In proud and glory di Eduard Limonov, l'ultimo maledetto
Ho avuto, si, la
fortuna di incontrare Eduard Limonov, a Napoli, solo qualche mese fa.
Era presso la sede dell’Associazione Gorki, tra vecchi
filosovietici e qualche giovane o ex giovane attirato dal mito.
Come me, del resto:
la “biografia” di Emmanuel
Carrère ha donato ad una paio di generazioni l’ultimo
maledetto: delinquente, poeta, soldato, fascista e bolscevico,
patriota senza una vera patria.
Qualche giorno dopo
esser stato a Napoli, Limonov era andato a promuovere il suo ultimo
libro a Roma. "L’uomo che ha fatto della propria vita un’opera
mondo di audacia e avventura, impantanato nella ritualità romanella
esplode." Così l’indomani ha raccontato Fulvio Abbate. A Roma
lo scrittore era scappato, non reggendo, par di capire, l’ambiente
fighetto di quelli che Abbate chiama “gli amici degli amici
convocati per baciare lo stivale dello scrittore”…
Evidentemente, a me
e Peppe Parente (e allo stesso Eduard nel suo incontro napoletano),
era andata molto meglio, in mezzo ai cimeli della guerra partigiana,
una gloriosa biblioteca, la muffa di una vecchia sinistra cossuttiana
ma con una sua poetica alla fine. Limonov si era trovato a suo agio,
sia pure al cospetto di una tizia – una giornalista? – che gli
chiedeva di Greta, di Saviano e finanche gli porgeva, a un certo
punto approfittando della stanchezza del nostro, l’immancabile
“Come ha trovato Napoli? Chiassosa? Sporca, vero?”, ricevendo
perfino una gentile risposta: “Si, sporca forse. Lo era di più
l’ultima volta, nel ’73, c’era il colera e la trovai fetida. Ma
tutto sommato viva, allora come ora, a differenza di Mosca che è
pulita ma morta”.
Di Eduard Limonov
saprete quasi tutto abbeverandovi alla biografia romanzata vergata da
Carrère, definito
più volte da Limonov un rompicoglioni borghese, ma vale la pena
leggere alcune sue opere, per esempio quel “Diario di un fallito”
dove troviamo il suo manifesto più nichilista, disperato e bello:
"Verranno
tutti. I delinquenti e i timidi - i timidi sanno battersi bene. Gli
spacciatori di droga e i procacciatori di clienti per i bordelli.
Verranno gli onanisti, gli amanti di riviste e film porno.
Verranno
quelli che si aggirano da soli nelle sale dei musei o sfogliano libri
nelle biblioteche cristiane.
Verranno
quelli che ci mettono due ore a sorseggiare il loro caffè da
McDonald's, guardando malinconicamente attraverso la vetrata.
Verranno
i falliti in amore, negli affari e nel lavoro, e quelli che hanno
avuto la sfortuna di nascere in una famiglia povera.
Verranno
i pensionati che al supermercato fanno la fila riservata a chi compra
meno di cinque articoli.
Verranno
i delinquenti neri che sognano di scoparsi una bianca di buona
famiglia e, siccome non ce la faranno mai, la violentano. Verrà il
doorman dai capelli grigi, che vorrebbe tanto sequestrare e torturare
quell'insolente ragazzina ricca che sta all'ultimo piano.
Verranno
gli audaci e i forti di ogni strato sociale, per distinguersi e
conquistare la gloria.
Verranno
gli omosessuali a coppie, tenendosi abbracciati, verranno gli
adolescenti che si amano...
Verranno
i pittori, i musicisti, gli scrittori di cui nessuno compra le opere.
Verrà
la grande e valorosa tribù dei falliti, losers in inglese, in russo
neudacniki.
Verranno
tutti, imbracceranno le armi, occuperanno una città dopo l'altra,
distruggeranno le banche, le fabbriche, gli uffici, le case editrici,
e io, Eduard Limonov, marcerò in testa alla colonna, e tutti mi
riconosceranno e mi ameranno".
