2 febbraio 2007: negli scontri per il derby siciliano muore l'ispettore Raciti
Il
2 febbraio 2007 ritorna dopo 45 anni in serie A il derby
Catania-Palermo, un confronto ad altissimo rischio. Per la
coincidenza con la festa di Sant’Agata – che produce tre giorni
di delirio collettivo ai piedi dell’Etna – è stato anticipato
alle 18 di venerdì. Per ridurre ulteriormente i rischi due pullman
con i tifosi rosanero sono portati a spasso e l’ingresso allo
stadio è consentito solo a secondo tempo iniziato. Al loro arrivo
allo stadio dalla gradinata nord, ma anche dalle truppe che
stazionavano all’esterno della gradinata, parte di tutto su tifosi
e poliziotti che gli scortano. Tra i più accaniti lanciatori un
vecchietto di almeno 70 anni che poi riesce a passare tra gli agenti
che non lo immaginano certo capace di tale impresa. La risposta delle
forze dell’ordine è un intensissimo lancio di lacrimogeni che
rende irrespirabile l’aria. L’arbitro è costretto a interrompere
la partita per circa mezz’ora: numerose testimonianze di spettatori
attribuiranno a questo intervento poliziesco il precipitare della
situazione.
GLI SCONTRI DILAGANO - Alla fine del match la violenza dilaga nonostante l’imponente schieramento delle forze dell’ordine (1500 uomini contro 21mila spettatori). Il vicino cantiere aperto per il rifacimento di via dello Stadio rifornisce di materiali freschi per la guerriglia urbana centinaia di giovanissimi invasati. A un quarto d’ora dal termine, intorno alle 20,30, un ispettore della polizia si accascia al suolo immediatamente dopo lo scoppio di una bomba carta e muore in pochi minuti. I giornali si affannano a spiegare la particolare efficacia degli ordigni artigianali che utilizzano la pietra vulcanica dell’Etna per produrre micidiali schegge incendiarie ma l’autopsia dimostrerà che l’esplosione non c’entra niente: ha ucciso Filippo Raciti l’emorragia prodotta da un colpo violentissimo (inferto con un tubo di ferro a sezione stellare) che gli ha spappolato il fegato. A trarre in inganno sulla dinamica la determinazione del poliziotto, uno tosto: ha continuato a battersi fino allo stremo.
GLI SCONTRI DILAGANO - Alla fine del match la violenza dilaga nonostante l’imponente schieramento delle forze dell’ordine (1500 uomini contro 21mila spettatori). Il vicino cantiere aperto per il rifacimento di via dello Stadio rifornisce di materiali freschi per la guerriglia urbana centinaia di giovanissimi invasati. A un quarto d’ora dal termine, intorno alle 20,30, un ispettore della polizia si accascia al suolo immediatamente dopo lo scoppio di una bomba carta e muore in pochi minuti. I giornali si affannano a spiegare la particolare efficacia degli ordigni artigianali che utilizzano la pietra vulcanica dell’Etna per produrre micidiali schegge incendiarie ma l’autopsia dimostrerà che l’esplosione non c’entra niente: ha ucciso Filippo Raciti l’emorragia prodotta da un colpo violentissimo (inferto con un tubo di ferro a sezione stellare) che gli ha spappolato il fegato. A trarre in inganno sulla dinamica la determinazione del poliziotto, uno tosto: ha continuato a battersi fino allo stremo.
LA RICOSTRUZIONE DELLA POLIZIA - Incrociando le rivelazioni di un
‘pentito’, intercettazioni ambientali negli stanzoni della
questura dove sono parcheggiati i fermati e lo studio certosino delle
riprese video (assai sfocate per il buio e il fumo di lacrimogeni e
torce) l’episodio è ricostruito così: per liberare un tifoso
arrestato un gruppo di ultras della Curva nord attacca una volante, a
colpire il poliziotto è un ragazzone di 17 anni, uno studente di
elettronica campione di arti marziali e giocatore di rugby. Pesa 92
chili e carica impugnando il supporto metallico di un lavabo, divelto
dai gabinetti dello stadio, a mo’ di ariete. Abita in un quartiere
popolare degradato, San Cristofaro, ma ha alle spalle una famiglia
“sana”: padre operaio ed ex sindacalista, nella maggiore fabbrica
di componentistica dell’Etna valley, madre fioraia al cimitero. Un
solo precedente: accusato (prosciolto) di rissa per aver difeso la
sua ragazza da un corteggiatore molesto. Ammetterà la partecipazione
agli scontri ma continuerà a negare sempre la responsabilità
diretta nella morte dell’ispettore. Alla fine della battaglia si
contano tra 70 e 100 feriti: molti ragazzi che lamentano pestaggi
delle forze dell’ordine non passano per gli ospedali. Nel lungo
elenco dei 40 arrestati, un terzo circa minorenni, viene dato grande
risalto alla presenza di un dirigente di Forza nuova, Alan Di
Stefano. Tra i 29 fermati nel corso degli scontri solo due risultano
organici ai gruppi ultras. La notevole presenza di ragazzini tra i
protagonisti della battaglia di strada non suscita meraviglia:
Catania è la seconda città d’Italia per numero di minori
arrestati.
