Rapisarda intervista Francesca Mambro: ecco cosa ho detto a mia figlia sulla strage di Bologna
II collega Antonio Rapisarda dalle colonne di Libero, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri intervista, a 40 anni dalla strage di Bologna, Francesca Mambro, che torna a parlare con un quotidiano a 8 anni dall'ultima intervista rilasciata a Giampielro Mughini.
Intervista che riportiamo integralmente.
«Non ho mai sparato a nessuno...». L’ultima volta che ha parlato con un quotidiano è stata otto anni fa, affidando questa verità a Giampiero Mughini su Libero. Francesca Mambro ritorna a farlo oggi con questa lunga intervista. A quarant’anni dal 2 agosto 1980 l’ex militante dei Nar condannata – assieme a Valerio “Giusva” Fioravanti e Luigi Ciavardini – per la strage di Bologna non si è per nulla piegata al peso del luogo comune. Rea confessa per tutte le accuse della stagione della lotta armata, delle quali si è assunta il concorso morale e politico, non ha mai accettato l’onta di quell’eccidio su cui da decenni – basandosi sulla verità di comodo e sulla sentenza di un processo che ha trovato critici feroci in un fronte più che trasversale – la vulgata ha “criminalizzato” l’intera comunità della destra italiana. Anche per questo ha affidato alla vigilia dell’anniversario all’AdnKronos una lettera nella quale, assieme al marito, si è appellata a Giuseppe Conte affinché, ascoltando i suggerimenti di Sergio Mattarella, metta la sua firma sulla desecretazione degli atti, nei quali chi ha potuto visionarli avrebbe scovato le ritorsioni minacciate dall'estrema sinistra palestinese: «Lì – ci spiega –, tra le carte dei nostri servizi a Beirut, sta un movente molto verosimile, qualcosa di molto vicino alla verità».
Suo marito, Valerio Fioravanti, ci ha raccontato che vivete diversamente la ricorrenza del 2 agosto: lui prova a staccare col pensiero, lei in che modo?
«I decenni trascorsi dall’estate del 1980 non hanno mutato il profondo senso di ingiustizia che ho sempre provato nell’essere accusata della strage e semmai l’accusa, e poi le condanne, lo hanno trasformato in ciò che vorrei definire accanimento terapeutico: una persecuzione sia individuale che collettiva».
Domanda di rito: dove eravate quel maledetto giorno?
«Io, mio marito e i miei coimputati non solo non eravamo a Bologna il 2 agosto 1980 ma non c’era la destra del Msi della quale ero militante da quando avevo 14 anni. Inoltre vivo come un insulto l’accusa di mentire»
Ricostruisca il suo scenario.
«La falsificazione storica non ci appartiene, semmai è parte della narrazione messa in atto in questi decenni per dimostrare che il nostro Paese sarebbe potuto diventare comunista non solo con la comprovata influenza sovietica ma con il voto popolare se non ci fossero stati i fascisti, la Cia i servizi deviati, i complotti e soprattutto dei ragazzi di vent’anni che mietevano il terrore perché al servizio di tutti...»
Quest’anno – il quarantennale della strage – è stato diverso?
«Il dolore per non essere riuscita a far arrivare ai parenti di tutte le vittime la nostra estraneità ai fatti non cambia ma sto cercando di farmene una ragione. Il tormento dei parenti chiede risposte e la vendetta è un’erinni incantatrice. Quest’anno non è stato diverso anzi semmai peggiore perché la verità non c’è e la sola che conosco è e resta la nostra innocenza».
La verità giudiziaria, però, indica voi.
«Sì certo, la verità giudiziaria. Confido nella buona volontà e nel coraggio di chi un giorno riscriverà quelle pagine».
Perché non è una «strage fascista»? Perché siete innocenti?
