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Maroni un flop da 50 milioni di euro

Il collega Antonio Rapisarda, dalle colonne de Il Tempo, storico quotidiano romano,con un interessante articolo, che riportiamo per intero, ci racconta in modo differente il risultato del referendum. Leggendo, con la massima attenzione, i giornali di area centro destra ho notato festeggiamenti, eccessivi e fuori luogo, che svelano una certa preferenza per lo scenario di un paese spostato al Nord. Non è la lettura del collega Rapisarda e forse manco quella di Matteo Salvini


Il referendum “lombardo-veneto” sull’autonomia si è trasformato in una mezza Caporetto per i sogni revanscisti di quella Lega Nord che vuole fare a meno della “svolta nazionale” di Salvini. La tornata “storica” del 22 ottobre – dal “sì” scontato - infatti è finita sì con i brindisi di prosecco in Veneto per il boom di Luca Zaia e dei venetisti, ma anche e soprattutto con il brusco stop alla cavalcata di Roberto Maroni, incapace in Lombardia di fare molto di meglio della bassa soglia “morale” da lui stesso fissata al 34%. A tirare un sospiro di sollievo, invece, è proprio il segretario del Carroccio Salvini, che ha deciso di non spendersi in campagna elettorale e che in fondo si augurava un risultato così, senza effetto domino: ossia un responso in chiaroscuro, con un vincitore e un vinto. Un risultato che non lo coinvolge in prima persona, che fa rientrare la “questione settentrionale” nei ranghi e gli permette così di poter rassicurare gli alleati “sovranisti” non entusiasti della “sindrome Catalogna” che sembra aver contagiato diversi quadri leghisti. 

Il flop di Maroni
Gonfiava il petto spiegando che intendeva già oggi trattare con Roma su tutte le competenze e sul famoso residuo fiscale. Gli toccherà invece trattare “la resa” con la Capitale, ammettere di aver perso anche la sfida nella sfida con il sodale veneto - nonostante abbia speso un’enormità (50 milioni di euro, tre volte più del vicino) per promuovere il referendum – e partire con un handicap in vista della prossima campagna per le Regionali, proprio con il risultato che avrebbe dovuto lanciarlo. Che l’aria non fosse buona Roberto Maroni lo aveva capito con le prime stime sull'affluenza, che testimoniavano un non incoraggiante 11%. «Mi spiace che il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, non voti al referendum per l'autonomia della Lombardia», diceva ai giornalisti che gli chiedevano dell'assenza del primo cittadino, impegnato per il C40 di Parigi. Non sarà il solo, Sala, a disertare le urne. Alla fine a recarsi sono andati non più del 38% degli elettori. E pensare che quella lombarda era la sfida politicamente più importante, per dimensioni della Regione e peso specifico del governatore negli equilibri della Lega e di tutta la coalizione. Non è un caso che qui si sono registrate le maggiori polemiche sui costi. Anche quelli “politici”, dato che per accontentare i grillini – per ottenere, cioè, il via libera in consiglio regionale per il referendum - Maroni ha dovuto allinearsi alla richiesta del voto elettronico: ossia all'acquisto dei famosi tablet costati da soli 23 milioni di euro.

Il vincitore “serenissimo”
Se con il flop lombardo il “treno del Nord” si è spezzato, c'è un vagone che continua il suo cammino: il Veneto. È Luca Zaia, infatti, il vincitore della tornata. Con un 58% di affluenza (e con il quorum superato ben quattro ore prima della chiusura), lui sì che può rivendicare il mandato popolare per andare a trattare con Gentiloni su tutte le ventitrè materie di competenza previste dall'art. 117 della Costituzione. Il successo ufficiale del “sì” – rispetto alla Lombardia - è figlio di una causa e di un sostrato storico più solido: da un “venetismo” che non è solo nostalgia della “Serenissima” di Venezia ma di tutto un distretto produttivo e sociale che è diventato sistema. Proprio la scelta di indicare la soglia di sbarramento – sulla carta un rischio non richiesto - ha premiato la forzatura del governatore che ha costretto anche i più tiepidi e i non leghisti a non boicottare quella che è stata considerata l’ultima chanche per l’autonomia. La vittoria di Zaia, poi, è prodotto di un leghista tutto sommato non troppo distante dal segretario (Flavio Tosi proprio su Il Tempo lo ha indicato, polemizzando, come «il Salvini del Veneto») e rappresentante di una cordata di governo dove la bilancia con Forza Italia è tutto spostata sulla Lega.

Salvini è “salvo”
E Matteo Salvini? Il segretario può ritenersi soddisfatto. A vincere è stato il governatore con meno grilli per la testa e di opposizione interna. A uscire sconfitto, invece, proprio colui che ha sempre insistito sul “modello Lombardia”, ossia su un’alleanza più che larga, con dentro gli alfaniani ma soprattutto il manovratore del malcontento nei confronti della linea lepenista di Salvini. La mancata doppietta di Maroni e Zaia gli permette, inoltre, di calmare le acque nel centrodestra (con Giorgia Meloni in particolare) e di poter rassicurare gli elettori meridionali sulla bontà della sua svolta nazionale. L’altro Matteo può anche sorridere per un ulteriore motivo: la presenza di Silvio Berlusconi, che si è speso in prima persona a fianco di Maroni, non ha concesso quel quid pluris che in tanti aspettavano. Questo non fa che rafforzare proprio Salvini nella delicata partita che si sta giocando sulla leadership del centrodestra: fatta anche da elementi carismatici come il chi “funziona” di più. E stavolta il tocco di Berlusconi, se c’è, non si è visto. 

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