24 marzo 1985: 2 terroristi neri uccisi ad Alessandria
Domenica 24 marzo 1985. Franzo, Gatta e il loro gruppo sono impegnati in un’attività «sacra», che nella loro mentalità è tutt’uno con quella politica. Da qualche ora sono allo stadio Comunale di Torino, curva Filadelfia, dietro allo striscione degli Indians. Oggi c’è Juve-Inter. È una partita di quelle che contano. E poi la Juve è una fede.
La notizia arriva in curva all’improvviso, come sempre quando c’è aria di morte. E nulla sarà più come prima. Ad Alessandria c’è stata una sparatoria, ci sono dei camerati morti.
Franzo:
Arriva un amico in curva e ci dice: «È successa una cosa pazzesca. Enrico è morto». «Ma che cacchio dici, ma che stai dicendo?» faccio io. Ma ormai siamo sconvolti. Mi lancio verso un telefono pubblico, afferro la cornetta e chiamo un altro camerata che, purtroppo, ci dà la conferma: Enrico è morto davvero.
La prima notizia dell’Ansa arriva alle redazioni alle 12.41:
Due terroristi neri sono rimasti uccisi questa mattina in un conflitto a fuoco con la polizia ad Alessandria. Altri due sono stati catturati. Un agente è ferito, in modo non grave.
Dopo dieci minuti un altro lancio è più chiaro:
Stando alle prime frammentarie notizie, da un’automobile a bordo della quale viaggiavano quattro persone è stato aperto il fuoco contro agenti di pubblica sicurezza che, ad un normale posto di blocco, esaminavano i documenti. Alla richiesta di esibire i loro, i terroristi, a bordo dell’auto, hanno risposto con le armi: due pistole ed un fucile a canne mozze. Risulta inoltre che contro gli agenti sia stata scagliata una bomba a mano. I poliziotti, uno dei quali è rimasto ferito ad una gamba, hanno immediatamente risposto al fuoco, sparando contro la vettura numerose raffiche di mitra. Due dei terroristi sono stati colpiti: uno, Diego Macciò, è morto pochi minuti più tardi. Un secondo: Enrico Ferrero, è deceduto più tardi in ospedale. Gli altri due, Raffaella Furiozzi ed Andrea Cosso, sono stati catturati. Cosso si è dichiarato «prigioniero politico».
La tragedia avviene alle 8.30 del mattino sul piazzale del casello di Alessandria Ovest, sull’autostrada Torino-Piacenza. La 127 bianca guidata da Cosso viene fermata al posto di blocco. Gli agenti si avvicinano e chiedono i documenti. Macciò è seduto al fianco di Cosso. Dietro ci sono Ferrero e la Furiozzi. Ma Cosso perde la testa. I quattro sono armati; lui capisce che appena la polizia perquisirà l’auto, le armi salteranno fuori, così decide di fare una follia. Estrae dalla cintola una 7,65, la punta contro l’agente più vicino e preme il grilletto. Ma l’arma si inceppa. L’agente si volta e punta il suo M12. Cosso riesce a riarmare la pistola e spara, ferendo alle gambe il poliziotto che scarica il caricatore della mitraglietta contro l’auto. Nel frattempo anche Macciò ha tirato fuori la pistola e sparato un paio di colpi, mentre la Furiozzi ha tirato fuori una Srcm dalla borsetta, ma dimentica di togliere la sicura e, per di più, per l’agitazione, la fa cadere dentro l’auto. Anche Ferrero tenta di imbracciare il suo fucile a canne mozze, ma gli occupanti dell’auto sono bloccati e non hanno possibilità di scampo. Ora contro i quattro, imbottigliati nella 127, stanno sparando con le loro pistole anche altri agenti. Alla fine Macciò e Ferrero ci rimettono la vita, la Furiozzi si salva per miracolo, mentre Cosso, in preda a una crisi isterica, si inginocchia e urla a uno degli agenti: «Ora uccidimi, sparami. Sparami in testa!» Poi si dichiara prigioniero politico. Nell’auto vengono trovate anche una tuta mimetica e una divisa dell’Aeronautica. Probabilmente il gruppo aveva deciso di andare a fare un disarmamento in una caserma romana. I quattro, infatti, provenivano proprio da Roma, dove erano stati forse a prendere contatti o a fare un sopralluogo.
Nel giro di qualche giorno, la Furiozzi si «pentirà» e verrà inserita nel circuito carcerario dei collaboratori, che si trovano tutti nel carcere ciociaro di Paliano; qui avrà un flirt con Angelo Izzo e una storia con Cristiano Fioravanti. Finendo per farsi coinvolgere, soprattutto dal primo, in una serie di rivelazioni de relato – «Macciò mi ha raccontato che Cavallini gli ha confessato...» – che accuseranno Nanni De Angelis e Luigi Ciavardini come esecutori materiali della strage di Bologna. Per fortuna della memoria del primo, quel giorno era impegnato in una partita di football americano. Ciavardini, sfortunatamente, era latitante e quindi non aveva alibi «certificati» da fornire a sua discolpa. Per di più, come spesso accade in questi casi, per una sorta di domino, verrà accusato anche da altri «pentiti» e sarà condannato a trent’anni di carcere per la strage, evitando l’ergastolo solo perché minorenne all’epoca dei fatti.
