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28 febbraio 1978: Valerio Fioravanti uccide Roberto Scialabba

I primi a mettere in pratica il “passaggio alle armi”, nella forma dell’omicidio politico, è il gruppo di fuoco che ha debuttato – con la campagna contro i quotidiani – proprio alla vigilia di Acca Larentia. Anche se le cronache giudiziarie consegneranno alla storia un ruolo centrale del Fuan di via Siena nella vicenda dello spontaneismo armato, a tirare la volata è un gruppo di amici, sparsi tra Monteverde e l’Eur, che nonostante la giovanissima età (alcuni, come Cristiano Fioravanti e Alibrandi sono ancora minorenni) hanno già sviluppato un saldo rapporto di fratellanza combattente in anni di battaglie di strada. Hanno già ucciso una volta, Walter Rossi, quasi per caso, parecchie altre volte ci sono andati vicino. In qualche caso le hanno prese: il comitato autonomo di via Donna Olimpia è composto da duri. E così una volta, per fare capire che loro non sono da meno Valerio si è presentato da solo in sede e ha sfilato fuori un cannemozze. Il vecchio della banda è il protagonista della lite natalizia con l’onorevole Romualdi, Franco Anselmi. Consapevole dei propri limiti intellettuali, non pretenderà mai di assumere un ruolo di leader ma quando si tratta di rischiare è sempre pronto. Al liceo privato Tozzi è stato compagno di banco di Valerio, le poche volte che a scuola ci sono andati: ha due anni in più ma li ha persi perché è rimasto tre mesi in coma per un pestaggio e ha dovuto fare una lunga riabilitazione. Una bella classe, davvero: sei camerati tosti – racconterà compiaciuto Valerio – di cui due morti ammazzati (Anselmi e Alibrandi), due feriti gravi (lui e Carminati) e il “fesso” del gruppo era considerato Maurizio Boccacci, oggi leader di Base Autonoma e dell’area skinhead ma all’epoca semplice avanguardista. La cosa non è bizzarra: negli anni ‘70 molti licei romani erano interdetti ai neofascisti. 

Franco Anselmi

Amico di Mantakas, Anselmi era al suo fianco quella mattina maledetta e da allora non si è mai separato dal passamontagna intriso del suo sangue, un rituale funebre personale. Il primo anniversario Anselmi lo celebra con i Fioravanti e Alibrandi, accoltellando due compagni del liceo Tacito. Il 28 febbraio 1977 un ordigno micidiale devasta il Msi di Monte Mario: Franco e Valerio partecipano al presidio e con un altro camerata sparano contro i compagni del “Fermi”: uno è colpito tre volte. L’uso sempre più ostentato delle armi non gli impedisce di frequentare le sezioni di Monteverde e della Montagnola: la prima da qualche mese è stata chiusa dal partito e riaperta a sue spese dalla banda. In più di un’occasione, i “capetti” lo hanno visto aggiustarsi la pistola e hanno strizzato l’occhio, contenti che, almeno per quella volta, non sarebbero stati esposti, inermi, al fuoco della “canaglia” rossa. Almirante ha preso le distanze dal terrorismo ma la rivendicazione del diritto all’autodifesa lascia margini di ambiguità, anche perché il livello della violenza continua a crescere. Allo scontro fisico invocato dal segretario e praticato dai giovani è subentrata la sparatoria. Ora anche i compagni del “movimento” hanno imparato a usare il tritolo. I morti di Acca Larentia offrono altro sangue al suo passamontagna. Il prossimo sarà il suo. Ha appena il tempo di partecipare nel terzo Mantakas day all’omicidio di un poveraccio che non ci azzeccava, poi la fine. Hanno già cercato il morto nel pomeriggio, sparando su un gruppo di compagni al Portuense: uno si è salvato solo perché è finito il caricatore. 

Il raid a piazza don Bosco

Ci riprovano la sera, dopo il solito appuntamento al bar Fungo dell’Eur, il loro ritrovo. Partono in otto: i Fioravanti, Anselmi, Alibrandi, Pedretti e tre personaggi minori, Massimo Rodolfo, Paolo Cordaro, Francesco Bianco. L’obiettivo sono i compagni di Cinecittà. Le tre auto puntano su una palazzina occupata a via Calpurnio Fiamma. Secondo radio carcere da lì sono partiti i killer di Acca Larentia ma la polizia ha appena sgomberato l’edificio. Ripiegano su un bel tiro al bersaglio sugli “zellosi” in piazza don Bosco, a poche centinaia di metri. Anselmi e i Fioravanti sparano su un capannello radunato intorno a una panchina. Cristiano va a segno ma gli si inceppa la scacciacani, una calibro 6 modificata artigianalmente. Franco colpisce un altro che cade a terra e Valerio, impegnato a litigare con il revolver difettoso, non si perde d’animo. Si mette a cavalcioni del secondo ferito, lo blocca con la morsa delle ginocchia e da distanza ravvicinata gli tira due colpi assassini alla testa. Dieci anni dopo, intervistato da Sergio Zavoli per "La notte della Repubblica", Valerio Fioravanti ammetterà che guardando negli occhi la vittima, all'ultimo momento, si era reso conto che era innocente. L’attentato è ripetutamente rivendicato ma la stampa punta sui piccoli precedenti penali di Roberto Scialabba per accreditare la pista di uno scontro tra spacciatori. Solo Lotta continua ricorda la militanza della vittima e la data per attribuire il delitto a un commando “nero”. 
Dopo la caccia grossa, che è andata bene nonostante la qualità disastrosa dell’armamento - due pistole difettose su tre - la banda si pone il problema di evitare rischi inutili. I giovani pistoleri sono persone semplici: loro girano sempre armati e quindi pensano che anche i compagni facciano lo stesso. Questa distorsione mentale è in qualche modo giustificata: i “guerrieri senza sonno” vivono quotidianamente in un ambiente dove dilaga la sindrome della riserva indiana, in un frenetico oscillare tra spirito di scissione (la naturale rissosità neofascista) e spinta unitaria (determinata, a livello di istinto di sopravvivenza, dal pesante clima di stato d’assedio). Del resto, gli enunciati legalitari del partito – pensano i nostri “eroi”, tutti cresciuti in sezioni di frontiera – sono cazzate propagandistiche. Perché non pensare, allora, che a sinistra le cose funzionano allo stesso modo?

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