15 aprile 1969: bomba "nera" nello studio del rettore di Padova, Opocher
L'attentato allo studio del rettore dell'Università di padova, il 15 aprile 1969, è considerato una delle tappe dell'escalation della cellula nera patavina guidata da Franco freda. L'episodio è così ricostruita da Antonella Beccaria nel volume "Attentato imminente (Stampa alternativa, 2009):
Il 26 gennaio 1969 viene piazzata una bomba al palazzo di Giustizia di Padova. Pochi giorni dopo, il 5 febbraio, brucia la porta d’accesso alla redazione locale del “Gazzettino”. Il 29 marzo, invece, poco dopo le sei del pomeriggio, alcune bottiglie molotov e dei petardi vengono lanciati contro le sedi padovane del MSI, in via Zabarella, e del PSIUP in via Santa Sofia, mentre nella notte tra il 14 e il 15 aprile un ordigno esplode di fronte alla federazione del PCI di Rovigo. Con il trascorrere delle settimane il ritmo bombarolo non accenna a placarsi. Si arriva così all’attentato più ‘famoso’ di quel periodo, che più di ogni altro determinerà l’avvio delle indagini del commissario Pasquale Juliano.
Il 15 aprile 1969 l’ordigno, un oggetto occultato da sembianze inoffensive è piazzato sullo scaffale di una libreria nello studio del rettore padovano, Enrico Opocher. L’ordigno contiene polvere nera a base di nitrato di potassio, carbone e zolfo, oltre a polvere di alluminio e di magnesio, e non fa vittime né feriti perché così doveva accadere. L’esplosione avviene infatti poco prima delle undici di sera, a locali deserti, ma i danni all’ufficio del professore sono consistenti: vanno a fuoco libri, documenti e suppellettili, si infrangono i vetri delle finestre e i vasi, sono scardinati gli infissi e le porte. Le pareti riportano con evidenza i solchi delle schegge volate a mezz’aria come proiettili. Gli effetti dello scoppio sono visibili anche nelle stanze attigue. Dentro quale contenitore si celasse l’esplosivo lo si è potuto solo ipotizzare in seguito, in base alle perizie sui residui raccolti: un involucro di metallo, di cui resteranno solo frammenti, trasportato all’interno dello studio di Opocher dentro una borsa di plastica con manico e fibbia.
Perché colpire il vertice dell’ateneo padovano? Enrico Opocher è percepito come un uomo tutto d’un pezzo. Docente di Filosofia del diritto, storia delle dottrine politiche e dottrina dello Stato, preside della facoltà di Giurisprudenza dal 1955 al 1959 e dal 1948 direttore dell’istituto di Filosofia del diritto e diritto comparato, ad aprile è rettore da pochi mesi. Mesi in cui le università italiane sono percorse da agitazioni studentesche neppure mal viste dal cattedratico, ricorda chi l’ha conosciuto. Non interviene però – o forse non può – quando riceve la notizia che il 9 marzo 1969, poco dopo le cinque del mattino, la polizia irromperà per sgomberare le facoltà di Giurisprudenza e di Scienze politiche, il Magistero e l’istituto di Fisica. Solo in quest’ultimo luogo ci sono studenti, una sessantina in tutto. Nelle aule occupate fino a poco prima rimangono visibili i segni lasciati dai ragazzi: scritte sui muri che deprecano sia le formazioni conservatrici sia il Partito comunista, proclami in difesa del diritto allo studio, convocazioni per riunioni politiche e orari di lezioni autogestite. Ma, di nuovo, perché Opocher? Il rettore – da anni calato in un ambiente complesso ed eterogeneo, antifascista e partigiano tra il 1942 e il 1945 – si era battuto contro le leggi razziali applicate in Italia dopo il 1938 e aveva scritto di colleghi allontanati dalle proprie cattedre per pregiudizio antisemita, come accaduto ai fisici Enrico Fermi ed Eugenio Curiel o al docente di Diritto civile Adolfo Ravà. Di quell’ambiente, lontano ormai più di quattro lustri dagli anni della guerra, fanno parte tanto un assistente che si chiama Antonio Negri, il futuro leader di Potere Operaio e poi intellettuale dell’ultrasinistra che sarà il più giovane ordinario d’Italia, quanto il laureando Franco Freda, che discute la sua tesi in giurisprudenza, “Platone: lo Stato secondo giustizia”, proprio con Opocher. Che di lui dirà: «È un uomo intelligente, ma fanatico e su posizioni antisemite». Il rettore non avrà un tentennamento mentre le indagini si orientano verso gli ambienti dell’estrema sinistra. «Nessun dubbio, era una bomba di destra. Ho sempre pensato che l’impresa avesse un aggancio con la facoltà di Giurisprudenza, dove gli assistenti erano in prevalenza di destra. Freda si è laureato con me». E proprio verso di lui guarderà il cattedratico. Di fatto, ancor prima della condanna in Assise a Catanzaro, inflitta nel 1979, ci vorranno cinque anni perché le parole di Opocher trovino un’eco dal punto di vista investigativo, se si esclude il lavoro di Pasquale Juliano di cui si dirà.
