23-24 agosto 1943. Ammazzate quel fascista. Petacco racconta la fine di Muti
Dal volume di Arrigo Petacco, Ammazzate quel fascista, Mondadori, 2002.
Il 24 agosto 1943, l'agenzia nazionale di stampa Stefani mise a rumore tutte le redazioni con il "lancio" del seguente dispaccio:Questa notte, nei dintorni di Roma, è deceduto l'ex segretario del disciolto partito fascista Ettore Muti, medaglia d'oro al valor militare della guerra di Spagna.
La notizia apparve sui giornali dell'indomani con un titoletto su una colonna e senza una riga di commento. Il giorno successivo la Stefani eseguì un secondo "lancio" meno stringato del primo:
A seguito di accertamento di gravi irregolarità nella gestione di un ente parastatale, nel quale risultava implicato l'ex segretario del partik fascista Ettore Muti, l'Arma dei Carabinieri procedeva nella notte dal 23 al 24 corrente al fermo del Muti a Fregene. Mentre lo si conduceva alla caserma sono stati sparati dal bosco colpi di fucile contro la scorta. Nel momentaneo scompiglio egli si dava alla fuga, ma, inseguito e ferito da colpi di moschetto tirati dai carabinieri, decedeva.
Un'altra informazione ufficiale, diramata alcune ore più tardi, contrastava con le precedenti:
Stamane è stata trasportata all'ospedale militare del Celio con un'autoambulanza la salma del tenente colonnello Ettore Muti. Il Muti è stato colpito alla nuca da un colpo di arma da fuoco. L'autorità giudiziaria ha iniziato pronte indagini per far luce sulla misteriosa morte.
Con queste tre comunicazioni scarne, contraddittorie e confuse veniva liquidato l'unico delitto eccellente compiuto in Italia durante i tormentati "45 giorni di Badoglio". Se qualcuno avesse avuto dubbi sulla fine di Muti, sarebbero certamente bastate quelle poche righe per far intendere che la verità era probabilmente l'opposto di quanto si voleva far credere. Ossia che si trattava di un omicidio comandato per togliere di mezzo un personaggio scomodo o pericoloso. Ma si era in tempo di guerra, la stampa era controllata, ai giornalisti non era consentito svolgere indagini e tutto venne sbrigato alla svelta e senza clamori.
Si diede per scontato che Muti era stato ucciso mentre tentava la fuga; i risultati della frettolosa inchiesta non furono resi noti; nessuno rivelò qual era l'ente parastatale coinvolto nelle "irregolarità" e non furono naturalmente resi noti i nomi dei componenti la pattuglia mandata ad arrestarlo. Due giorni dopo Muti fu sepolto senza onori, sebbene si trattasse di un eroe di guerra. La salma era stata trasferita nottetempo al cimitero del Verano e venne tumulata alle 15 alla presenza di una ventina di persone, tra le quali la moglie, la figlia, le sorelle, qualche amico e due passanti che si erano uniti al mesto corteo quando avevano saputo che si trattava del funerale di Ettore Muti.
A mamma Celestina, rimasta a Ravenna e già in ansia perché il 24 agosto, giorno del suo compleanno, non aveva ricevuto il consueto telegramma d'auguri che Ettore, ovunque si trovasse, non aveva mai dimenticato di inviarle, era stato detto che il figlio era morto a Bengasi, per cause di guerra (soltanto dieci anni dopo scoprirà, per puro caso, la verità leggendo un giornale). Si racconta inoltre che, mentre la bara veniva calata nella fossa, un aereo rimasto sconosciuto, dopo aver volteggiato sopra il cimitero, scese a bassa quota e lasciò cadere una corona di fiori.
Ma di questo episodio, come della cerimonia funebre e del prosieguo delle indagini, non fu data alcuna notizia dai giornali e sul caso Muti cadde rapidamente il silenzio. Per il governo Badoglio quella sporca storia andava dimenticata al più presto. Negli ambienti più ristretti della capitale, però, la notizia della morte di Muti destò scalpore, proteste e risentimenti. Appena ne fu informato, il questore Benedetto Norcia, amico intimo dell'ucciso, sentendosi "colpevole" per aver stabilito i contatti fra Muti e Senise, presentò indignato le proprie dimissioni.