PARLA UN ULTRA' - L’ex
sindaco Enzo Bianco, divenuto presidente del Comitato parlamentare di
controllo dei servizi di sicurezza, consapevole della collocazione
‘politica’ del gruppo egemone in curva Nord, la Falange
d’Assalto, accusa dei disordini estrema destra e clan. Una
testimonianza preziosa, che aiuta a capire e a interpretare la nuova
realtà della violenza da stadio molto più di tante chiacchiere di
rito, è offerta dal Manifesto che ospita lo sfogo di un ultrà
catanese. Si tratta di un operaio precario di 23 anni che non milita
ma ha una dichiarata appartenenza di destra (bomber nero, tatuaggi,
tricolore, spillette), un diploma di scuola superiore e una normale
famiglia proletaria alle spalle: “La polizia ha avuto quello che si
meritava e forse adesso la smetteranno di fare i prepotenti ”. I
tifosi organizzati? “Bravi ragazzi che hanno un grosso seguito in
città (…) Quando partono gli scontri con gli sbirri, coinvolgi
praticamente tutti perché, la maggior parte, non aspetta altro che
togliersi qualche soddisfazione”. Gli ultras hanno dato “fuoco
alle micce” ma “la rivolta covava da tempo”: “Tutti ci
conoscono e sanno che non siamo tipi da tirarci indietro, su niente.
Con tutti gli altri, tifo o non tifo, condividiamo le stesse cose.
Lavori del cazzo, soldi che non ci sono, immigrati e neri che fanno i
padroni nei nostri quartieri, sbirri che ci rompono i coglioni dalla
mattina alla sera, giornalisti e politici, tutti servi dei comunisti
che ci disprezzano. Abbiamo gli stessi problemi e, nelle cose che
contano, la ragioniamo allo stesso modo”. La violenza, piuttosto
che un deterrente, funziona da attrattore: “Se ci sono buone
possibilità che si vada a uno scontro con gli sbirri, che si possono
assaltare negozi, supermercati e far cagare un po’ sotto tutti gli
stronzi in giro a fare shopping allora non mi bastano i pullman”.
L’impianto ideologico è reazionario: “Vivere la dimensione
comunitaria vuol dire avere un’identità, una Patria e una nazione
della quale vai continuamente orgoglioso e fiero. Difendi e affermi
il tuo essere bianco e italiano, che sono le cose che contano di più.
Noi andiamo molto fieri di questo e, soprattutto, al contrario di
quei fighetti stronzi dei no global, dei nostri soldati che difendono
nel mondo la nostra identità nazionale”. Questo apprezzamento non
è esteso a quei disgraziati che si limitano a difendere l’ordine
pubblico, perché, è chiaro che “il soldato è una cosa, lo sbirro
un’altra”. L’odio razziale non impedisce agli ultras catanesi
di rifornirsi da immigrati africani: nel corso delle retate dopo gli
scontri è scoperto un deposito di bombe carte gestito da quattro
senegalesi.
[Questo testo l'ho scritto per la seconda edizione di Fascisteria, pochi mesi dopo i fatti. I processi per la morte di Raciti si concludono con
la condanna a 9 anni per il minorenne Speziale e a 11 per il suo
complice, il 23enne Micale. Ma ancora oggi sono forti le perplessità
sull'effettiva responsabilità dei due: dalla testimonianza di un
poliziotto che solleva il dubbio che Raciti possa essere stato
involontariamente colpito da un jeepone in manovra alla perizia del
Ris che non avalla la corrispondenza tra ferita e oggetto indicato. Qui l'intero capitolo con qualche aggiornamento sulle "curve nere"].
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