"Ghigliottina per Kabobo". Annullate due condanne per odio razziale
Non basta per configurare il reato di propaganda di idee fondate sull’odio razziale un "sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto" per ragioni "attinenti alla razza, alla nazionalità", ma ci deve essere "una condotta discriminatoria che si fonda proprio sulla ’qualità personale’ del soggetto, e non, invece, sui suoi comportamenti".
Lo si legge nelle motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha annullato, con rinvio ad un nuovo giudizio d’appello, la condanna a 6 mesi per due commercianti che nel 2013, dopo il ’caso Kabobo’ a Milano, misero su un loro camion pubblicitario un manifesto con scritto "clandestino uccide tre italiani a picconate-pena di morte subito". Sul manifesto pure la "riproduzione di una ghigliottina la cui lama gronda sangue e accanto alla stessa l’immagine della testa di un uomo di colore decapitato". La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’avvocato Carlo Sergio Oldani, legale di Mirko Rosa, ex noto titolare di negozi ’compro oro’ e del padre.
Il 15 novembre 2017 la Corte d’Appello di Milano aveva confermato le condanne inflitte ai due commercianti dal Tribunale di Busto Arsizio (Varese), dichiarati "responsabili in concorso tra loro di avere propagandato idee fondate sull’odio razziale". Tra l’altro, "in primo piano" sul manifesto "simmetricamente rispetto alla ghigliottina campeggiava un’immagine di Mirko Rosa con un fazzoletto annodato in testa alla moda dei pirati e la scritta pubblicitaria del negozio".
Per la Suprema Corte, però, "il percorso logico giuridico compiuto dai giudici di merito è errato perché muove dal presupposto, rimasto indimostrato, secondo il quale le violente espressioni, che invocano in modo cruento e plateale l’applicazione della pena capitale, riportate nei manifesti" costituiscono attività "discriminatoria perché tale inammissibile sanzione sarebbe applicabile solo in ragione dello stato di clandestinità dell’uomo di colore accusato del triplice omicidio".
Manca, per la Cassazione, "un’adeguata ricostruzione della vicenda evocata dal manifesto che costituisce l’antecedente storico e logico", ossia gli omicidi a picconate commessi dal ghanese che l’11 maggio 2013 seminò il terrore nel quartiere Niguarda. E quindi "risulta insufficiente la motivazione nella parte in cui afferma la natura discriminatoria della condotta mediante una disarticolata evocazione del mero contenuto formale del manifesto a carattere pubblicitario, senza che si sia provveduto alla ricostruzione del contesto, ricostruzione che risulta essenziale per comprendere il contenuto discriminatorio della pubblicità". Per questo i giudici (prima sezione, presidente Filippo Casa) hanno disposto "l’annullamento della sentenza" di condanna "per colmare il vuoto motivazionale".
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