25 aprile 1959 nasce a Chieti Francesca Mambro
Figlia di un poliziotto, nata a Chieti il 25 aprile (del 1959), cresciuta in una casa popolare del Tuscolano, avamposto nero nella sterminata periferia sud–orientale di Roma, Francesca Mambro diventa fascista in prima magistrale, per spirito di contraddizione (un motivo più valido di quello di Daniela Di Sotto in Fini, che veste di nero per nascondere l’obesità, è classificata come fascista dalla rozza compagneria della scuola e si adegua). Alla spalle un’istintiva propensione ai giochi e ai ruoli da maschiaccio. E infatti Francesca sarà l’unica donna con responsabilità operative nella guerriglia nera. Frequenta il Fronte della gioventù di Sommacampagna e poi via Noto, un covo sistematico bersaglio delle incursioni degli autonomi (molotov al catrame ustionano nove camerati, due dei quali ridotti in fin di vita, mentre in un attacco al contiguo Msi di via Quinto Pedio, il 17 gennaio 1975, rischierà di restare carbonizzata la futura moglie del leader di Alleanza nazionale: i capelli lunghi un metro sono facile esca per il fuoco devastante degli ordigni chimici). Francesca ha una naturale vocazione per il fascismo sociale e così a 16 anni è attivista di Lotta popolare. Comincia a frequentare la sezione Prenestino, il cui segretario, Luigi D’Addio, guida la frazione peronista missina. L’uccisione di Zicchieri davanti alla sede da un commando delle Formazioni comuniste armate (la banda di Morucci che poi confluirà nella nascente colonna romana delle Br) la sconvolge. La decisa richiesta di una rappresaglia armata porta all’espulsione di Signorelli, di Romolo Sabatini, segretario di piazza Bologna e di D’Addio.
Dopo l’omicidio Pedenovi – a 17 anni – è arrestata per un blocco stradale ma dopo una settimana è prosciolta. Negli scontri è sempre la più decisa: la arrestano anche dopo la morte di Recchioni. Le era caduto tra le braccia mentre infuriava la guerriglia in via Acca Larentia, dopo l’uccisione di due camerati (nell’occasione fu ferito da un lacrimogeno alla gamba Gianfranco Fini, segretario nazionale del Fronte). Recchioni era stato colpito alla testa da un proiettile sparato dal capitano dei carabinieri Sivori ed era morto dopo due giorni di agonia: “Io posso ricordare – racconterà in televisione –il colore degli occhi della prima persona che mi è morta vicino, per esempio: azzurri, molto belli, che però si sarebbero chiusi. Era Stefano Recchioni”. Il giorno dei funerali è lì, puntuale, per gli scontri: è tra i 37 fermati per blocco stradale. Tutti assolti (tranne uno). Lei era già una leader nell’area più radicale del Fuan ma il massacro segnerà la sua vita, con la scelta definitiva delle armi.
A cavallo tra San Silvestro e l’Epifania, immediatamente prima della strage, avevano assaltato a colpi di molotov le redazioni dell’Espresso e del Corriere della Sera. La seconda azione, la sera del 4 gennaio 1978, era stata rivendicata con una telefonata da Francesca: sua era la sigla NAR, adottata per l’occasione. Perde consistenza il mito difensivo di una scelta armata maturata come esigenza di sopravvivenza alla pressione esorbitante dei compagni. A questa traiettoria ha piuttosto concorso l’atteggiamento ufficiale del Msi, troppo remissivo per i militanti di frontiera che si sono sentiti lasciati allo sbaraglio.
