Così Giorgio Vale riusci a sfuggire alla trappola allestita dal Sisde
Due mesi prima del blitz della polizia in cui troverà la morte, il 6 marzo 1982 Giorgio Vale sfugge alla cattura in circostanze rocambolesche. Le racconta Nicola Rao nel terzo volume della Trilogia della celtica:
Il pomeriggio del 5 marzo - racconta un dirigente del Sisde - sono molto incazzato. Vado dalla Digos e dico: «C’è stato un altro morto. Mi avete stancato. Ora basta. Ai Nar ci pensiamo noi». Andiamo subito a casa dell’intermediario di Vale, quello che la Digos sosteneva non c’entrasse nulla... Lo mettiamo alle strette, gli diciamo: «Sappiamo che sei tu il contatto di Vale». Poi proviamo a intimidirlo: «Hai partecipato anche tu alla rapina? È morto un ragazzo, se non parli ti fai almeno vent’anni di carcere». Lui risponde che non c’entra con la rapina, si spaventa a morte e ci racconta tutto. Dice che Vale, quando telefona, dice di chiamarsi «Salvatore». Lo lasciamo là con due agenti del servizio, che però fanno parte di un altro reparto. Il tizio telefona a Vale davanti a loro e gli chiede di incontrarlo. Vale gli risponde: «Ci vediamo oggi pomeriggio alla stazione della metro, due fermate dopo quella dell’altra volta, dal lato opposto». Il «contatto» di Vale dice agli agenti: «È la stazione di Furio Camillo». Ma un funzionario si mette in mezzo. Tutti cominciano a fare strani calcoli. Alla fine decidono che il contatto gli ha detto una cosa falsa, per depistarli. E che invece la stazione giusta è quella di Re di Roma. Vanno in massa a quella stazione, sia Sisde sia Digos; sono tutti in borghese e si piazzano ovunque. Circondano la zona, stanno sui motorini, a piedi, in macchina. Io chiamo in sede e mi dicono: «Guarda che Vale ha dato al ‘contatto’ un appuntamento a una stazione della metro che secondo noi è Re di Roma, ma secondo il ‘contatto’ è Furio Camillo. Noi andiamo alla prima, tu prova a dare un’occhiata all’altra». Vado con due miei uomini. Loro si fermano a parlare con il vigilante, davanti alla biglietteria. Io scendo giù e arrivo al binario. Ci sono cinque o sei persone che stanno aspettando la metro. Guardo meglio e a dieci metri da me vedo un ragazzo di carnagione scura, con il giubbetto alla vita, pantaloni sportivi, capelli corti, magro. Io di persona non l’avevo mai visto. Solo in foto. Ma mi sembra proprio Vale. Anche lui mi sta fissando. Forse un sesto senso. O forse mi ha riconosciuto. Magari in passato mi aveva visto in qualche corteo o manifestazione, non lo so. Comunque in un baleno ha una pistola in mano e me la punta contro. Me la ricordo ancora, una Python calibro 38. Penso che sto per morire. Mi esce fuori un urlo, da dentro. Un urlo umano e spontaneo: «Ma che vuoi?» Lui mi guarda per qualche secondo poi spara, ma non mi colpisce. Faccio un balzo all’indietro e mi metto a correre lungo la pensilina. Lui continua a sparare. Mi nascondo dietro il muro. Lo sento urlare: «Via, vai viaaaa!» Sento che spara un altro colpo, mentre dalle scale uno dei miei sta sparando a sua volta. Mi sposto dall’altra parte e lo vedo. Sono alle sue spalle. A non più di dodici metri. Ma non gli sparo. Non si spara alle spalle. E poi è evidente che anche lui poteva uccidermi e non l’ha fatto. Ha sparato a distanza solo per farmi scappare. Lui si mette a correre, lo inseguiamo, ma una volta fuori lo perdiamo. Incrociamo delle persone che ci dicono: «Un giovane con una pistola ha appena fermato un tizio su un’Alfasud, lo ha fatto scendere ed è scappato con la macchina». Capisco che è andato. E a quel punto è bruciata anche l’intera operazione. Bruciato il contatto, bruciate le microspie. I genitori di Vale in casa non si sentono più parlare...
