Padova 17 Giugno 1974: cosi Iniziarono a uccidere le Brigate Rosse
(G.p)Oggi ricorre il quarantaseiesimo anniversario della morte di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, primi morti della Brigate Rosse. Accadde a Padova, in via Zabarella 24 durante un assalto nella federazione patavina del Movimento Sociale Italiano Destra Nazionale.
Per la morte dei due militanti missini sono stati condannati per concorso morale Renato Curcio Mario Moretti ed Alberto Franceschini, come esecutori Susanna Ronconi, Roberto Ognibene, Fabrizio Pelli, Giorgio Semeria, Martino Serafini.
Lo scrittore Gianpaolo Pansa, nel suo ultimo libro, La Destra siamo noi, contro storia della destra italiana da Scelba a Salvini, decida alcune pagine anche al primo omicidio politico commesso dalle Brigate Rosse il 17 giugno del 1974, di cui volentieri e fedelmente pubblichiamo uno stralcio.
Lo scrittore Gianpaolo Pansa, nel suo ultimo libro, La Destra siamo noi, contro storia della destra italiana da Scelba a Salvini, decida alcune pagine anche al primo omicidio politico commesso dalle Brigate Rosse il 17 giugno del 1974, di cui volentieri e fedelmente pubblichiamo uno stralcio.
«Il 1974 non fu soltanto l'anno del referendum sul divorzio» osservò Morsi. «Vide anche il primo delitto delle Brigate Rosse. In quel caso la destra si dimostrò più perspicace della sinistra. Se non ricordo male, insieme ai due missini di Padova, uccisi il 17 giugno 1974, le Br accopparono anche la credibilità di gran parte della stampa italiana. In quel periodo, lei lavorava per il Corriere della Sera. La spedirono a Padova per raccontare quel che era accaduto?»
«No. Venivo da una lunga serie di servizi sul caso Sossi, il magistrato sequestrato a Genova dalle Brigate Rosse. Il Corriere mandò a Padova un altro collega, Mino Durand, che si comportò bene. A comportarsi male furono gli inviati di parecchi altri giornali, che confermarono uno dei vizi più assurdi dell'informazione italiana Ho scritto un libro, Carte false, per liberarmi del fastidio che mi davano i giornalisti disposti a parteggiare per questo o quel partito. Colleghi che rifiutavano di vedere la realtà e avevano occhio soltanto per ciò che faceva comodo al clan politico o all'ideologia che si erano decisi a servire.
«Per quello che riguardava le Brigate Rosse» continuai, «i giornalisti dimezzati, come li avevo chiamati su Repubblica, erano inchiodati a due idee fisse. La prima sosteneva che le Br erano bande della destra camuffate. La seconda recitava: il nemico numero uno della democrazia non è la sinistra rivoluzionaria che spara, bensì il neofascismo di Giorgio Almirante».A Padova tutto accadde la mattina di quel lunedì di prima estate. Su una scena in apparenza banale: un condominio di via Zabarella al 24, nel centro di Padova. Al secondo piano del palazzo c'era la sede provinciale del Msi. Appena due stanze: un ingresso e l'ufficio del segretario di federazione. Nella prima camera stava il custode, Giuseppe Mazzola, sessant'anni, un ex appuntato dei carabinieri. Per ironia della sorte, non era neppure iscritto al partito di Almirante perché aveva sentimenti monarchici.
In quel momento, nel bilocale si trovava anche Graziano Giralucci, ventinove anni, agente di commercio in articoli sanitari. Doveva parlare con Mazzola che aveva bisogno di un paio di rubinetti nuovi. Era stato iscritto al Msi, poi se ne era distaccato, ma stava pensando di richiedere la tessera. Era un giovane aitante e robusto che aveva giocato a rugby. Entrambi erano sposati e con figli. Nessuno dei due si accorse in tempo dell'irruzione di un commando di brigatisti. In tutto, compresi quelli rimasti all'esterno dell'ufficio, erano cinque: tre uomini e due donne. Una era la veterana del terrorismo rosso: Mara Cagol, moglie di Renato Curcio, il leader brigatista. Aspettava in strada l'esito della spedizione, dentro una Fiat 124. La guidava lei, l'unica del quintetto a saperlo fare. L'altra donna era una recluta alla sua prima azione: Susanna Ronconi. Le Br si erano installate a Padova da qualche tempo. Avevano una base in periferia, una casupola a due piani, arredata in modo sommario. Di lì si mossero per dare l'assalto a un obiettivo che, sbagliando, ritenevano importante. Attraversarono la città tutti e cinque sulla stessa macchina, andando adagio. Con l'aria dei turisti arrivati per visitare la Basilica di Sant'Antonio.
I due brigatisti entrati nella sede missina erano di Reggio Emilia: Fabrizio Pelli e Roberto Ognibene. Loro, oppure Curcio, avevano deciso la spedizione convinti che nell'ufficio del segretario federale fossero custoditi molti documenti segreti sul neofascismo veneto e sulle trame nere che avevano per centro Padova e il suo territorio. Ordinarono a Mazzola di consegnare le chiavi dell'ufficio riservato al dirigente. Lui si rifiutò e insieme a Giralucci reagì. Con l'unica arma che avevano: pugni e calci. Ci fu una breve colluttazione e i due terroristi la risolsero uccidendo Mazzola e Giralucci a rivoltellate. Un'esecuzione feroce a sangue freddo, conclusa da colpi sparati alla nuca dei due uomini. Poi Ognibene e Pelli scapparono. Lo stesso fecero i tre complici in attesa. La Ronconi sulla scala, la Cagol e il quinto terrorista in strada nella 124. A conti fatti, fu un assassinio senza motivo, dal momento che nella sede missina non esisteva nessuna delle carte riservate che i terroristi cercavano.
