19 luglio 1992 ricordando Paolo Borsellino, eroe caduto per la patria
Il 19 luglio di 26 anni fa, alle ore 16,58 una Fiat 126 rubata contente circa 90 chilogrammi di esplosivo del tipo Semtex-H, esplose in via Mariano D’Amelio 21 a Palermo, sotto il palazzo dove viveva la madre del magistrato Paolo Borsellino.
Dopo aver pranzato a Villagrazia di Carini con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva sua madre.
Una Fiat 126 imbottita di tritolo che era parcheggiata sotto l’abitazione della madre detonò al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo, risvegliatosi in ospedale dopo l’esplosione, in gravi condizioni.
Il collega Marcello Veneziani, dalle pagine virtuali del suo sito internet, con un interessante articolo, che riportiamo per intero, ricorda la figura del giudice Paolo Borsellino, eroe caduto per la patria.
Il 19 luglio del 1992 fu ucciso a Palermo il presidente ideale della seconda repubblica italiana. Era un magistrato, come colui che fu poi eletto presidente della repubblica (Scalfaro) ed era palermitano come colui che ora la presiede ma lui all’Italia dette la vita e non la retorica. Era un magistrato ma non era malato di protagonismo e di livore ideologico. Quarantasette parlamentari del Msi lo votarono presidente di una repubblica ideale. Quarantasette, morto che parla e dopo che avevano ucciso Falcone, Paolo Borsellino era un morto che parlava. Sapeva ormai da due mesi che il prossimo sarebbe stato lui ma rimase al posto suo, a testa alta.
Perché lui era davvero un uomo d’onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e rispetto; meno alla nuova, più spregiudicata e cinica. Lui era un servitore dello Stato, credeva nell’autorità dello Stato e nella missione del magistrato. Non serviva solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria, l’Italia, a partire dalla sua Sicilia. Non a caso, da giovane aveva militato nelle organizzazioni del Msi. Pochi ricordano che fu tre giorni prima della strage di Capaci, avvenuta durante le votazioni per l’elezione del presidente della repubblica, che i 47 missini votarono Borsellino presidente. Peccato che furono così pochi, e altri non si accodarono: forse quel voto avrebbe salvato la vita a lui e la dignità alla repubblica. Lo diciamo col senno di poi, forse avremmo salvato un grande uomo e ci saremmo risparmiati Scalfaro al Quirinale.
Quanta gente campa ancora sulla morte di Paolo Borsellino. Quanti magistrati devono a eroi come lui se hanno avuto largo credito e pubblica fiducia. La magistratura italiana per anni ha vissuto sull’eredità di toghe insanguinate come la sua, godendo di un’autorevolezza assoluta. Nessuno poteva toccare il ruolo e il prestigio delle toghe dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino. Quanti politici e giornalisti si fanno ancora belli in suo nome e pretendono, al riparo della sua ombra, di stabilire chi sono oggi i mafiosi, i loro alleati e succedanei, e chi sono invece i loro nemici, legittimati a sentenziare. Quante anime belle hanno inzuppato la loro retorica nel sangue di quel magistrato.
C’è una vena di sciacalleria in tutto questo e di appropriazione indebita della memoria di un eroe, un martire e un galantuomo. Perché Borsellino non era un giudice d’assalto malato di protagonismo e di furore ideologico, come molti magistrati che abbiamo tristemente conosciuto negli ultimi anni. Non era amato dai suoi colleghi di magistratura democratica, era visto con sospetto dalla sinistra libertaria. Borsellino non era un giudice giacobino, non cercava popolarità attraverso clamorosi atti giudiziari, e tanto meno pensava di darsi alla politica, di portare all’incasso la sua fama di giudice antimafia. Borsellino era davvero un uomo d’onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e rispetto; meno alla nuova, più spregiudicata e cinica della precedente. Borsellino era un servitore dello Stato, uno che credeva nell’autorità dello Stato e nella missione del magistrato. Non serviva solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria, l’Italia, a partire dalla sua Sicilia. Perché Borsellino era un uomo di destra, fin da ragazzo aveva militato nelle organizzazioni studentesche missine. Nella Palermo missina di Angelo Nicosia e di Dino Grammatico da Erice. Borsellino aveva diretto un giornale destrorso al liceo, Agorà, poi si era iscritto al Fuan nel 1959, entrò nell’esecutivo provinciale tre anni dopo e diventò vice di Guido Lo Porto. Il suo miglior amico di quel tempo era Pippo Tricoli, storico di valore e da sempre uomo di destra ed esponente del Msi. Tricoli mi disse una volta che aveva fatto conoscere a lui un altro suo valoroso coetaneo, all’epoca suo assistente universitario, Adriano Romualdi, intellettuale di prim’ordine ma dalla parte sbagliata, morto poi a 33 anni in uno strano incidente stradale. Erano uomini di destra tutti e tre, prematuramente scomparsi e coetanei, di quella destra di talento che aveva il senso dell’onore e che non considerava la coerenza la virtù degli imbecilli. E che rischiava per le proprie convinzioni perché come scriveva Pound se non rischi per le tue idee o non valgono niente le tue idee o non vali niente tu. Sono stati tanti gli eroi e martiri di questa ingloriosa repubblica. Tra loro svetta Borsellino che andò incontro alla morte con eroico fatalismo, sapendo che ormai una sentenza di morte era stata scritta contro di lui. Conosceva troppo bene la mafia e i mafiosi per non averlo capito e in un’intervista da brividi, dopo l’uccisione di Falcone e prima della sua, dichiarò “la certezza” di come sarebbe finita per lui. Ciononostante…
L’agonia di Paolo Borsellino non fu breve, come scrissero le cronache di quel giorno, ma durò ben 58 giorni. Perché quando fu ucciso Falcone con la sua scorta, il 22 maggio a Capaci, Borsellino capì che il prossimo della lista era lui. Lo sentiva, glielo facevano sentire e lo avvertivano anche coloro che gli stavano intorno e gli osservatori più attenti. Andò incontro all’ultimo appuntamento senza inscenare piazzate, conferenze stampa, movimenti di popolo e sceneggiate.
Aveva la sua scorta ma sapeva, dopo il caso Falcone, che gli uomini della scorta più che scudi, rischiavano di diventare suoi consorti, legati al suo tragico destino, come poi accadde. Così trascorse quella mezza estate del ’92 guardando in faccia il suo destino e i suoi carnefici, senza defilarsi o cambiar mestiere. In compagnia di un’agenda rossa in cui annotava tutto e che sparì alla sua morte. Quella fu un’estate decisiva, che segnò la fine della prima repubblica, l’elezione di Scalfaro, lo sviluppo di Tangentopoli.
Beato un popolo che onora i suoi eroi di cui abbiamo bisogno più del pane, contrariamente a quel che pensava Bertolt Brecht. Dopo i gattopardi, scrisse Tomasi di Lampedusa, verranno gli sciacalletti e le iene. Borsellino cadde per lo Stato e per la Patria, per l’Onore e per la Giustizia che morirono nell’esplosione insieme a lui. Onore a Borsellino.
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