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24 marzo 1974, Parco Lambro, un delitto insensato opera di un sanbabilino

Alessandro «Billo» Danieletti vive ormai lontano da Milano. Dopo molti problemi (di droga e di alcol), si è rimesso in piedi.
Oggi ha una famiglia, un lavoro e una promettente carriera di romanziere. È lui l’autore di Avene selvatiche, il romanzo ambientato proprio nella San Babila del ’74, edito da Marsilio, con prefazione (e sponsorizzazione) nientemeno che di Claudio Magris. Firmato con lo pseudonimo di Alessandro Preiser (che in realtà è il cognome di sua madre). Danieletti ha poi scritto anche un sequel di Avene selvatiche, sempre per la stessa casa editrice, dal titolo Zucchero bruciato.
Nel periodo peggiore della sua crisi, Danieletti ha anche spifferato ai magistrati cose che ha saputo, sentito o, forse, solo intuito o immaginato nel mondo dei neri milanesi, sia fuori sia all’interno del carcere. Finendo per accusare di reati gravissimi anche persone alle quali, per un certo periodo, era stato molto legato, come Cesare Ferri e Fabrizio Zani, entrambi indicati da Danieletti come componenti del gruppo che commise la strage di piazza della Loggia. Ma le accuse non hanno retto al vaglio processuale, e così sia Ferri sia Zani sono stati assolti da questa imputazione. Ormai, per l’ambiente, Billo è un «infame». E queste accuse gli hanno alienato per sempre la considerazione e la stima del mondo neofascista milanese.
Quando ci incontriamo, Danieletti accetta di buon grado di riparlarmi della sua esperienza sanbabilina. Ecco cosa ricorda di quel terribile inizio del 1974:
Dopo la sparatoria alla Casa dello Studente non sapevo dove andare. Così mi ricordai di aver conosciuto tempo prima, attraverso Carlo Bresciani, una coppia di giovani che venivano da Avanguardia: D’Intino e Vivirito. Devo dire che non mi avevano fatto una grande impressione, soprattutto Vivirito. Ma ero ricercato per tentato omicidio e non sapevo a chi altro rivolgermi. Così mi appoggiai a loro...
In realtà, i guai per Billo sono cominciati due giorni prima dell’assalto alla Casa dello Studente. E sono guai grossi.
Mentre accompagna i ragazzi terribili Rizzi e Pastori (evasi da qualche giorno dal Beccaria, il carcere minorile), Danieletti incrocia altri due frequentatori della trincea nera: Rocco Rossini e Carlo Bresciani (il tramite con gli avanguardisti D’Intino e Vivirito). Tutti insieme vanno al Parco Lambro, perché i due evasi devono incontrare un tizio che fornirà loro dei documenti falsi.
Le stradine del parco sono poco illuminate. È buio fitto. Rizzi e Pastori stanno avanti, gli altri tre a qualche metro di distanza.
All’improvviso si trovano davanti un tizio, alto e grosso. Pastori ha i nervi a fior di pelle. Non ci pensa due volte: tira fuori la pistola dalla tasca del giaccone e spara all’uomo. Due colpi. Ma è agitato, troppo agitato. Così, nel rinfoderare l’arma, gli parte un altro colpo, che ferisce Rizzi a un piede.
I tre camerati che li stanno seguendo, neanche capiscono quel che sta succedendo. Sentono gli spari e, istintivamente, scappano nella direzione opposta. Rizzi urla dal dolore, Pastori urla più di lui.
Intanto c’è una persona a terra, una persona che non c’entra niente. E che ci rimetterà la pelle. Si chiamava Lucio Terminiello, impiegato di banca, che, per sua sfortuna, è passato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Poi, quando il respiro torna normale e l’adrenalina cala, i quattro chiedono a Pastori il senso di quegli spari. Il giovane farfuglia qualcosa del tipo: «Mi sembrava che ci stesse seguendo», o: «Ho avuto paura che mi avesse riconosciuto». Un delitto folle e inutile.
Per dieci anni questo omicidio resterà impunito, perché gli inquirenti avevano subito puntato su Pastori, ma la perizia dell’arma che il giovane aveva usato due giorni dopo per la sparatoria alla Casa dello Studente aveva dato esito negativo: non era la stessa pistola che aveva sparato a Terminiello. Così l’inchiesta era stata archiviata. Verrà riaperta grazie alle confessioni di Danieletti, che racconterà la storia di quella sera.
Confessioni, a quel punto, confermate anche da un altro protagonista della sparatoria: Michele Rizzi.
Come mai, chiedono allora i magistrati a Danieletti, le perizie sull’arma avevano dato esito negativo?
Anni dopo, in carcere, Pastori mi spiegò che il padre aveva dato 100 milioni a un tecnico per fargli sostituire la canna della pistola...
Insomma, il padre di Pastori aveva corrotto il perito balistico del tribunale.
FONTE: Nicola Rao, Trilogia della celtica.

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