18 maggio 1960: muore Marcello Piacentini. Disegnò il linguaggio del potere fascista
Se ancora oggi in decine di centri urbani italiani è facile riconoscere l'heritage fascista, da via Roma a Torino alla napoletana piazza Matteotti (nella foto di Michael Karavanov, CC BY-SA 3.0: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50490267), è grazie allo straordinario ruolo di protagonista che Marcello Piacentini, l'architetto del regime morto sessantun anni fa, seppe raggiungere.
Questo suo potere diventa per Paolo Nicoloso la chiave di lettura per proporre la storia della sua vita come biografia della nazione:
La biografia di una nazione di norma si affronta attraverso le vite degli uomini illustri che l’hanno fondata o cambiata irrimediabilmente, ma se i casi classici delle biografie di Napoleone scritta da Max Gallo o quella di Garibaldi scritta da Denis Mack Smith o anche l’opera in tre volumi di Renzo De Felice su Mussolini sono, alla fine dei conti, storie nazionali narrate in modo piuttosto ovvio, quella invece pubblicata da Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia (Gaspari Editore, Udine, euro 24,50) riesce per una volta a riempire di significato quell’aggettivo svuotato che è oggi il termine “straordinario”. Nicoloso infatti, che da moti anni studia a fondo la storia dell’architettura e dell’urbanistica comprese fra le due guerre mondiali, ha voluto rovesciare il suo precedente Mussolini architetto (Einaudi 2008) – una storia dei lavori pubblici del ventennio fascista – nella biografia dell’architetto che più di tutti ha lavorato allora e che – questa la tesi di fondo – ha voluto illudere il duce di essere lui l’architetto supremo, facendo propri i suoi slogan e idee di città per ingraziarselo ottenendo così il massimo riconoscimento pubblico, mentre viceversa quasi tutto restava nelle saldissime mani piacentiniane. Nel farsi interprete di Mussolini, cui permetteva di aggiungere segni e schizzi ai suoi progetti in bella copia, Piacentini si faceva interprete non già della tanto mitizzata politica culturale del fascismo, quanto piuttosto di tutte le oscillazioni opportunistiche e propagandistiche di un regime camaleontico in cui la “camaleontesca adattabilità” piacentiniana (definizione di Roberto Farinacci che lo attaccava da destra, come anche gli strapaesani Maccari e Longanesi) ha brillato più di tutte. LEGGI TUTTO
Per Luigi Prestinenza Puglisi, autore di una strepitosa galleria di ritratti di architetti, la straordinaria capacità di gestione del potere e di navigazione nei marosi del regime, fanno invece di Marcello Piacentini un democristiano ante litteram:
La più bella, profonda e insolente critica a Marcello Piacentini l’ha scritta Bruno Zevi il 29 maggio 1960. Cioè a undici giorni dalla morte. “Nel 1925” ‒ dice Zevi dell’architetto che per lungo tempo era stato il dominus dell’architettura in Italia ‒ “Piacentini era in grado di far compiere all’architettura italiana una svolta capace di reinnestarla nel circuito europeo. Aveva i giovani dalla sua parte: i vecchi lo adoravano e comunque lo proteggevano… A questo punto invece si esaurisce il contributo… I motivi che determinarono, all’età di 44 anni, la morte dell’architetto sono materia di psicologia… In compenso? Fu accademico d’Italia, preside della facoltà di architettura, despota incontrastato del regime, capo di una scuola di cui si può dire soltanto che i seguaci sono peggiori del maestro… Per questo, nel momento in cui Piacentini ci lascia dopo una lunga malattia che ha sedato rancori e vanificato le polemiche, val meglio ripensare al giovane che possedeva ogni requisito per diventare uno dei più qualificati architetti europei e perì a 44 anni”.
Credo non si possa dire di meglio sul personaggio. Eppure c’è sempre stato qualcosa in queste affermazioni che non mi convinceva. Perché il giudizio morale si sovrappone a quello architettonico. Il Piacentini lodato da Zevi è il progettista ante 1925, cioè quello delle palazzine che si rifacevano alla tradizione eclettica, viennese e finanche liberty, quale la palazzina Allegri a via Nicotera o le abitazioni in via Porpora, tutte a Roma. Opere che al massimo gli sarebbero valse una citazione distratta in qualche testo di storia dell’architettura. Ma che certo hanno poco a che vedere con l’operazione importante che Piacentini svolse: mettere in chiaro, con dei testi architettonici, il linguaggio del potere, misurandosi abilmente sia con la grandezza sia con la povertà di un ventennio che ha portato l’Italia alla vergogna delle leggi razziali e al disastro di una guerra mondiale, ma anche al boom edilizio e a un tentativo di modernizzazione, sia pure ambiguo e all’italiana.
