Letti da noi 21/ Una vita in Avanguardia Nazionale di Mimmo Magnetta
Giacinto Reale, storico dirigente del Movimento Sociale Italiano a Bari, autore di interessanti saggi sullo squadrismo tra cui ricordo Racconti squadristi, prezioso collaboratore del blog recensisce il libro di Mimmo Magnetta intitolato Una vita in Avanguardia Nazionale edizioni Ritter.
Dopo un passato “normale” per un giovane attivista neofascista nella Milano dei primi anni settanta, tra aggressioni fatte, subite e sventate, pistole di insicuro funzionamento, progetti tanto arditi quanto velleitari, incontri con personaggi inimitabili, e dei quali resta il ricordo “forte”, ancora a tanti anni di distanza, quali, soprattutto, Rodolfo Crovace, detto “Mammarosa” e Giancarlo Esposti, Magnetta, giovanissimo militante avanguardista, entra in contatto con Roma.
Nella Capitale conosce i vertici del suo movimento, il mondo più in generale dell’estremismo “spontaneista”, si fa coinvolgere nella paranoia (l’espressione se non ricordo male, è della Mambro) che vi si affaccia, al punto da intitolare un capitolo “Volevo uccidere Giusva Fioravanti”.
Decisione maturata dalla convinzione che, contro ogni principio etico ed attivistico di tipo avanguardista, l’ex ragazzo prodigio della tv sia colpevole dell’irresponsabile coinvolgimento di tanti giovani nella logica della guerra di strada, per la sua personale idea che “gli atti ascrivibili alla rivoluzione andavano condivisi con più persone affinchè l’idea si propagasse”.
E’ la stessa accusa (che prevede la stessa “punizione”) che –e la cosa è singolare, forse “paranoica”, come dicevo prima- Fioravanti a sua volta farà a Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi, fondatori di “Terza Posizione” e colpevoli, a suo dire, di aver “messo in mezzo troppi ragazzini” ai quali poi non avevano dato il supporto necessario.
Su tutto, però, fa spicco la fascinazione che Magnetta prova nei confronti di due diversi personaggi dell’ambiente capitolino: Alessandro Alibrandi e Giuseppe “Peppe” Dimitri.
Nitido il suo ricordo del primo: “un puro, un “cavaliere”che sarebbe dovuto nascere in un altro periodo storico per trovare davvero la sua strada” e, ancor di più, quasi riverente, quello del secondo, visto come l’unico capace di aggregare, col suo carisma, le anime diverse del neo fascismo romano, come: “...si è visto anche ai suoi funerali, ai quali parteciparono più generazioni di militanti, fazioni avverse che in altri periodi si sarebbero sparate addosso”.
Dimitri è praticamente l’unico che egli “tira fuori” dalle critiche all’Avanguardia romana. Con lui partecipa, in soli tre mesi, alla fine del 1979, a tre rapine di autofinanziamento (tra cui il memorabile colpo alla Chase Manhattan Bank) , salvo poi –dopo l’arresto di “Peppe”, a dicembre dello stesso anno- rientrare a Milano, dove riprende la sua attività di “bancarellaro” col padre, che alterna alle operazioni di aiuto all’espatrio di latitanti e ricercati.
E’ proprio nel corso di una di queste operazioni, che viene arrestato, a Gaggiolo, il 21 aprile del 1981, mentre sta realizzando, con un altro, la fuga in Svizzera di Massimo Carminati. La sparatoria –unilaterale e furiosa- che accompagna l’intervento degli uomini dell’Ucigos, lascia Carminati orbo di un occhio e i suoi accompagnatori feriti a terra.
La seconda parte del libro è, perciò, dedicata all’ itinerario carcerario e processuale che segue, con una narrazione –non inedita per chi abbia familiarità con queste storie- di vessazioni delle guardie, rapporti sul filo del rasoio con detenuti comuni in lotta feroce tra loro (è l’epoca dei “cutoliani” e degli “anticutoliani”), magistrati ora involontariamente ridicoli ora volutamente perfidi.
Anche qui la carrellata dei nomi è impressionante: Bruno di Luia, Flavio Campo, Valerio Viccei, Vittorio Loi, Vincenzo Piso e tanti altri. Sorprendente, fra tutti, il ricordo dell’incontro con un Gianni Alemanno che, in uscita dal carcere di Viterbo, gli lascia il posto branda.
La vita del militante politico Mimmo Magnetta finisce praticamente con la scarcerazione, e credo “altra cosa” possano definirsi le sue esperienze di sindacalista del mondo delle piccole imprese e conduttore radiofonico a Radio Padania Libera.
E infatti, con la definitiva liberazione, la storia termina. Nella “Postfazione” conclusiva l’Autore tira le somme, rivendicando orgogliosamente tutto ciò che ha fatto, senza rinunciare al suo spirito polemico: “Ci siamo armati noi, e siamo partiti. Alcuni sono partiti per Paesi lontani”.
Accenno che riprende critiche simili già espresse in altre parti del libro, ed è, probabilmente riferito alla latitanza di Delle Chiaie, condannata in nome di una forte quanto elementare etica combattentistica, che prescinde dalle valutazioni politiche. Può ben dirsi, in conclusione, che la lettura “in parallelo” di questi due libri è stata solo uno “sfizio” di chi scrive, perché essi sembrano trattare veramente di due realtà diverse, che si intersecano quasi per caso, e non sempre sotto i migliori auspici. Magnetta confessa, ad un certo punto, di aver compilato in carcere, in aderenza al suo carattere tempestoso, e in preda ad un odio profondo verso il mondo “di fuori” una personale lista di proscrizione di individui che “dovevano pagare con la vita” i torti fattigli. Insieme a quattro poliziotti dell’Ucigos, colpevoli di vere sevizie al momento del suo arresto e ad un camerata milanese che, rimasto libero, aveva tenuto un comportamento poco corretto, nell’elenco c’erano Delle Chiaie e Tilgher, ai suoi occhi responsabili di averlo “abbandonato” per non aver risposto alla sua richiesta di aiuto per una fuga.
Fantasie truci ma comprensibili di chi passa le sue giornate obbligato al tavolaccio di una stanzetta due metri per tre, e tali destinate a restare.
Oggi, dopo quasi quarant’anni, la ragionevolezza ha prevalso, al punto da far scrivere al giustiziere mancato di ieri: “Però, ed è una cosa che devo riconoscergli, su tante vicende Delle Chiaie aveva ragione, era assolutamente lungimirante”
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