Francesca fino al passaggio in clandestinità resterà con un piede nel Msi (il Fuan, a differenza del Fronte che dipende dal segretario del partito, è formalmente autonomo). L’8 marzo entra in azione un commando di Donne rivoluzionarie, composto da militanti del Fuan. Quando Francesca si accorge che i maschietti, senza dirlo per non offenderle, erano venuti a fare la “copertura”, si incazza di brutto. La sua versione processuale è diversa: ammette di aver compiuto con il fidanzato Pedretti l’attentato al cinema a luci rosse Ambra–Iovinelli e nega di aver partecipato a quello contro il circolo femminista e alla rivendicazione perché non le interessava. I giudici si convincono che ha voluto coprire Marinella Rita e Fulvia Angelini, ragazze degli attendenti di Pedretti, Massimo Morsello e Paolo Pizzonia. È sempre presente alle scadenze di movimento. Si perde solo gli scontri per il primo anniversario di Acca Larentia: per partecipare ai funerali del padre. Il percorso politico è lineare: si avvicina al Fuan per non fare più anticomunismo viscerale, alla missina, anzi apprezza i compagni perché hanno preso le armi contro lo Stato. Si dissocia dall’assalto al Pci Esquilino, compiuto a raffiche di mitra e lancio di granate da Pedretti e Aronica. La rappresaglia per la morte di Francesco Cecchin – un militante del FdG del quartiere Trieste caduto da un terrapieno mentre tentava di sfuggire al pestaggio di una “squadraccia” del PCI – è per Francesca un passo indietro: andavano colpiti o la polizia o gli autori materiali. “Un modo nuovo di fare politica” – così definirà l’assalto all’Omnia sport – lo aveva già trovato. È proprio lei ad entrare per prima nell’armeria, chiedendo una canna da pesca, poi si allontana con Livio Lai a bordo di un pulmino 600.
Francesca fino al passaggio in clandestinità resterà con un piede nel Msi (il Fuan, a differenza del Fronte che dipende dal segretario del partito, è formalmente autonomo). L’8 marzo entra in azione un commando di Donne rivoluzionarie, composto da militanti del Fuan. Quando Francesca si accorge che i maschietti, senza dirlo per non offenderle, erano venuti a fare la “copertura”, si incazza di brutto. La sua versione processuale è diversa: ammette di aver compiuto con il fidanzato Pedretti l’attentato al cinema a luci rosse Ambra–Iovinelli e nega di aver partecipato a quello contro il circolo femminista e alla rivendicazione perché non le interessava. I giudici si convincono che ha voluto coprire Marinella Rita e Fulvia Angelini, ragazze degli attendenti di Pedretti, Massimo Morsello e Paolo Pizzonia. È sempre presente alle scadenze di movimento. Si perde solo gli scontri per il primo anniversario di Acca Larentia: per partecipare ai funerali del padre. Il percorso politico è lineare: si avvicina al Fuan per non fare più anticomunismo viscerale, alla missina, anzi apprezza i compagni perché hanno preso le armi contro lo Stato. Si dissocia dall’assalto al Pci Esquilino, compiuto a raffiche di mitra e lancio di granate da Pedretti e Aronica. La rappresaglia per la morte di Francesco Cecchin – un militante del FdG del quartiere Trieste caduto da un terrapieno mentre tentava di sfuggire al pestaggio di una “squadraccia” del PCI – è per Francesca un passo indietro: andavano colpiti o la polizia o gli autori materiali. “Un modo nuovo di fare politica” – così definirà l’assalto all’Omnia sport – lo aveva già trovato. È proprio lei ad entrare per prima nell’armeria, chiedendo una canna da pesca, poi si allontana con Livio Lai a bordo di un pulmino 600.
Il rapporto militante con Valerio precede il grande amore: quando lui esce dal carcere, nell’autunno del ‘79, lo aiuta e ne difende l’immagine dagli attacchi dei camerati che ne criticavano l’ossessione militarista. Per i camerati di via Siena l’esercizio della violenza è solo una espressione di un più complesso percorso rivoluzionario, che ha al centro la costruzione della comunità, la trasformazione delle persone e dei rapporti umani, prima e al di là della conquista del potere. Francesca si espone senza riserbo e diventa bersaglio delle bande antifasciste: i compagni compiono due attentati contro casa sua e lei va ad abitare con Dario. Subito dopo l’arresto di Pedretti la polizia irrompe nel loro appartamento e vi trova Francesca e due camerati sospettati di aver partecipato alla rapina. Tutti e tre saranno colpiti da ordine di cattura il 28 agosto 1980, nel primo blitz per la strage di Bologna. La violenza, la prepotenza degli “sbirri” sono un’ulteriore spinta al passaggio in clandestinità, che compie nel marzo successivo. Da quel giorno per un anno – tranne una sola notte – sarà al fianco di Valerio, l’amore della vita. Amore e morte, è il caso di dire. Si stabiliscono in Veneto, ospiti di Cavallini, che gode di buone coperture.