«Perché noi siamo innocenti. Noi sappiamo la verità. La nostra è una verità che non teme confutazioni. Non si può mentire a se stessi, alla propria coscienza: è davanti a quella che devo rispondere per prima cosa che davanti all’indifferenza e al quieto vivere».
Da qualche giorno è tornata fuori – spinta da una fanfara mediatica – l’ipotesi della P2 come mandante e i Nar come esecutori. Avreste ricevuto da Gelli un milione di dollari in contanti pochissimi giorni prima della strage. Come risponde a questa ipotesi?
«Se non ci fossero i morti sullo sfondo a chiedere giustizia e pace, non si dovrebbe rispondere. Quest’accusa è un insulto alla logica, ai fatti, a centinaia e centinaia di condanne per rapina a mano armata inflitte dai tribunali di mezza Italia a noi. Ed è anche un insulto ai nostri amici morti non per difendere Gelli, ma per scappare dalle accuse ingiuste provenienti da Bologna. Ed è un insulto a quei poliziotti e carabinieri contro i quali abbiamo sparato pur di non farci catturare per un crimine che consideravamo immondo. Gelli è un uomo che nella sua vita ha cambiato tutte le bandiere che si potevano cambiare, e lo ha fatto per arricchirsi. Noi di bandiera ne abbiamo avuta una sola, e viviamo di un modesto stipendio».
Altro colpo di scena, che stavolta influisce radicalmente sulle accuse nei vostri confronti, è stata la scomparsa del corpo di Maria Fresu e il lembo del volto di un ignoto: l’ottantaseiesima vittima. Su questo ci sono stati sviluppi o la Procura è ferma e continua ad indagare in un’unica direzione?
Valerio li chiama “i disinquirenti”, quelli che non solo non scoprono un bel niente di nuovo, ma anzi quando compaiono cose nuove, e guarda caso le cose che escono sono “tutte” favorevoli ai condannati “fascisti”, fanno i salti mortali per nascondere, ignorare, archiviare. Mi dispiace molto per i familiari della Fresu, penso al rinnovato dolore della famiglia quando ha scoperto che nella tomba dove hanno portato i fiori per quarant’anni, qualcuno ha nascosto i brandelli di un’altra donna… e mi domando come abbiano potuto i giudici della Corte d’assise che recentemente hanno condannato Cavallini rispondere che no, non è molto importante sapere chi è seppellito al posto della Fresu. Se si facesse il Dna ai parenti di quelle tre donne (compatibili con la Fresu, ndr), senza operazioni dolorose di disseppellimento, si avrebbe la prova scientifica se tra le vittime ce n’è una “misteriosa” oppure no...»
La verità di “comodo” – accusare i Nar – a chi ha fatto comodo?
«Quando saremo tutti più calmi sarà evidente che da un lato i servizi segreti hanno creato la pista neofascista per nascondere una serie di errori sia loro, sia, soprattutto dei politici che allora non seppero gestire le minacce che arrivavano da un gruppo palestinese finanziato dai libici. Detto questo, una certa sinistra si è accodata molto volentieri a questa versione».
Virginia Raggi si è intestata “l’impresa” di aver sfrattato i post-missini dalla storica sede di Colle Oppio. La stessa che frequentava Stefano Recchioni, suo fraterno amico: morì fra le sue braccia ad Acca Larenzia. Lui, come Cecchin, Mantakas e tanti altri, vittime senza giustizia. Lei li ha chiamati «i morti di serie Z»...
«Lo sappiamo. I cittadini di destra valgono poco secondo una certa retorica, e continuano a valere poco anche come vittime…»
Da quell’episodio partì la sua scelta di intraprendere la lotta armata. Se non fosse vero sembrerebbe una sceneggiatura.«Sì, ma non ne parlo volentieri».
Ha mai pensato a cosa sarebbe stata la sua vita senza “polemos”?
«Certo. Se non fossi nata a Roma avrei ascoltato mio padre, sarei entrata in magistratura e mi sarei occupata di minori e forse avrei anche continuato sulla strada della politica istituzionale».
