Guido Lo Porto: la gioventù mia e di Borsellino tra i giovani del Fuan
L'uomo e la sua predisposizione al servizio. Lo Stato contro la barbarie. Il mito formatosi come «uno di noi». Ecco Paolo Borsellino raccontato da chi è stato suo amico, sodale. Una storia che parte da una "sezione" come ci racconta il collega Antonio Rapisarda dalle colonne di Libero intervistando Guido Loporto capo politico di Borsellino ai tempi del Fuan l'organizzazione degli universitari missini.
Intervista che riportiamo per intero.
Amici di “fiaccola”. Quella fra Paolo Borsellino, il giudice eroe assassinato ventisette anni fa in via D’Amelio insieme con gli uomini della sua scorta, e Guido Lo Porto è un «rapporto sincero» legato a due episodi pubblici: il primo, a ridosso dei vent’anni, nato sotto il simbolo del Fuan, l’organizzazione degli universitari missini di cui il giudice fu membro e rappresentante all’ateneo di Palermo. Il secondo è datato 1992 quando – poche settimane prima della strage – l’allora deputato del Msi (lo sarà per dieci volte, diventando anche sottosegretario alla Difesa, presidente dell’Ars e direttore del Secolo d’Italia) lo chiamò per comunicargli che l’avrebbero candidato come presidente della Repubblica...
Onorevole Lo Porto, lei è stato il “capo” di Paolo Borsellino, ai tempi del Fuan di Palermo.
«In quegli anni di studio ci siamo impegnati insieme. Io a quei tempi ero il presidente del Fuan ed ebbi la grande opportunità di averlo come collaboratore. Fu un’esperienza importante: a lui piaceva farne parte, tant’è che venne eletto nell’organismo rappresentativo dove, lo dico francamente, primeggiava fra tutti quelli che intervenivano».
Una formazione che non ha mai dimenticato.
«La sua attività politica è legata a quell’episodio giovanile. Poi abbiamo seguito strade e professioni diverse ma nelle occasioni amicali i sentimenti praticamente sono sempre coincisi».
A differenza di tanti suoi colleghi che invece la tentazione politica...
«Molti, in un impegno postumo, scoprirono la pruderie politica. Lui non la ebbe mai. Neanche quando io gli proposi, da deputato del Msi, la candidatura per la presidenza della Repubblica, su mandato di Fini».
Fu il celebre tentativo di portarlo fuori dall’isolamento.
«Già ma lui mi disse: no grazie, io faccio un altro lavoro. Non è questa la mia aspirazione. Ti ringrazio ma ti prego di riferire che non sono disponibile, rispose. Fini però fece un ragionamento che convinse persino me che avevo la remora del “no” che mi fu rivolto da Borsellino. Disse: rivolgiamo a tutto il Parlamento l’appello per un uomo di tale spessore. E così, malgrado il diniego di Paolo, lo votammo».
Alla fine solo voi.
«Chissà che cosa sarebbe accaduto se il Parlamento si fosse convinto a votarlo...»
Arriviamo a quel maledetto 19 luglio di ventisette anni fa.
«Ero a casa. Appresi dalla radio la notizia. A quei tempi io ero sotto scorta, pregai gli agenti di portarmi in via D’Amelio, ci andai e trovai l’inferno dei vivi. Ancora la notizia ufficiale non c’era ma mi resi conto che era tutto finito».
In una delle registrazioni recuperate dalla Commissione antimafia emergono passaggi disarmanti e grotteschi. In uno di questi Borsellino riteneva assurdo il fatto di avere assegnata la scorta part-time: «Blindato la mattina, libero di essere ucciso la sera».
«Paolo non fu lasciato solo. Era solo in partenza. Nella lotta alla mafia c’era qualcuno che immolava la propria vita – come Falcone e lui – e altri che facevano burocrazia giudiziaria. Purtroppo nei momenti di emergenza l’elemento burocratico è destinato a fallire».
Tra il maxiprocesso e il 1992 in quel palazzo di Giustizia nacquero pure amicizie destinate ad incidere nell’immaginario. Giuseppe Ayala, come ricorda nel suo libro, quando entrava nella sua stanza scherzava chiamandolo affettuosamente «camerata Borsellino»...
«(Sorride) Ayala è stato un personaggio significativo in questa vicenda e ha sempre mantenuto questo suo ruolo super-partes. Era amico di Paolo, non c’è dubbio».
E Borsellino – scherzando a sua volta - non lo sostenne quando questo si candidò con il Partito Repubblicano: «Non posso votarti. Sono monarchico...».
«No, no. Non disse mai “io sono monarchico”, per lo meno in mia presenza. Disse “non ti posso votare. Perché tu sei quello che sei e io sono quello che sono”».