Da quel momento lei partecipa a pieno titolo a tutte le attività della banda. E’ nel commando che assalta il distretto militare di Padova per procurare le armi lunghe che servono per l’evasione di Concutelli. Per un mese la coppia si trasferisce a Lugano per studiare alcune rapine. Il fallimento della missione costerà la vita al basista, Cosimo Todaro, detto l’“infamone” e alla sua amica, una ballerina greca. In occasione di una tripla rapina a Cologno Monzese Francesca si travisa da uomo – per sviare i sospetti – ma si ferma per consolare una vecchietta impaurita e i testimoni riconoscono la voce di donna: al colpo successivo è relegata per punizione nell’auto per il cambio ma stremata dall’attesa si fa prendere da una crisi isterica. Partecipa all’assalto al Giulio Cesare al fianco di Valerio, fanno insieme fuoco sull’appuntato Evangelisti (ucciso) e Lorefice (ferito) poi fuggono in vespa. Non partecipa né ai pedinamenti – l’aveva interrogata con durezza dopo l’arresto di Pedretti – né all’agguato contro il giudice Amato ma ammette di aver conosciuto e condiviso l’obiettivo, partecipando alla stesura del volantino di rivendicazione, Chiarimenti, la più lucida esposizione del progetto spontaneista e al tempo stesso definitiva rottura con la vecchia leadership extraparlamentare (i tre autori, lei, Valerio e Gigi hanno militato solo nel Fronte e Cavallini ha bazzicato AN ed eredi di ON solo da latitante). E Francesca si becca così uno dei tanti ergastoli: “Non ho fatto pedinamenti né appostamenti per organizzare l’attentato, facevo semplicemente parte dei Nar, stavo dentro la banda e Amato era una persona che tutto l’ambiente della destra eversiva romana non vedeva di buon occhio. Centinaia di persone erano a quel tempo d’accordo su quell’obiettivo. Oggi però la nostra storia si esprime in un altro modo, c’è una riflessione a due livelli, uno politico e uno umano. Vogliamo che il nostro passato sia letto per quello che è stato cioè un gruppo compatto di persone che è passato alla lotta armata, senza legami con i servizi segreti deviati, né con i cugini più grandi di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale, che alla fine non hanno combinato mai niente”. Una distanza che ci tiene a ribadire in ogni circostanza. Dopo l’arresto di Delle Chiaie polemizza ancora: “È di un’altra generazione, sono entrata in galera a 23 anni dopo due anni, chiamiamola così, di lotta armata, il più vecchio di noi ha sì e no 30 anni, cosa c’entriamo con i cinquantenni, dopo l’omicidio Amato facemmo un comunicato che prendeva le distanze da quella generazione che non era della nostra linea, deve essere chiaro che noi con la strage non c’entriamo”.
Il 28 agosto sono spiccati decine di ordini di cattura per la banda armata che sarebbe alle spalle degli esecutori della strage di Bologna. L’impianto accusatorio ricicla il teorema Amato: la direzione strategica del terrorismo nero è costituita dai quadri “coperti” del mai disciolto Ordine nuovo, i gruppi giovanili e spontaneisti sono terminali periferici dell’Organizzazione. Solo nel febbraio 1986, il giudice istruttore di Roma Gennaro stabilisce che “sulla base delle risultanze processuali, appare forzata la “reductio ad unum”, anche se non può disconoscersi che i dati acquisiti mettono in luce dimensioni contraddittorie, rilevando l’esistenza da un lato di collegamenti e legami tra nuove e vecchie strutture e dall’altro di una miriade di gruppuscoli che si aggregano e si dissolvono rifiutando anche suggerimenti autorevoli”.
Il 28 agosto sono spiccati decine di ordini di cattura per la banda armata che sarebbe alle spalle degli esecutori della strage di Bologna. L’impianto accusatorio ricicla il teorema Amato: la direzione strategica del terrorismo nero è costituita dai quadri “coperti” del mai disciolto Ordine nuovo, i gruppi giovanili e spontaneisti sono terminali periferici dell’Organizzazione. Solo nel febbraio 1986, il giudice istruttore di Roma Gennaro stabilisce che “sulla base delle risultanze processuali, appare forzata la “reductio ad unum”, anche se non può disconoscersi che i dati acquisiti mettono in luce dimensioni contraddittorie, rilevando l’esistenza da un lato di collegamenti e legami tra nuove e vecchie strutture e dall’altro di una miriade di gruppuscoli che si aggregano e si dissolvono rifiutando anche suggerimenti autorevoli”.