Il 26 gennaio 1969 viene piazzata una bomba al palazzo di Giustizia di Padova. Pochi giorni dopo, il 5 febbraio, brucia la porta d’accesso alla redazione locale del “Gazzettino”. Il 29 marzo, invece, poco dopo le sei del pomeriggio, alcune bottiglie molotov e dei petardi vengono lanciati contro le sedi padovane del MSI, in via Zabarella, e del PSIUP in via Santa Sofia, mentre nella notte tra il 14 e il 15 aprile un ordigno esplode di fronte alla federazione del PCI di Rovigo. Con il trascorrere delle settimane il ritmo bombarolo non accenna a placarsi. Si arriva così all’attentato più ‘famoso’ di quel periodo, che più di ogni altro determinerà l’avvio delle indagini del commissario Pasquale Juliano.
Il 15 aprile 1969 l’ordigno, un oggetto occultato da sembianze inoffensive è piazzato sullo scaffale di una libreria nello studio del rettore padovano, Enrico Opocher. L’ordigno contiene polvere nera a base di nitrato di potassio, carbone e zolfo, oltre a polvere di alluminio e di magnesio, e non fa vittime né feriti perché così doveva accadere. L’esplosione avviene infatti poco prima delle undici di sera, a locali deserti, ma i danni all’ufficio del professore sono consistenti: vanno a fuoco libri, documenti e suppellettili, si infrangono i vetri delle finestre e i vasi, sono scardinati gli infissi e le porte. Le pareti riportano con evidenza i solchi delle schegge volate a mezz’aria come proiettili. Gli effetti dello scoppio sono visibili anche nelle stanze attigue. Dentro quale contenitore si celasse l’esplosivo lo si è potuto solo ipotizzare in seguito, in base alle perizie sui residui raccolti: un involucro di metallo, di cui resteranno solo frammenti, trasportato all’interno dello studio di Opocher dentro una borsa di plastica con manico e fibbia.
Perché colpire il vertice dell’ateneo padovano? Enrico Opocher è percepito come un uomo tutto d’un pezzo. Docente di Filosofia del diritto, storia delle dottrine politiche e dottrina dello Stato, preside della facoltà di Giurisprudenza dal 1955 al 1959 e dal 1948 direttore dell’istituto di Filosofia del diritto e diritto comparato, ad aprile è rettore da pochi mesi. Mesi in cui le università italiane sono percorse da agitazioni studentesche neppure mal viste dal cattedratico, ricorda chi l’ha conosciuto. Non interviene però – o forse non può – quando riceve la notizia che il 9 marzo 1969, poco dopo le cinque del mattino, la polizia irromperà per sgomberare le facoltà di Giurisprudenza e di Scienze politiche, il Magistero e l’istituto di Fisica. Solo in quest’ultimo luogo ci sono studenti, una sessantina in tutto. Nelle aule occupate fino a poco prima rimangono visibili i segni lasciati dai ragazzi: scritte sui muri che deprecano sia le formazioni conservatrici sia il Partito comunista, proclami in difesa del diritto allo studio, convocazioni per riunioni politiche e orari di lezioni autogestite. Ma, di nuovo, perché Opocher? Il rettore – da anni calato in un ambiente complesso ed eterogeneo, antifascista e partigiano tra il 1942 e il 1945 – si era battuto contro le leggi razziali applicate in Italia dopo il 1938 e aveva scritto di colleghi allontanati dalle proprie cattedre per pregiudizio antisemita, come accaduto ai fisici Enrico Fermi ed Eugenio Curiel o al docente di Diritto civile Adolfo Ravà. Di quell’ambiente, lontano ormai più di quattro lustri dagli anni della guerra, fanno parte tanto un assistente che si chiama Antonio Negri, il futuro leader di Potere Operaio e poi intellettuale dell’ultrasinistra che sarà il più giovane ordinario d’Italia, quanto il laureando Franco Freda, che discute la sua tesi in giurisprudenza, “Platone: lo Stato secondo giustizia”, proprio con Opocher. Che di lui dirà: «È un uomo intelligente, ma fanatico e su posizioni antisemite». Il rettore non avrà un tentennamento mentre le indagini si orientano verso gli ambienti dell’estrema sinistra. «Nessun dubbio, era una bomba di destra. Ho sempre pensato che l’impresa avesse un aggancio con la facoltà di Giurisprudenza, dove gli assistenti erano in prevalenza di destra. Freda si è laureato con me». E proprio verso di lui guarderà il cattedratico. Di fatto, ancor prima della condanna in Assise a Catanzaro, inflitta nel 1979, ci vorranno cinque anni perché le parole di Opocher trovino un’eco dal punto di vista investigativo, se si esclude il lavoro di Pasquale Juliano di cui si dirà.
Nel 1973 le autorità inquirenti non saranno più
quelle padovane ma, all’interno delle indagini condotte
dalla Procura di Milano, Gerardo D’Ambrosio parlerà di
«un’organizzazione avente come scopo immediato il
compimento di una serie indefinita di attentati terroristici,
progressivamente più gravi, e come scopo ultimo
quello di sovvertire con mezzi violenti l’ordinamento costituzionale
della Repubblica».
Franco Freda, insieme a un libraio-editore di Treviso, Giovanni
Ventura, verrà ritenuto responsabile in via definitiva
di questo attentato.
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