La notizia della sparatoria nella metro verrà pubblicata il giorno dopo da tutti i giornali. Vale, riuscito miracolosamente a sfuggire alla trappola del Sisde, «buca» il successivo appuntamento con Nistri, che si convince del fatto che il suo camerata sia stato arrestato. E così, per evitare che lo tengano nascosto chissà dove e chissà per quanto tempo, decide di darne notizia alla stampa: Con una telefonata anonima alla redazione centrale dell’Ansa, un uomo giovane con forte accento romano ha annunciato l’arresto di Giorgio Vale. «Qui Nuclei Armati Rivoluzionari», ha detto. «È stato arrestato il nostro camerata Vale. Se al telegiornale della notte la notizia non sarà data e la polizia non dice in quale carcere è stato portato, uccideremo uno alla volta tutti gli equipaggi della polizia.» Il giovane ha poi affermato che Vale è stato arrestato in una zona di Roma Sud. La notizia dell’arresto di Giorgio Vale è stata però categoricamente smentita dalla Digos e dal Reparto Operativo dei carabinieri.
Quando, in piena notte, Nistri rivedrà Vale, capirà che i suoi timori erano infondati, anche se di poco. Il giorno dopo, polizia e servizi fanno il punto della situazione e capiscono di essere stati a un passo dall’arresto della «primula nera» dei Nar; convocano i giornalisti, ma non raccontano contro chi ha sparato Vale, né tantomeno della trappola organizzata dal Sisde. Confermano solo che si trattava proprio di lui:
Era proprio Giorgio Vale il giovane che ieri è fuggito sparando (ma non si sa contro chi) dall’uscita della stazione della metropolitana in via Furio Camillo, nel quartiere Tuscolano a Roma. [...] È probabile che il giovane, sfuggito a bordo di un’Alfasud rapinata in via Tarquinio Prisco [...] non sia riuscito a mettersi in contatto con i suoi «camerati». Ad avvalorare questa ipotesi, nel pomeriggio è giunta al quotidiano Il Messaggero una telefonata analoga a quella arrivata nella tarda serata di ieri all’Ansa. Nella telefonata, un anonimo, che ha detto di parlare a nome dei Nar, ha nuovamente minacciato rappresaglie contro la polizia («uccideremo due poliziotti») se non verrà data la notizia dell’arresto del «nostro camerata Giorgio Vale». Dal momento che sia la polizia, sia i carabinieri continuano a smentire di aver arrestato il terrorista nero, la vicenda si riempie di interrogativi. In primo luogo restano da accertare i motivi per cui Vale ieri ha sparato e, soprattutto, contro chi ha aperto il fuoco. Non avendo sparato ad agenti o a carabinieri, non è da escludere qualche misterioso episodio tra bande rivali di neofascisti.
A questo punto i Nar hanno due esigenze: quella di «tutelare» la Mambro, appena arrestata, e quella di smentire la vox populi che li accusa di aver volutamente sparato al povero Caravillani. E così, mentre Vale si salva per miracolo dall’arresto, quel che resta del gruppo diffonde un comunicato, scritto a penna, in stampatello, in fretta e furia, in cui si legge:
Nar-Gruppi di fuoco «Alessandro Alibrandi» Roma, 5 marzo 1982 – ore 10.45 Rivendichiamo l’assalto all’agenzia numero 2 della Banca Nazionale del Lavoro ad opera del gruppo di fuoco «Franco Anselmi» in cui è stata ferita la camerata Francesca Mambro. Avvertiamo, come già abbiamo detto nella telefonata di ieri all’Ansa di Roma, che se a Francesca verrà torto anche un solo capello, inizieremo ad uccidere un medico al giorno. E siamo pronti fin d’ora a eliminare ovunque tutti coloro che riterremo responsabili delle eventuali violenze fatte a Francesca. Chiunque cerchi di farla parlare la pagherà con la vita! Ancora una volta, dopo Padova, Roma con Capobianco, Milano in via Vallazze con Buonantuono e Tumminello (lunedì 19 ottobre ’81) ci avete sorpreso ma vi abbiamo soppressi. È soltanto l’inizio! Onore ai camerati caduti. Boia chi molla!
È la prima volta che i Nar rivendicano l’agguato di Milano. Lo stesso giorno, all’Ansa, arriva la seguente telefonata:
Non siamo stati noi a ferire alla nuca il giovane studente. Né gli occupanti della macchina, né quelli che venivano a piedi sono arrivati a meno di dieci metri da dove si trovava il ragazzo. A ucciderlo sono stati gli agenti [...] Per dimostrarvi che questa telefonata è vera vi diciamo un particolare che la stampa non ha scritto: nell’azione abbiamo usato una carabina Remington 222. I Nar in questo momento non lo sanno, ma proprio da questo fucile è partito il colpo mortale per il povero Caravillani...
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