Intanto scattano le manette per i professori (Semerari, De Felice, Mutti, Fachini e Signorelli), e gruppi di militanti dei Nar (Bianco, Alessandro Pucci), del Fuan (Zappavigna, Corsi, Macrina, Pizzonia, Corrado), di ClA (Iannilli, Sica, Macchi, Scarano, scarcerato proprio il 2 agosto, Neri a Roma, Napoli in Veneto). I detenuti Pedretti e Calore sono considerati mandanti della strage affidata secondo un incredibile “pentito” a un buttafuori fascista della Balduina, Francesco Furlotti. Tra quelli che si sottraggono alla cattura oltre a Francesca ci sono i leader di TP, Adinolfi e Fiore. Lei non lo sa ancora ma quei due – che per tutt’altre e ignobili ragioni Valerio voleva uccidere in quei giorni – le rovineranno la vita. È probabile, infatti, che i due documenti chiesti a Sparti subito dopo la strage di Bologna – e per i quali infine Francesca e Valerio sono stati condannati – non servissero a loro che erano clandestini da mesi ma a Fiore e Adinolfi, dirigenti pubblici di un’organizzazione politica legale. I due, parolai ma non stupidi, capiscono subito che la strage innescherà una violentissima ondata repressiva contro tutta l’ultradestra e pensano di premunirsi di un documento falso ricorrendo al responsabile della struttura illegale di TP. Vale, però, non ha mai trattato questi “articoli”, e chiede aiuto a Cristiano appena scarcerato e “figlioccio” di Sparti. Valerio e Francesca rientrano a Roma e in due giorni organizzano una rapina in un garage e il successivo assalto a un’armeria: “Poiché la strage di Bologna era stata attribuita ai Nar – spiegherà Fioravanti – pensammo fosse necessario dimostrare a tutti che la strage era un’azione che esulava dal tipo di attività attribuibile ai Nar. Era indispensabile compiere un’azione che rientrasse nella linea classica dei Nar, cioè la quarta armeria da farsi. Così organizzammo la rapina”. Dedicandola a Tuti. Il bottino è cospicuo: tra le 63 pistole rubate una finirà nell’arsenale della Magliana.
Col blitz del 28 agosto Francesca diventa latitante a tutti gli effetti ma la sua attività non conosce soste. Anche l’assalto al camion dei Granatieri di Sardegna, per procurarsi armi lunghe, è un buco nell’acqua (i fucili sono privi di otturatore). Francesca non partecipa all’omicidio di Mangiameli: è con Mariani a guardia delle auto mentre nella pineta si consuma il processo sommario ma, come è suo stile, se ne assumerà la responsabilità. La sera provvede con Vale e Valerio all’occultamento del cadavere nel laghetto di Tor de’ Cenci, perché “certo non poteva rimanere così e poi c’erano altre storie da vedere”. Nel corso dell’istruttoria dichiara che si doveva trattare di un chiarimento ma “si finì a tutt’altra faccenda” e definisce Mangiameli un “demenziale profittatore”. Nel processo di appello per la strage si impegna a ricostruite la sua traiettoria politica e umana. In questo quadro chiede un colloquio con la vedova Mangiameli che ha appena deposto in aula. Le donne si appartano in una stanzetta attigua e parlano per 20 minuti, tra urla e strepiti. Al termine Sara Amico si rifiuta di parlare alla stampa. Francesca non si tira indietro: “Ai tempi del delitto avevamo 20 anni, forse oggi saremmo meno duri, meno rigidi. Ma allora si ammazzava per molto meno. Volevo spiegare alla moglie che abbiamo ucciso Mangiameli perché non aveva rispettato certe regole. Non saprei dire se ha capito o no. Certo mi ha fatto pena. In fondo lui è morto a causa nostra”.
Il 13 novembre è a Siena con Valerio, Cristiano e Vale per l’evasione di un detenuto comune, sposato con un’amica di Cavallini. L’assalto al furgone fallisce per un ritardo e per sfuggire a un controllo sono costretti a disarmare una pattuglia di carabinieri. Poi lei va ad avvertire Gigi e gli altri a Pisa, dove prende il treno, mentre Valerio porta Cristiano e Vale in auto a Taranto, la base dell’evasione di Concutelli. È l’unica notte che Francesca non dorme abbracciata con Valerio. Dopo l’omicidio del brigadiere nella carrozzeria di Lambrate sfuggono per un soffio alla cattura. Nella base caduta, a via Washington a Milano, si reca Mariani con una fotomodella. Lo chiamano “Cecalone” (dagli occhiali a fondo di bottiglia) per la vista corta. Quella volta ha la lingua corta. Non telefona per pigrizia per controllare se tutto è a posto ed è arrestato. Ora anche Milano è invivibile: occorre ripiegare su Padova. Francesca partecipa alla rapina miliardaria nella gioielleria di Treviso. C’è anche lei a recuperare le armi sul Lungargine Scaricatoio, la sera del 5 febbraio 1981, quando i Fioravanti ammazzano due carabinieri. Lei è choccata e non riesce a sparare anche se Valerio ferito le urla di farlo. Cristiano risolve il conflitto a fuoco ma poi è deciso a mollare il fratello. Francesca si impunta ma non può fare niente. Abbandona il covo al quale le forze dell’ordine stanno per arrivare guidati dalle copiose tracce del sangue perso dal ferito: comunque telefona per un’ambulanza. E Valerio si salverà.
