisemite faciliteranno, infatti, di lì a poco il compito della macchina di sterminio nazista, consentendo una rapida e precisa identificazione delle vittime. In Italia, proprio nel 1938, si ha il passaggio da un razzismo intermittente, coltivato da alcune componenti estremistiche del regime, ad un razzismo di Stato, le cui premesse sono da un lato la «demografia totalitaria» del fascismo, volta a promuovere l’incremento della popolazione, dall’altro l’avvio di una politica di protezione della razza in seguito alla conquista coloniale dell’Abissinia. Al 3 marzo 1937 risalgono i Provvedimenti per l’incremento demografico della nazione, basati sui «doveri patriottici» della donna, in vista della fascistizzazione integrale. Più in generale nella politica demografica del fascismo, in cui si coglie la preoccupazione per il motivo spengleriano del declino dell’Occidente, è centrale la questione della natalità.
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