Limonov nella sua
vita ha urlato, ha pianto, ha ingurgitato centinaia di litri di
pessima vodka, è strisciato nel piscio e nel vomito, è stato a
letto coi negri, ha sparato a fianco dei serbi forse uccidendo, ha
inventato l’underground sovietico, ha contestato Putin (pur,
probabilmente, ammirandolo), è stato da questi incarcerato, ha
cercato una via d’uscita mistica alla sua inquietudine senza
riuscirvi.
A leggerne, sembrava
un personaggio inventato, Limonov, e invece chi lo ha visto in volto
sa che era tutto vero. Tutto nelle rughe, nella magrezza che aveva
preso il posto del corpo allenato se non scolpito di un tempo. Tutto
nei piccoli occhi, ora assai stanchi, come quelli di una persona
malata, occhi così distanti, certo, dall’immagine che verrà
consegnata ai posteri, quella del punk in pantalone di pelle nera
nella New York di Lou e Andy, del soldato in Jugoslavia o dello
street fighting man in Russia: occhi stanchi ma ancora capaci di
lampi di fuoco. E vere erano le sue risposte, da irriducibile della
vita e della guerra, come quando si infiammava raccontando di armi
israeliane trovate in un rifugio durante una spedizione oppure
riferiva – un po’ irritato a dire il vero - del suo ex amico e
sodale Dugin (con cui fondò il Partito Nazional Bolscevico): “Lui
ha un’enorme cultura, parla tante lingue, ci vogliamo bene ma non
ci frequenteremo mai più. L’ho incontrato una volta ad un talk
show e ci siamo scambiati i rispettivi numeri di telefono, sapendo
entrambi che non ci chiameremo mai. Sa qual è il difetto di Dugin?
Non è mai stato in galera”.
Gli abbiamo voluto
bene, a Limonov, anche quando ci ha detto che il giorno dopo sarebbe
voluto andare a visitare Capri, dove, aveva aggiunto, non era mai
stato (a dire il vero, neanche buona parte dei napoletani, avremmo
voluto fargli notare: la Loren ci andò solo dopo il successo in
America, come raccontò un magistrale Mimì Rea).
“Eduard, anche
Lenin ci andò, ci giocava a scacchi con Bogdanov e Gorki. Lo sa?”
E lui, quasi
incurante dell’accostamento col padre della rivoluzione bolscevica
ed autore di “Stato e rivoluzione”: “Venite con me? Prima di
morire voglio vederla”.
Chissà, mi piace
credere che Capri rappresentasse per Limonov il mediterraneo, polo
opposto (e complementare) a quello della sua amata Russia, verso cui
pure fu mai tenero, ad esempio nel suo poco noto racconto “La tana
e la patria”:
“La Russia è
innanzitutto un inverno in bianco e nero. Una distesa bianca su cui,
come semi di papavero su una ciambella, sono sparsi gruppetti di
alberi morti per nove mesi all’anno. Perché russo non segato
alberi morti? risuona dalla mia primissima infanzia la voce di un
vecchio georgiano giunto per la prima volta in Russia in treno. Dal
finestrino di un aereo che vola a bassa quota lo spazio russo è
tetro e desolato. Una superficie bianca attraversata dai fili neri
delle strade come raschiature di un’unghia su un vetro ghiacciato.
Il bianco è il lenzuolo funebre del morto, è la biancheria del
malato, è la neve. In ogni caso il bianco non è la vita. La terra
non deve essere bianca per nove mesi all’anno (d’accordo, otto!),
bianca e gelida, con temperature inferiori allo zero. È contro
natura. Il freddo e il bianco sono ripugnanti.”
Addio, Eduard,
quella terra così bianca ora accoglie il tuo corpo e da oggi noi
bastardi siamo più soli.
Mario Colella
è vero! è morto un gigante!
RispondiElimina