27 aprile 1982/2: Danilo Abbruciati, il boss della Magliana amico dei camerati romani
Dei rapporti di Danilo Abbruciati, il boss della Magliana ucciso da una guardia giurata a Milano mentre fuggiva dopo un agguato al vicepresidente del Banco Ambrosiano, con la fascisteria romana mi sono occupato nella prima edizione dell'omonimo libro, attraverso la testimonianza della sua compagna dell'epoca, Fabiola Moretti.
Mentre a Milano una generazione di militanti nazionalrivoluzionari si compromette con le grandi manovre delle diverse frazioni del “partito del golpe” lasciandoci le penne, per poi ripiegare in massa nei ranghi della malavita, a Roma si consuma l'insano triangolo tra fascisti “duri e puri”, criminalità organizzata e agenzie semilegali di Stato. Teatro del connubio è un quartiere periferico aldilà del Tevere, la Magliana, case popolari e grandi vialoni, salito agli onori della cronaca negli anni ’70 per le dure lotte dei senzatetto e divenuto il santuario della malavita a cavallo degli anni ’80. È un capo della banda Danilo Abbruciati, ucciso da una guardia giurata a Milano dopo aver gambizzato Rosone, il vicedirettore del Banco Ambrosiano punito perché si opponeva alle manovre finanziarie di Roberto Calvi. Abbruciati aveva bazzicato con i pariolini, i fascio-criminali della Roma bene, e poi sviluppato rapporti organici con i “fascisti mercenari”, che avevano abbandonato - per dirla con Valerio Fioravanti - la militanza politica nel Fuan per soddisfare nelle rapine il gusto per l'azione e nel consumismo sfrenato i bisogni di una vitalità prorompente. Il boss scambiava con loro le “basi” delle rapine, ne riceveva gli incassi e li riciclava nell'usura. Partecipa così a una speculazione edilizia in Sardegna. La compagine è assortita: il banchiere Calvi, il re degli strozzini Balducci, il faccendiere Carboni (condannato in primo grado e assolto in appello dall’accusa di essere il mandante dell’attentato a Rosone), il suo segretario particolare Pellicani, fratello di un deputato del Pci e il commissario di polizia Pompò. Legami di amicizia con Abbruciati aveva anche Francesco Pazienza, il leader della struttura parallela del Sismi specializzata in “lavori sporchi”, protagonista tra l'altro del principale depistaggio sulla strage di Bologna. Secondo i pentiti di Cosa Nostra e della banda della Magliana, smentiti dal processo, Abbruciati avrebbe partecipato con compiti di copertura all’omicidio di Mino Pecorelli, eseguito dal fascista Massimo Carminati e dal mafioso Michelangelo La Barbera. (...)
Le confessioni di Maurizio Abbatino “Crispino” scateneranno un’altra ondata di “pentimenti” e nuovi guai giudiziari per Carminati, “accusato” da Fabiola Moretti (“proprio Abbruciati mi disse – racconta Fabiola – di aver dato l’incarico a Massimo Carminati”), e dal marito, Antonio Mancini, l’“accattone”, che collabora con i giudici ma conserva un’alta considerazione della propria personalità criminale. Per la coppia Carminati, con il mafioso Michelangelo La Barbera, ha ucciso Mino Pecorelli, il giornalista con ottime entrature negli ambienti dei servizi segreti e della massoneria che era entrato in conflitto con Gelli e Andreotti. E’ proprio la Moretti, all’epoca del delitto compagna di Abbruciati e spacciatrice di eroina, a offrirne un ritratto non compiaciuto eppure ammirato. A lei, di famiglia proletaria, il neofascista che si era voluto fare bandito non piaceva: “Lo sentivo diverso da noi. Noi commettevamo certe azioni perché avevamo bisogno di vivere, e non conoscevamo altro modo che quello per vivere. Massimo Carminati e i fascisti come lui commettevano le stesse azioni per gusto, per fanatismo ideologico, e ne ricavavano anche soldi, ma il movente primo era l’ideologia. Per questo non mi piaceva, e lo dissi a brutto muso a Danilo, il quale invece la pensava diversamente, mi diceva che Massimo era un bravo ragazzo, lo stimava moltissimo (...) Massimo era un tipo taciturno, serio, educato rispetto alla media delle persone che frequentavamo (...) Era stato coinvolto in un conflitto a fuoco, diceva sempre che dopo quell’episodio in cui sarebbe potuto morire, ogni giorno in più di vita era tanto di guadagnato, mostrando così una sorta di disinteresse per la morte”. Su una circostanza la Moretti è imprecisa: al valico di frontiera con la Svizzera non ci fu conflitto a fuoco, ma i poliziotti – informati da Cristiano Fioravanti – appostati spararono a freddo, senza dare l’alt e furono sottoposti a procedimento giudiziario (ovviamente senza conseguenze).
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