Questo suo potere diventa per Paolo Nicoloso la chiave di lettura per proporre la storia della sua vita come biografia della nazione:
La biografia di una nazione di norma si affronta attraverso le vite degli uomini illustri che l’hanno fondata o cambiata irrimediabilmente, ma se i casi classici delle biografie di Napoleone scritta da Max Gallo o quella di Garibaldi scritta da Denis Mack Smith o anche l’opera in tre volumi di Renzo De Felice su Mussolini sono, alla fine dei conti, storie nazionali narrate in modo piuttosto ovvio, quella invece pubblicata da Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia (Gaspari Editore, Udine, euro 24,50) riesce per una volta a riempire di significato quell’aggettivo svuotato che è oggi il termine “straordinario”. Nicoloso infatti, che da moti anni studia a fondo la storia dell’architettura e dell’urbanistica comprese fra le due guerre mondiali, ha voluto rovesciare il suo precedente Mussolini architetto (Einaudi 2008) – una storia dei lavori pubblici del ventennio fascista – nella biografia dell’architetto che più di tutti ha lavorato allora e che – questa la tesi di fondo – ha voluto illudere il duce di essere lui l’architetto supremo, facendo propri i suoi slogan e idee di città per ingraziarselo ottenendo così il massimo riconoscimento pubblico, mentre viceversa quasi tutto restava nelle saldissime mani piacentiniane. Nel farsi interprete di Mussolini, cui permetteva di aggiungere segni e schizzi ai suoi progetti in bella copia, Piacentini si faceva interprete non già della tanto mitizzata politica culturale del fascismo, quanto piuttosto di tutte le oscillazioni opportunistiche e propagandistiche di un regime camaleontico in cui la “camaleontesca adattabilità” piacentiniana (definizione di Roberto Farinacci che lo attaccava da destra, come anche gli strapaesani Maccari e Longanesi) ha brillato più di tutte. LEGGI TUTTO
Per Luigi Prestinenza Puglisi, autore di una strepitosa galleria di ritratti di architetti, la straordinaria capacità di gestione del potere e di navigazione nei marosi del regime, fanno invece di Marcello Piacentini un democristiano ante litteram:
La più bella, profonda e insolente critica a Marcello Piacentini l’ha scritta Bruno Zevi il 29 maggio 1960. Cioè a undici giorni dalla morte. “Nel 1925” ‒ dice Zevi dell’architetto che per lungo tempo era stato il dominus dell’architettura in Italia ‒ “Piacentini era in grado di far compiere all’architettura italiana una svolta capace di reinnestarla nel circuito europeo. Aveva i giovani dalla sua parte: i vecchi lo adoravano e comunque lo proteggevano… A questo punto invece si esaurisce il contributo… I motivi che determinarono, all’età di 44 anni, la morte dell’architetto sono materia di psicologia… In compenso? Fu accademico d’Italia, preside della facoltà di architettura, despota incontrastato del regime, capo di una scuola di cui si può dire soltanto che i seguaci sono peggiori del maestro… Per questo, nel momento in cui Piacentini ci lascia dopo una lunga malattia che ha sedato rancori e vanificato le polemiche, val meglio ripensare al giovane che possedeva ogni requisito per diventare uno dei più qualificati architetti europei e perì a 44 anni”.
Credo non si possa dire di meglio sul personaggio. Eppure c’è sempre stato qualcosa in queste affermazioni che non mi convinceva. Perché il giudizio morale si sovrappone a quello architettonico. Il Piacentini lodato da Zevi è il progettista ante 1925, cioè quello delle palazzine che si rifacevano alla tradizione eclettica, viennese e finanche liberty, quale la palazzina Allegri a via Nicotera o le abitazioni in via Porpora, tutte a Roma. Opere che al massimo gli sarebbero valse una citazione distratta in qualche testo di storia dell’architettura. Ma che certo hanno poco a che vedere con l’operazione importante che Piacentini svolse: mettere in chiaro, con dei testi architettonici, il linguaggio del potere, misurandosi abilmente sia con la grandezza sia con la povertà di un ventennio che ha portato l’Italia alla vergogna delle leggi razziali e al disastro di una guerra mondiale, ma anche al boom edilizio e a un tentativo di modernizzazione, sia pure ambiguo e all’italiana.
Insomma: nessuno rappresentò il fascismo e l’Italia, compresa l’Italietta della borghesia di quegli anni, meglio di lui. LEGGI TUTTO
Marcello Piacentini, Viale della Conciliazione, Roma.
Marcello Piacentini, Viale della Conciliazione, Roma.
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