La verità sulla strage di via D’Amelio a distanza di ventisette anni ancora non emerge.
«Non può essere stata soltanto un’organizzazione criminale ad organizzare questa sfida sanguinosa contro lo Stato. Deve esserci stato qualcos’altro. Cosa non lo so, non voglio entrare nel campo della dietrologia. Tuttavia le due stragi, Capaci e via D’Amelio, sono combinate in un disegno eversivo che lo Stato o nasconde o trascura».
E la tesi sulla “trattativa”?
«È sbagliata alla base. Perché che lo Stato alla fine, di fronte alla sfida di una potenza criminale, cerchi un contatto tacito e sotterraneo è nella storia dell’attività criminologica. Che poi ci sia stato un vero e proprio accordo a tavolino questo non lo credo. Avere pensato a Consolo come complice della trattativa, avere pensato ad agenti che promuovevano questo fronte sostanzialmente di resa verso la mafia: ecco, a questo non credo. Alcuni degli imputati, non a caso, sono delle persone assolutamente fuori dalla vicenda. Insomma, la storia della trattativa entra a mio avviso – rozzamente – nelle facoltà e nelle funzioni di uno Stato che tenta ad ogni costo di agganciare una verità».
Poche ore dopo la strage, i giovani del Fronte della gioventù tappezzarono Palermo con un manifesto: «Meglio un giorno da Borsellino che cento da Ciancimino».
«Ricordo. Questa vicenda suscitò grande passione fra i giovani di destra che fecero di Borsellino la propria bandiera. Fece lo stesso anche con me che non ero più giovane».
«Sono una persona come tante altre», disse di sé.
«Non era come tutti gli altri. Anche se molto aperto, ironico e gioviale, tuttavia rimase sempre nell’ambito di questo ruolo che si era dato e lo aveva collocato in un crocevia, con Rocco Chinnici e Falcone, dal quale lui non volle uscire. Un ruolo che poi lo portò alla morte»«.
Il dispositivo dell’eroe.
«Sì. Ma gli eroi non nascono per puro caso. Non è che uno nasce e decide la carriera di eroe. Nessuno, in fondo, lo vorrebbe fare. Ma quando e se capita l’occasione o si è pavidi o si diventa – come nel suo caso - eroi».
Un ricordo personale dell’amico?
«Ci fu qualcosa che ci permise di vivere convivialmente le ultime vicende della sua vita. Una vacanza al mare. Lui era molto cordiale ed ospitale e ci riunimmo in alcune ville di amici. Quelle sere sono indimenticabili perché nel parlare di cose serie naturalmente non si perdeva l’occasione per quello che noi in Sicilia chiamiamo “u babbìu”...»
Intervista che riportiamo per intero.
Amici di “fiaccola”. Quella fra Paolo Borsellino, il giudice eroe assassinato ventisette anni fa in via D’Amelio insieme con gli uomini della sua scorta, e Guido Lo Porto è un «rapporto sincero» legato a due episodi pubblici: il primo, a ridosso dei vent’anni, nato sotto il simbolo del Fuan, l’organizzazione degli universitari missini di cui il giudice fu membro e rappresentante all’ateneo di Palermo. Il secondo è datato 1992 quando – poche settimane prima della strage – l’allora deputato del Msi (lo sarà per dieci volte, diventando anche sottosegretario alla Difesa, presidente dell’Ars e direttore del Secolo d’Italia) lo chiamò per comunicargli che l’avrebbero candidato come presidente della Repubblica...
Onorevole Lo Porto, lei è stato il “capo” di Paolo Borsellino, ai tempi del Fuan di Palermo.
«In quegli anni di studio ci siamo impegnati insieme. Io a quei tempi ero il presidente del Fuan ed ebbi la grande opportunità di averlo come collaboratore. Fu un’esperienza importante: a lui piaceva farne parte, tant’è che venne eletto nell’organismo rappresentativo dove, lo dico francamente, primeggiava fra tutti quelli che intervenivano».
Una formazione che non ha mai dimenticato.
«La sua attività politica è legata a quell’episodio giovanile. Poi abbiamo seguito strade e professioni diverse ma nelle occasioni amicali i sentimenti praticamente sono sempre coincisi».
A differenza di tanti suoi colleghi che invece la tentazione politica...
«Molti, in un impegno postumo, scoprirono la pruderie politica. Lui non la ebbe mai. Neanche quando io gli proposi, da deputato del Msi, la candidatura per la presidenza della Repubblica, su mandato di Fini».
Fu il celebre tentativo di portarlo fuori dall’isolamento.