Ma torniamo a quel 24 marzo. Franzo:
Enrico venne portato all’ospedale di Alessandria. Io e altri due, di notte, riuscimmo a passare i controlli del nosocomio ed entrammo da una finestra sul retro. Raggiungemmo l’obitorio e alla fine lo trovammo. Aveva un’enorme pozza di sangue sotto il corpo. Vidi che aveva fori davanti e dietro... Restammo alla morgue una mezz’ora. Poi, prima di andarcene, gli attaccai al collo un ciondolo con la croce celtica. E lo salutammo. La cosa pazzesca è che Enrico aveva frequentato il Vento del Nord fino a due giorni prima e non aveva detto niente a nessuno...
Il gruppetto guidato da Cosso e Macciò, insomma, voleva ripetere in tutto e per tutto le gesta dei Nar. Aiutati da altri camerati torinesi, i due si erano procurati una pistola e un fucile a canne mozze, rapinandoli a un vigilante e a un collezionista. E sempre a questo gruppetto la polizia ricollegherà uno strano episodio avvenuto a Torino la sera dell’11 marzo 1985.
Un tram della linea 3 si è appena accostato alla fermata all’angolo tra via Borgaro e piazza Piero della Francesca. Sono circa le 22. Alla fermata ci sono una decina di persone. Più o meno altrettante stanno sul tram. L’autista apre le porte, tre giovani si avvicinano a quella posteriore, ma invece di salire lanciano dentro un oggetto che rotola per alcuni metri nel mezzo e comincia a sprigionare del fumo. È una molotov mal confezionata. Prima che prenda fuoco, i passeggeri fanno in tempo a scendere. A completare l’opera ci penserà l’autista con l’estintore di servizio. Intanto dietro il tram assalito ne è arrivato un altro, il cui conducente è sceso ad aiutare il collega. Quando tornerà, troverà sulla coda del mezzo una croce celtica appena disegnata con lo spray. Poi il gruppetto degli aspiranti Nar scomparirà nel nulla, fino a quella maledetta mattina del 24 marzo.
Franzo:
Quando, mesi dopo, Cosso uscì di prigione, volli incontrarlo un’ultima volta per farmi raccontare cosa era davvero successo. Lui era bruciato nell’ambiente, completamente isolato da tutti, considerato, giustamente, responsabile per quel che era successo. Mi disse che Enrico Ferrero si era buttato a corpo morto per proteggere la Furiozzi.
Torniamo al 24 marzo 1985. Nel giro di un paio di giorni, giornali e tv punteranno il dito verso il Vento del Nord.
Del resto era o non era il gruppo politico di riferimento di Cosso e Ferrero? Ancora Franzo:
Quando nel pomeriggio, allo stadio, veniamo a sapere della tragedia, di corsa ci precipitiamo in sede per decidere il da farsi. Lì c’era il registro con tutti i nomi dei ragazzi iscritti al circolo.
Immaginiamo che la polizia se la prenda con noi. Così, per evitare che decine di persone vengano messe in mezzo senza motivo, decido di giocare d’anticipo. Propongo che io e gli altri due leader del circolo andiamo alla polizia e ci mettiamo a disposizione, premettendo che non c’entriamo niente con quello che è accaduto ad Alessandria. Ma uno dei tre, Gualtiero Gabutti [già coinvolto nell’assalto alla scuola Grassi per vendicare Di Nella, N.d.A.], è contrario. Alla fine lo convinciamo e tutti e tre ci presentiamo in Questura. Nel frattempo gli altri hanno il tempo di nascondere il registro degli iscritti. Veniamo lasciati liberi, anche se ci chiedono di restare a Torino, a disposizione.
Ma ormai del Vento del Nord ne parlano tutti: giornali locali e nazionali, e perfino una puntata dell’approfondimento quotidiano su Rai Uno, condotto da Enzo Biagi. E, ovviamente, i compagni.
Franzo:
Proprio la notte prima della sparatoria di Alessandria alcuni compagni avevano tentato di bruciarci la sede. Ma l’attentato è un mezzo flop. La porta prende fuoco solo a metà e le fiamme vengono rapidamente spente. Dopo la sparatoria ormai tutti parlano di noi come del gruppo di Ferrero e Cosso, e quelli che avevano bruciato la porta si mettono paura della nostra reazione.
Dicono: «Cazzo, abbiamo bruciato la porta a dei terroristi, ora sono cacchi nostri...» E comincia una cosa surreale: lo scarico di responsabilità tra i compagni. Quelli della Fgci fanno sapere che loro non c’entrano niente, mentre altri recuperano vecchie amicizie comuni con noi dei tempi della scuola...