Col blitz del 28 agosto Francesca diventa latitante a tutti gli effetti ma la sua attività non conosce soste. Anche l’assalto al camion dei Granatieri di Sardegna, per procurarsi armi lunghe, è un buco nell’acqua (i fucili sono privi di otturatore). Francesca non partecipa all’omicidio di Mangiameli: è con Mariani a guardia delle auto mentre nella pineta si consuma il processo sommario ma, come è suo stile, se ne assumerà la responsabilità. La sera provvede con Vale e Valerio all’occultamento del cadavere nel laghetto di Tor de’ Cenci, perché “certo non poteva rimanere così e poi c’erano altre storie da vedere”. Nel corso dell’istruttoria dichiara che si doveva trattare di un chiarimento ma “si finì a tutt’altra faccenda” e definisce Mangiameli un “demenziale profittatore”. Nel processo di appello per la strage si impegna a ricostruite la sua traiettoria politica e umana. In questo quadro chiede un colloquio con la vedova Mangiameli che ha appena deposto in aula. Le donne si appartano in una stanzetta attigua e parlano per 20 minuti, tra urla e strepiti. Al termine Sara Amico si rifiuta di parlare alla stampa. Francesca non si tira indietro: “Ai tempi del delitto avevamo 20 anni, forse oggi saremmo meno duri, meno rigidi. Ma allora si ammazzava per molto meno. Volevo spiegare alla moglie che abbiamo ucciso Mangiameli perché non aveva rispettato certe regole. Non saprei dire se ha capito o no. Certo mi ha fatto pena. In fondo lui è morto a causa nostra”.
Il 13 novembre è a Siena con Valerio, Cristiano e Vale per l’evasione di un detenuto comune, sposato con un’amica di Cavallini. L’assalto al furgone fallisce per un ritardo e per sfuggire a un controllo sono costretti a disarmare una pattuglia di carabinieri. Poi lei va ad avvertire Gigi e gli altri a Pisa, dove prende il treno, mentre Valerio porta Cristiano e Vale in auto a Taranto, la base dell’evasione di Concutelli. È l’unica notte che Francesca non dorme abbracciata con Valerio. Dopo l’omicidio del brigadiere nella carrozzeria di Lambrate sfuggono per un soffio alla cattura. Nella base caduta, a via Washington a Milano, si reca Mariani con una fotomodella. Lo chiamano “Cecalone” (dagli occhiali a fondo di bottiglia) per la vista corta. Quella volta ha la lingua corta. Non telefona per pigrizia per controllare se tutto è a posto ed è arrestato. Ora anche Milano è invivibile: occorre ripiegare su Padova. Francesca partecipa alla rapina miliardaria nella gioielleria di Treviso. C’è anche lei a recuperare le armi sul Lungargine Scaricatoio, la sera del 5 febbraio 1981, quando i Fioravanti ammazzano due carabinieri. Lei è choccata e non riesce a sparare anche se Valerio ferito le urla di farlo. Cristiano risolve il conflitto a fuoco ma poi è deciso a mollare il fratello. Francesca si impunta ma non può fare niente. Abbandona il covo al quale le forze dell’ordine stanno per arrivare guidati dalle copiose tracce del sangue perso dal ferito: comunque telefona per un’ambulanza. E Valerio si salverà.