«Già ma lui mi disse: no grazie, io faccio un altro lavoro. Non è questa la mia aspirazione. Ti ringrazio ma ti prego di riferire che non sono disponibile, rispose. Fini però fece un ragionamento che convinse persino me che avevo la remora del “no” che mi fu rivolto da Borsellino. Disse: rivolgiamo a tutto il Parlamento l’appello per un uomo di tale spessore. E così, malgrado il diniego di Paolo, lo votammo».
Alla fine solo voi.
«Chissà che cosa sarebbe accaduto se il Parlamento si fosse convinto a votarlo...»
Arriviamo a quel maledetto 19 luglio di ventisette anni fa.
«Ero a casa. Appresi dalla radio la notizia. A quei tempi io ero sotto scorta, pregai gli agenti di portarmi in via D’Amelio, ci andai e trovai l’inferno dei vivi. Ancora la notizia ufficiale non c’era ma mi resi conto che era tutto finito».
In una delle registrazioni recuperate dalla Commissione antimafia emergono passaggi disarmanti e grotteschi. In uno di questi Borsellino riteneva assurdo il fatto di avere assegnata la scorta part-time: «Blindato la mattina, libero di essere ucciso la sera».
«Paolo non fu lasciato solo. Era solo in partenza. Nella lotta alla mafia c’era qualcuno che immolava la propria vita – come Falcone e lui – e altri che facevano burocrazia giudiziaria. Purtroppo nei momenti di emergenza l’elemento burocratico è destinato a fallire».
Tra il maxiprocesso e il 1992 in quel palazzo di Giustizia nacquero pure amicizie destinate ad incidere nell’immaginario. Giuseppe Ayala, come ricorda nel suo libro, quando entrava nella sua stanza scherzava chiamandolo affettuosamente «camerata Borsellino»...
«(Sorride) Ayala è stato un personaggio significativo in questa vicenda e ha sempre mantenuto questo suo ruolo super-partes. Era amico di Paolo, non c’è dubbio».
E Borsellino – scherzando a sua volta - non lo sostenne quando questo si candidò con il Partito Repubblicano: «Non posso votarti. Sono monarchico...».
«No, no. Non disse mai “io sono monarchico”, per lo meno in mia presenza. Disse “non ti posso votare. Perché tu sei quello che sei e io sono quello che sono”».
La verità sulla strage di via D’Amelio a distanza di ventisette anni ancora non emerge.
«Non può essere stata soltanto un’organizzazione criminale ad organizzare questa sfida sanguinosa contro lo Stato. Deve esserci stato qualcos’altro. Cosa non lo so, non voglio entrare nel campo della dietrologia. Tuttavia le due stragi, Capaci e via D’Amelio, sono combinate in un disegno eversivo che lo Stato o nasconde o trascura».
E la tesi sulla “trattativa”?
«È sbagliata alla base. Perché che lo Stato alla fine, di fronte alla sfida di una potenza criminale, cerchi un contatto tacito e sotterraneo è nella storia dell’attività criminologica. Che poi ci sia stato un vero e proprio accordo a tavolino questo non lo credo. Avere pensato a Consolo come complice della trattativa, avere pensato ad agenti che promuovevano questo fronte sostanzialmente di resa verso la mafia: ecco, a questo non credo. Alcuni degli imputati, non a caso, sono delle persone assolutamente fuori dalla vicenda. Insomma, la storia della trattativa entra a mio avviso – rozzamente – nelle facoltà e nelle funzioni di uno Stato che tenta ad ogni costo di agganciare una verità».
Poche ore dopo la strage, i giovani del Fronte della gioventù tappezzarono Palermo con un manifesto: «Meglio un giorno da Borsellino che cento da Ciancimino».
«Ricordo. Questa vicenda suscitò grande passione fra i giovani di destra che fecero di Borsellino la propria bandiera. Fece lo stesso anche con me che non ero più giovane».
«Sono una persona come tante altre», disse di sé.
«Non era come tutti gli altri. Anche se molto aperto, ironico e gioviale, tuttavia rimase sempre nell’ambito di questo ruolo che si era dato e lo aveva collocato in un crocevia, con Rocco Chinnici e Falcone, dal quale lui non volle uscire. Un ruolo che poi lo portò alla morte»«.
Il dispositivo dell’eroe.
«Sì. Ma gli eroi non nascono per puro caso. Non è che uno nasce e decide la carriera di eroe. Nessuno, in fondo, lo vorrebbe fare. Ma quando e se capita l’occasione o si è pavidi o si diventa – come nel suo caso - eroi».
Un ricordo personale dell’amico?
«Ci fu qualcosa che ci permise di vivere convivialmente le ultime vicende della sua vita. Una vacanza al mare. Lui era molto cordiale ed ospitale e ci riunimmo in alcune ville di amici. Quelle sere sono indimenticabili perché nel parlare di cose serie naturalmente non si perdeva l’occasione per quello che noi in Sicilia chiamiamo “u babbìu”...»
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