Fu colto di sorpresa persino il capo della polizia, anche se la cosa appare piuttosto strana, considerato l'incarico da lui ricoperto. Ma che si sia trattato effettivamente di uno stupore sincero lo documenta un'infuocata telefonata mattutina intercorsa fra Carmine Senise e il ministro degli Interni Umberto Ricci. (...)
Aria diversa si respirava invece quella mattina nello studio di Pietro Badoglio al Viminale. A portargli la notizia era stato il generale Giacomo Carboni, che nelle sue memorie, rievocando quell'incontro, sembra scandalizzarsi per la reazione soddisfatta del Maresciallo all'annuncio dell'uccisione di Muti. Non manca infatti di esprimere per l'accaduto sentimenti di contrizione e di pietà che appaiono, a dir poco, sorprendenti visto che era stato Carboni a convincere Badoglio dell'esistenza del "complotto", nonché a organizzare l'operazione di polizia conclùsasi poi a quel modo.
Ma ecco cosa racconta Carboni:
Quando la mattina, dopo avere ricevuto di buonora la relazione di Cerica, mi presentai al Viminale per comunicare la notizia a Badoglio, il Maresciallo non nascondeva la propria esultanza e la esprimeva con espansioni non in armonìa con il doloroso incidente verificàtosi, nel quale un soldato aveva perso la vita. Sul fatto egli fece pubblicare un comunicato di contenuto inopportuno, anche perché rivelava dell'acrèdine, e per il quale mi recai a protestare. Ne venne allora preparato un altro, che risultò peggiore del primo, ma che, fortunatamente, non venne diramato. Il Capo della polizia, Senise, tentò di inscenare sulla morte di Muti una strana e torbida manovra, tanto improvvisa da farla sospettare premeditata, e che troncai con un brusco intervento durante una riunione alla presenza del ministro Ricci.
La "torbida manovra" sarebbe consistita nel fatto che il ministro Ricci, dopo la morte di Muti, aveva convocato nel suo ufficio i generali Cerica e Carboni e, in presenza di Senise, li aveva ammoniti a non procedere più per conto proprio, perché la direzione delle operazioni di polizia politica era di esclusiva competenza del ministro dell'Interno.
"Dopo di che" racconterà Senise "il ministro Ricci pregò Carboni di comunicargli gli elementi raccolti a carico di Muti e le prove del "complotto" fascista da lui stesso denunciato. Ma Carboni rifiutò." Come si può facilmente dedurre da queste testimonianze contrastanti, uno dei due non raccontava la verità e si è portati a credere che il bugiardo non fosse il capo della polizia. Senise, come sappiamo, non riteneva Muti pericoloso e aveva sempre rifiutato di credere al fantomatico complotto fascista denunciato da Carboni. Ma a questo punto va anche detto, per correttezza, che il capo della polizia, pur ritenendo Carboni responsabile del "pasticciaccio" di Fregene, respingeva l'ipòtesi del delitto premeditato. "E' impossibile credere" osserverà infatti Senise nel dopoguerra, quando il caso sarà riesaminato "che se si pensava di sopprimere Muti, i carabinieri si regolassero con tanta superficialità e leggerezza, agendo di notte e in una pineta popolata.
C'erano mille altri sistemi più comodi, meno chiassosi e infinitamente più sicuri per far trovare il cadavere di Muti in un luogo qualunque, con una sventagliata di mitra nel petto. Per la verità, a parte l'evidente gioco a scaricabarile messo in atto da Carboni, nonché le versioni ingarbugliate e contraddittorie che vennero diffuse, forse si potrebbe anche condividere l'opinione del capo della polizia, secondo il quale l'uccisione di Muti sarebbe stata accidentale. Ma non si può non tener conto del momento particolare in cui si verificò il tragico episodio e della fretta e della paura che attanagliavano i suoi ispiratori.
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