Con Valerio cade l’intera struttura padovana, un intreccio tra malavita e fascisteria, e bisogna ripiegare su Roma. Nella solitudine disperata di quel periodo Francesca finisce per avere una storia con Vale, una storia non molto importante per lei, che si sente legata a Valerio ma non ce la fa a vivere da sola l’angoscia della latitanza e della clandestinità. La centrale operativa è di nuovo Roma dove Nistri, appena scarcerato, sta riorganizzando una formidabile rete d’appoggio. A garantire il salto di qualità militare è il rientro in Italia, a giugno, di Alibrandi, forte dell’esperienza libanese. Il 30 luglio una coppia (Francesca e Gigi) disarmano delle pistole e di un mitra i piantoni del ministero delle Finanze all’Eur. Un M12 che sarà gelosamente custodito, passerà per molte mani e sarà recuperato solo nel 1989, durante le indagini per la tentata evasione da Rebibbia. L’azione è rivendicata dai comitati autonomi nazionalrivoluzionari, con toni e linguaggio brigatisti: “Un commando armato ha attaccato e disarmato mercenari di Stato (...) avanguardie rivoluzionarie (...) torturatori delle questure (...) gli infami ora conosciuti come pentiti”. Il disarmo è l’ultima “prova di magnanimità”: poi solo condanne a morte, eseguite con grande spiegamento di mezzi.
Il primo omicidio è il giorno dopo. La vittima è Pino De Luca, il capo di imputazione una “sola” a Valerio e ad Alibrandi. Dopo l’arresto Francesca ammette di averlo conosciuto quando frequentava il Fuan come “bidonista”. Più tardi confesserà di aver partecipato all’esecuzione con due persone senza fare nomi. Un’altra dimostrazione di stile: i complici erano morti (Vale e Alibrandi) eppure lei non si era sentita di accusarli. L’omicidio è inquadrato nella campagna contro i “profittatori” dell’ambiente ed è rivendicato come naturale prosecuzione del delitto Mangiameli. Alla fine di settembre partecipa all’uccisione di Pizzari, l’amico che ha “venduto” Ciavardini e De Angelis. È in compagnia di Vale, con compiti di staffetta e cambio dell’auto.
Tre settimane dopo è nel gruppo di fuoco che ammazza il capitano della Digos Straullu e l’autista. Ancora una volta ha compiti di staffetta e non partecipa alla sparatoria, che prevede l’uso esclusivo di armi lunghe, per sfondare una blindatura che non c’è. Francesca dovrebbe prendere le armi ma è trattenuta da Sordi e Alibrandi perché lo spettacolo è orribile: la potenza micidiale di mitra e fucili si è scaricata sui poveri corpi devastati. Lei e Gigi scrivono la rivendicazione dell’intera campagna contro “pentiti” e “profittatori”. L’inclusione di Mangiameli al fianco di “infami” come Perucci e Pizzari e di un poliziotto accusato di torture – con il corollario di insulti ai leader di TP fuggiti a Londra – scatena la furia di Nistri e degli altri ex di Tp. La morte di Alibrandi, le convalescenze di Sordi e Belsito portano allo sbandamento. Per un paio di mesi le attività sono sospese, poi riparte il circo delle rapine, con commando affollati, muniti di armi pesanti, decisi a sostenere il conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. È quello che succede il 5 marzo: Francesca è di copertura con Vale ed altri, davanti alla Bnl della Circonvallazione Aurelia, zona trafficatissima da volanti e gazzelle. La prima sparatoria è all’esterno della banca con un poliziotto in borghese che si apposta dietro un’auto e intima l’alt ma è preso alle spalle e ferito. Il conflitto a fuoco e il mancato arrivo di un’auto per la fuga impone a Stefano Procopio, un altro della copertura di caricare in auto con Francesca anche due rapinatori, i fratelli Lai. Li intercetta una volante a piazza Irnerio: lei non indossa il giubbotto antiproiettile e una pallottola le dilania gli intestini. Livio sì e si salva, risponde al fuoco col fucile e un colpo di rimbalzo uccide uno studente.
Ai dieci omicidi per cui prende l'ergastolo avendoci in diverso modo contribuito pur non avendo sparato un solo colpo si aggiungerà l'unica condanna che ancora non le dà pace: quella per la strage di Bologna. Una colpevolezza che ha destato molte perplessità, anche tra intellettuali e militanti di sinistra, ma che oramai è consegnata alla storia giudiziaria del paese. Insieme a Valerio Fioravanti, con cui si sposa in carcere, sviluppa un percorso di ravvedimento operoso che li porta a lavorare per l'associazione radicale "Nessuno tocchi Caino", contro la pena di morte. Un bel contrappasso per chi l'ha più volte comminata
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