Il giorno successivo, martedì 18 giugno, le Br rivendicarono il delitto con un comunicato fatto ritrovare a Padova e a Milano, dopo una telefonata al Corriere della Sera. Il volantino non si prestava a dubbi. Spiegava che Mazzola e Giralucci erano stati giustiziati perché avevano reagito all'irruzione. Ma si guardava bene dal dire che l'obiettivo dell'incursione era l'inutile ricerca di documenti segreti sull'eversione neofascista. I terroristi non volevano ammettere di aver preso un abbaglio terribile.
«No. Venivo da una lunga serie di servizi sul caso Sossi, il magistrato sequestrato a Genova dalle Brigate Rosse. Il Corriere mandò a Padova un altro collega, Mino Durand, che si comportò bene. A comportarsi male furono gli inviati di parecchi altri giornali, che confermarono uno dei vizi più assurdi dell'informazione italiana Ho scritto un libro, Carte false, per liberarmi del fastidio che mi davano i giornalisti disposti a parteggiare per questo o quel partito. Colleghi che rifiutavano di vedere la realtà e avevano occhio soltanto per ciò che faceva comodo al clan politico o all'ideologia che si erano decisi a servire.
«Per quello che riguardava le Brigate Rosse» continuai, «i giornalisti dimezzati, come li avevo chiamati su Repubblica, erano inchiodati a due idee fisse. La prima sosteneva che le Br erano bande della destra camuffate. La seconda recitava: il nemico numero uno della democrazia non è la sinistra rivoluzionaria che spara, bensì il neofascismo di Giorgio Almirante».A Padova tutto accadde la mattina di quel lunedì di prima estate. Su una scena in apparenza banale: un condominio di via Zabarella al 24, nel centro di Padova. Al secondo piano del palazzo c'era la sede provinciale del Msi. Appena due stanze: un ingresso e l'ufficio del segretario di federazione. Nella prima camera stava il custode, Giuseppe Mazzola, sessant'anni, un ex appuntato dei carabinieri. Per ironia della sorte, non era neppure iscritto al partito di Almirante perché aveva sentimenti monarchici.
In quel momento, nel bilocale si trovava anche Graziano Giralucci, ventinove anni, agente di commercio in articoli sanitari. Doveva parlare con Mazzola che aveva bisogno di un paio di rubinetti nuovi. Era stato iscritto al Msi, poi se ne era distaccato, ma stava pensando di richiedere la tessera. Era un giovane aitante e robusto che aveva giocato a rugby. Entrambi erano sposati e con figli. Nessuno dei due si accorse in tempo dell'irruzione di un commando di brigatisti. In tutto, compresi quelli rimasti all'esterno dell'ufficio, erano cinque: tre uomini e due donne. Una era la veterana del terrorismo rosso: Mara Cagol, moglie di Renato Curcio, il leader brigatista. Aspettava in strada l'esito della spedizione, dentro una Fiat 124. La guidava lei, l'unica del quintetto a saperlo fare. L'altra donna era una recluta alla sua prima azione: Susanna Ronconi. Le Br si erano installate a Padova da qualche tempo. Avevano una base in periferia, una casupola a due piani, arredata in modo sommario. Di lì si mossero per dare l'assalto a un obiettivo che, sbagliando, ritenevano importante. Attraversarono la città tutti e cinque sulla stessa macchina, andando adagio. Con l'aria dei turisti arrivati per visitare la Basilica di Sant'Antonio.
I due brigatisti entrati nella sede missina erano di Reggio Emilia: Fabrizio Pelli e Roberto Ognibene. Loro, oppure Curcio, avevano deciso la spedizione convinti che nell'ufficio del segretario federale fossero custoditi molti documenti segreti sul neofascismo veneto e sulle trame nere che avevano per centro Padova e il suo territorio. Ordinarono a Mazzola di consegnare le chiavi dell'ufficio riservato al dirigente. Lui si rifiutò e insieme a Giralucci reagì. Con l'unica arma che avevano: pugni e calci. Ci fu una breve colluttazione e i due terroristi la risolsero uccidendo Mazzola e Giralucci a rivoltellate. Un'esecuzione feroce a sangue freddo, conclusa da colpi sparati alla nuca dei due uomini. Poi Ognibene e Pelli scapparono. Lo stesso fecero i tre complici in attesa. La Ronconi sulla scala, la Cagol e il quinto terrorista in strada nella 124. A conti fatti, fu un assassinio senza motivo, dal momento che nella sede missina non esisteva nessuna delle carte riservate che i terroristi cercavano.
Il giorno successivo, martedì 18 giugno, le Br rivendicarono il delitto con un comunicato fatto ritrovare a Padova e a Milano, dopo una telefonata al Corriere della Sera. Il volantino non si prestava a dubbi. Spiegava che Mazzola e Giralucci erano stati giustiziati perché avevano reagito all'irruzione. Ma si guardava bene dal dire che l'obiettivo dell'incursione era l'inutile ricerca di documenti segreti sull'eversione neofascista. I terroristi non volevano ammettere di aver preso un abbaglio terribile.
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