Se guarda l’Italia di oggi che cosa resta, oltre i lutti, di quella stagione?
«Sinceramente non credo di poter dare giudizi e letture. Posso dare la mia testimonianza e cercare come posso e meglio so fare di riparare affinché non accada più».
Vostra figlia si affaccia ai vent’anni. Si ricorda la prima volta che le ha parlato dei suoi vent’anni e del vortice delle esperienze?«In realtà abbiamo cercato sempre di proteggerla perché il male esiste e si nasconde dove meno te lo aspetti ma il Bene può e sa prevalere. Abbiamo cercato di spiegarle che eravamo dei genitori che non piacevano a tutti per le scelte fatte in gioventù e che la nostra storia era stata una storia di amore, amicizia con bande di quartiere che si scontravano e amici che non c’erano più e di quanto e come l’amicizia sia sempre stata importante nel corso della nostra vita. L’amicizia con alcune detenute di sinistra e di Marco Pannella e di tutto un mondo migliore di quello che vorrebbero nascondere e che ci ha riaccolto. Oggi ci sono amici che sanno chi siamo da sempre e per lei sono figure di riferimento dove il Bene non è una favola raccontata per farla dormire».
A quarant’anni dalla strage, si è data una risposta a questa domanda: cosa è successo quel 2 agosto a Bologna?
«Carlos, uno dei terroristi che servivano la causa palestinese, ha detto “l’esplosivo era nostro, ma lo hanno fatto esplodere o gli americani o gli israeliani”. Cossiga diceva che era stato un “incidente dei palestinesi”. Che sia stato un attentato voluto, o un sabotaggio, o un incidente, dai documenti che abbiamo letto non si può capire con certezza. L’unica cosa certa è che la pista neofascista è stata creata a tavolino, ed è falsa al 100%. Talmente falsa che nessuno, un domani, potrà dire “mi sono sbagliato” oppure “sono stato depistato”. Tutti quelli che si sono sbagliati sapevano e sanno benissimo di sbagliarsi. Dio avrà sicuramente pietà di loro».
Intervista che riportiamo integralmente.
«Non ho mai sparato a nessuno...». L’ultima volta che ha parlato con un quotidiano è stata otto anni fa, affidando questa verità a Giampiero Mughini su Libero. Francesca Mambro ritorna a farlo oggi con questa lunga intervista. A quarant’anni dal 2 agosto 1980 l’ex militante dei Nar condannata – assieme a Valerio “Giusva” Fioravanti e Luigi Ciavardini – per la strage di Bologna non si è per nulla piegata al peso del luogo comune. Rea confessa per tutte le accuse della stagione della lotta armata, delle quali si è assunta il concorso morale e politico, non ha mai accettato l’onta di quell’eccidio su cui da decenni – basandosi sulla verità di comodo e sulla sentenza di un processo che ha trovato critici feroci in un fronte più che trasversale – la vulgata ha “criminalizzato” l’intera comunità della destra italiana. Anche per questo ha affidato alla vigilia dell’anniversario all’AdnKronos una lettera nella quale, assieme al marito, si è appellata a Giuseppe Conte affinché, ascoltando i suggerimenti di Sergio Mattarella, metta la sua firma sulla desecretazione degli atti, nei quali chi ha potuto visionarli avrebbe scovato le ritorsioni minacciate dall'estrema sinistra palestinese: «Lì – ci spiega –, tra le carte dei nostri servizi a Beirut, sta un movente molto verosimile, qualcosa di molto vicino alla verità».
Suo marito, Valerio Fioravanti, ci ha raccontato che vivete diversamente la ricorrenza del 2 agosto: lui prova a staccare col pensiero, lei in che modo?