Nel giro di un anno, il Vento del Nord chiuderà i battenti. La tragedia di Alessandria ha segnato per sempre i suoi militanti.
La morte di Macciò sconvolgerà anche un’altra comunità, quella dei suoi camerati milanesi. Valle:
Diego cominciò ad allontanarsi dal Fronte della Gioventù milanese intorno al 1984. Il biennio 1983-84 fu per noi un momento magico. L’Italia stava cambiando, il mondo stava cambiando. Nel costume, nei linguaggi, nei desideri. Le categorie politiche noventesche diventarono obsolete. Tra i giovani emersero nuove figure, si formarono nuove tribù ormai postideologiche. A Milano, per esempio, si diffuse rapidamente il fenomeno dei «paninari». Fu un serbatoio prezioso da cui attingemmo generosamente e, il 28 febbraio 1984, riuscimmo a portare in piazza, e poi in un’assemblea al cinema Argentina, un migliaio di studenti. Il tempo della marginalità era finito. Il fenomeno interessò la grande stampa: Linus, Reporter, la Repubblica, Panorama dedicarono ampi servizi alla rinascita della destra giovanile milanese. Gianfranco Fini, allora segretario nazionale del Fdg, ne prese atto e mi nominò, assieme a Maurizio Gasparri e Riccardo Andriani, suo vicesegretario. Al tempo stesso venni cooptato nel comitato centrale del Msi.
Valle si sofferma sulla reazione di Macciò, che era il suo vice, di fronte a questa nuova stagione:
Questo successo dell’ambiente a Diego non piaceva. La nostra «istituzionalizzazione» non lo convinceva. Silenziosamente cominciò ad allon-tanarsi. Senza liti, senza crisi, senza troppe spiegazioni. Alle mie domande rispondeva di avere impegni a Torino: la famiglia, la fidanzatina... E poi seguiva un piccolo gruppo di fuoriusciti dal Fdg locale. Pensando a un momento di riflessione, non diedi troppo peso a certi suoi atteggiamenti e a certe sue frasi. Crescerà, pensavo. Crescerà...
Nel marzo 1985 decidemmo, in collaborazione con il Fdg romano di Gianni Alemanno, di aprire nel partito un dibattito sul postterrorismo e su una possibile amnistia per i reati associativi. Diego si mostrò finalmente interessato e tornò a Milano per aiutarci a organizzare un’assemblea studentesca da dedicare a questo tema. Un’assemblea che intitolammo (rubando il verso a Roberto Vecchioni, che minacciò querele) «Forse non lo sai ma pure questo è amore...»
Ci mobilitammo per tutta la settimana. Poi, la mattina del 22 marzo, rimase con noi a volantinare davanti alle scuole. All’inizio dell’assemblea mi salutò dicendo che doveva tornare urgentemente a Torino. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Il giorno dopo, all’ora di pranzo, squillò il telefono. Uno dei nostri ragazzi aveva sentito al telegiornale la notizia dello scontro a fuoco di Alessandria. Diego era morto. Piansi.
Da quel giorno maledetto, io e Paola Frassinetti (l’altro «motore» del Fdg milanese) abbiamo cercato innumerevoli volte di comprendere i motivi, le ragioni di quell’avventura senza senso, fuori da ogni logica. L’unica spiegazione che siamo riusciti a darci è un malinteso senso dell’avventura, frammisto di nichilismo adolescenziale e tanto, troppo romanticismo. Diego Macciò viveva la politica come una sfida esistenziale e una ribellione totale. Senza però accettarne le regole e i compromessi. L’esito è stato fatale.
Valle torna poi sulle accuse, per sentito dire, di Raffaella Furiozzi a De Angelis e Ciavardini per la strage di Bologna:
Negli anni seguenti gli inquirenti hanno tentato di collegare Diego addirittura alla strage di Bologna. Per me è una follia. Basandosi su una vecchia agenda (quelle sue Smemorande...) e sulle dichiarazioni estorte in carcere a Raffaella Furiozzi (una povera ragazza, stritolata da una storia assurda) si è tentato di collegare Macciò a Cavallini. Nulla conta che, durante la latitanza del capo dei Nar, Diego fosse un ragazzino che già si era trasferito a Torino e che mai i due si sarebbero potuti incontrare. I giudici ritennero invece possibile il legame, basandosi sulle armi ritrovate ad Alessandria, che a loro avviso – non so in base a quale esame – arrivavano dal gruppo Cavallini. Dunque, è stato il loro ragionamento, i due si conoscevano.
Ma la pistola che aveva Diego ha un’altra storia... L’arma era rimasta nascosta sino all’inizio del 1985 presso alcuni parenti di un nostro simpatizzante, che un giorno la trovò casualmente e ce la mostrò. Decidemmo di gettarla subito. Non ci serviva e non doveva servirci. Diego se ne incaricò ma, evidentemente, non la buttò mai...
Nicola Rao, Il piombo e la celtica
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