«I decenni trascorsi dall’estate del 1980 non hanno mutato il profondo senso di ingiustizia che ho sempre provato nell’essere accusata della strage e semmai l’accusa, e poi le condanne, lo hanno trasformato in ciò che vorrei definire accanimento terapeutico: una persecuzione sia individuale che collettiva».
Domanda di rito: dove eravate quel maledetto giorno?
«Io, mio marito e i miei coimputati non solo non eravamo a Bologna il 2 agosto 1980 ma non c’era la destra del Msi della quale ero militante da quando avevo 14 anni. Inoltre vivo come un insulto l’accusa di mentire»
Ricostruisca il suo scenario.
«La falsificazione storica non ci appartiene, semmai è parte della narrazione messa in atto in questi decenni per dimostrare che il nostro Paese sarebbe potuto diventare comunista non solo con la comprovata influenza sovietica ma con il voto popolare se non ci fossero stati i fascisti, la Cia i servizi deviati, i complotti e soprattutto dei ragazzi di vent’anni che mietevano il terrore perché al servizio di tutti...»
Quest’anno – il quarantennale della strage – è stato diverso?
«Il dolore per non essere riuscita a far arrivare ai parenti di tutte le vittime la nostra estraneità ai fatti non cambia ma sto cercando di farmene una ragione. Il tormento dei parenti chiede risposte e la vendetta è un’erinni incantatrice. Quest’anno non è stato diverso anzi semmai peggiore perché la verità non c’è e la sola che conosco è e resta la nostra innocenza».
La verità giudiziaria, però, indica voi.
«Sì certo, la verità giudiziaria. Confido nella buona volontà e nel coraggio di chi un giorno riscriverà quelle pagine».
Perché non è una «strage fascista»? Perché siete innocenti?
«Perché noi siamo innocenti. Noi sappiamo la verità. La nostra è una verità che non teme confutazioni. Non si può mentire a se stessi, alla propria coscienza: è davanti a quella che devo rispondere per prima cosa che davanti all’indifferenza e al quieto vivere».
Da qualche giorno è tornata fuori – spinta da una fanfara mediatica – l’ipotesi della P2 come mandante e i Nar come esecutori. Avreste ricevuto da Gelli un milione di dollari in contanti pochissimi giorni prima della strage. Come risponde a questa ipotesi?
«Se non ci fossero i morti sullo sfondo a chiedere giustizia e pace, non si dovrebbe rispondere. Quest’accusa è un insulto alla logica, ai fatti, a centinaia e centinaia di condanne per rapina a mano armata inflitte dai tribunali di mezza Italia a noi. Ed è anche un insulto ai nostri amici morti non per difendere Gelli, ma per scappare dalle accuse ingiuste provenienti da Bologna. Ed è un insulto a quei poliziotti e carabinieri contro i quali abbiamo sparato pur di non farci catturare per un crimine che consideravamo immondo. Gelli è un uomo che nella sua vita ha cambiato tutte le bandiere che si potevano cambiare, e lo ha fatto per arricchirsi. Noi di bandiera ne abbiamo avuta una sola, e viviamo di un modesto stipendio».
Altro colpo di scena, che stavolta influisce radicalmente sulle accuse nei vostri confronti, è stata la scomparsa del corpo di Maria Fresu e il lembo del volto di un ignoto: l’ottantaseiesima vittima. Su questo ci sono stati sviluppi o la Procura è ferma e continua ad indagare in un’unica direzione?
Valerio li chiama “i disinquirenti”, quelli che non solo non scoprono un bel niente di nuovo, ma anzi quando compaiono cose nuove, e guarda caso le cose che escono sono “tutte” favorevoli ai condannati “fascisti”, fanno i salti mortali per nascondere, ignorare, archiviare. Mi dispiace molto per i familiari della Fresu, penso al rinnovato dolore della famiglia quando ha scoperto che nella tomba dove hanno portato i fiori per quarant’anni, qualcuno ha nascosto i brandelli di un’altra donna… e mi domando come abbiano potuto i giudici della Corte d’assise che recentemente hanno condannato Cavallini rispondere che no, non è molto importante sapere chi è seppellito al posto della Fresu. Se si facesse il Dna ai parenti di quelle tre donne (compatibili con la Fresu, ndr), senza operazioni dolorose di disseppellimento, si avrebbe la prova scientifica se tra le vittime ce n’è una “misteriosa” oppure no...»
La verità di “comodo” – accusare i Nar – a chi ha fatto comodo?
«Quando saremo tutti più calmi sarà evidente che da un lato i servizi segreti hanno creato la pista neofascista per nascondere una serie di errori sia loro, sia, soprattutto dei politici che allora non seppero gestire le minacce che arrivavano da un gruppo palestinese finanziato dai libici. Detto questo, una certa sinistra si è accodata molto volentieri a questa versione».
Virginia Raggi si è intestata “l’impresa” di aver sfrattato i post-missini dalla storica sede di Colle Oppio. La stessa che frequentava Stefano Recchioni, suo fraterno amico: morì fra le sue braccia ad Acca Larenzia. Lui, come Cecchin, Mantakas e tanti altri, vittime senza giustizia. Lei li ha chiamati «i morti di serie Z»...
«Lo sappiamo. I cittadini di destra valgono poco secondo una certa retorica, e continuano a valere poco anche come vittime…»
Da quell’episodio partì la sua scelta di intraprendere la lotta armata. Se non fosse vero sembrerebbe una sceneggiatura.«Sì, ma non ne parlo volentieri».
Ha mai pensato a cosa sarebbe stata la sua vita senza “polemos”?
«Certo. Se non fossi nata a Roma avrei ascoltato mio padre, sarei entrata in magistratura e mi sarei occupata di minori e forse avrei anche continuato sulla strada della politica istituzionale».
Se guarda l’Italia di oggi che cosa resta, oltre i lutti, di quella stagione?
«Sinceramente non credo di poter dare giudizi e letture. Posso dare la mia testimonianza e cercare come posso e meglio so fare di riparare affinché non accada più».
Vostra figlia si affaccia ai vent’anni. Si ricorda la prima volta che le ha parlato dei suoi vent’anni e del vortice delle esperienze?«In realtà abbiamo cercato sempre di proteggerla perché il male esiste e si nasconde dove meno te lo aspetti ma il Bene può e sa prevalere. Abbiamo cercato di spiegarle che eravamo dei genitori che non piacevano a tutti per le scelte fatte in gioventù e che la nostra storia era stata una storia di amore, amicizia con bande di quartiere che si scontravano e amici che non c’erano più e di quanto e come l’amicizia sia sempre stata importante nel corso della nostra vita. L’amicizia con alcune detenute di sinistra e di Marco Pannella e di tutto un mondo migliore di quello che vorrebbero nascondere e che ci ha riaccolto. Oggi ci sono amici che sanno chi siamo da sempre e per lei sono figure di riferimento dove il Bene non è una favola raccontata per farla dormire».
A quarant’anni dalla strage, si è data una risposta a questa domanda: cosa è successo quel 2 agosto a Bologna?
«Carlos, uno dei terroristi che servivano la causa palestinese, ha detto “l’esplosivo era nostro, ma lo hanno fatto esplodere o gli americani o gli israeliani”. Cossiga diceva che era stato un “incidente dei palestinesi”. Che sia stato un attentato voluto, o un sabotaggio, o un incidente, dai documenti che abbiamo letto non si può capire con certezza. L’unica cosa certa è che la pista neofascista è stata creata a tavolino, ed è falsa al 100%. Talmente falsa che nessuno, un domani, potrà dire “mi sono sbagliato” oppure “sono stato depistato”. Tutti quelli che si sono sbagliati sapevano e sanno benissimo di sbagliarsi. Dio avrà sicuramente pietà di loro».
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