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Hobbit 40. Tuti racconta: i miei campi Hobbit vissuti nelle carceri speciali

Ecco il contributo telefonico di Mario Tuti per il quarantennale di Campo Hobbit

Intanto voglio ringraziare Marina per questa splendida opportunità. D’altronde buon sangue non mente! Suo zio, l’on. Simeone, fu l’unico parlamentare, insieme a Staiti di Cuddia, che mi era venuto a trovare in carcere, e mi difese anche in alcuni degli ultimi processi…
Comunque, ritrovarci qui, trovarmi qui anche se solo per telefono, non è, credo, nostalgismo di reduci, ma voglia di dare ancora voce e testimonianza dei ragazzi che fummo, dei ragazzi di allora che non ci sono più e di quelli che sarebbe stato meglio non ci fossero mai stati, né allora né ora…
In quella tarda primavera del 77, a Porto Azzurro, quando già Radio carcere dava inquietanti notizie di nuove strutture per il carcere duro, confesso che la storia del Campo Hobbit passò quasi in sordina, anche se c’erano già stati fenomeni, come la cacciata di Lama dall’Università, che facevano pensare ad un nuovo ‘68, e cominciavano ad apparire, anche nel nostro ambiente, nuove forme di militanza e azione politica, con l’emergere delle tendenze della Nuova Destra e di quella prima “Autonomia Nera”. Con una necessaria quanto spregiudicata presa di distanza dalle vecchie ritualità del passato e da certi protagonisti della scena politica “nera” (in primis Almirante, criticato sia per il suo ruolo sbirresco a Valle Giulia che per i suoi proclami a favore della pena di morte per i terroristi, i suoi applausi ai carabinieri e le sue sciacallesche presenze ai funerali dei camerati uccisi).
Comunque a Porto Azzurro, dopo un fugace passaggio di Concutelli, io ero l’unico “nero”, e non avevo occasioni di confronto con le altre realtà dell’ambiente, anche se tra i malavitosi non mancavano i simpatizzanti e soprattutto, tra i vecchi banditi, molti vantavano un passato, anche onorevole, nella RSI. Basti pensare a Benito Lucidi, re delle evasioni e della vecchia “mala” romana e ai tempi combattente ad Anzio, dove si era meritato la Croce di Ferro.
Anche la mia posizione, sia per età (avevo più di 30 anni), che per cultura e formazione era, diciamo così, conservatrice e tradizionalista, legata, allora come ora, ai simboli, ai miti e, lo riconosco, alla stessa retorica alle gesta del primo fascismo e della RSI… E magari, più che agli Hobbit, allora avrei pensato ad Aragon, anche se poi in realtà ero convinto – e lo scrissi anche in un pezzo su Quex – che una P38 era comunque meglio delle spade elfiche…
Ai primi di luglio poi ci fu il grande sballamento: con sorpresa vidi arrivare a Porto Azzurro una decina di camerati (Murelli, Azzi, il mio coimputato Franci, etc) e anch’io li raggiunsi alle celle della Polveriera, dove il giorno dopo fummo prelevati da uno stuolo di carabinieri e portati all’aeroporto, imbarcati sugli elicotteri chinook e decollammo per l’Asinara, da dove io proseguii, sempre in elicottero e da solo, verso Favignana, in quel carcere del tempo dei Borboni ricavato da una cava, con le celle scavate nel tufo.
Là c’era un bel po’ di compagni e un solo camerata, Bonazzi, di Parma: lui era entrato in carcere un paio di anni prima di me ed era già in corrispondenza con alcuni altri camerati, dentro e fuori. E’ allora che cominciai a scrivermi, mi ricordo, con Murelli, Zani, Carlo Terracciano (eh, eh, che si scusò per un suo divertente articolo della Voce della Fogna dove mi faceva fare la parte del lupo di Cappuccetto Rosso, o meglio nero,) mi scrisse anche Paola Frassinetti, e attraverso lei e Carlo cominciammo ad avere notizie dei nuovi fermenti all’esterno: c’era curiosità di conoscersi confrontando i rispettivi riferimenti ideologici e le stesse esperienze di militanza, e poi la voglia di lavorare insieme politicamente. Il clima era quello vissuto da una comunità assediata, da una parte dalle squadre della sinistra, delle BR, e dall'altra dalle persecuzioni della magistratura, politicizzata come del resto la stampa, le università, etc.
Pur in un certo senso isolati, ci accorgemmo così che nella destra era avvenuto un ricambio generazionale originato dall’irrompere sulla scena politica di nuove schiere di militanti, i giovani nati alla fine degli anni Cinquanta ed all’inizio degli anni Sessanta. Militanti distanti dalla memoria storica del fascismo, insofferenti del nostalgismo retorico, privi anche di ogni forma di subordinazione e considerazione nei confronti dei gruppi storici della destra extraparlamentare, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale…
Ragazzi ormai lontani dai moduli stantii e dagli atteggiamenti presenti nella tradizionale iconografia e nel consueto immaginario collettivo dell’estrema destra. In cui invece noi eravamo cresciuti, anche se con la comune ansia di metterci in gioco, e di provare a cambiare il mondo. Ricordo che in certe foto, nell’abbigliamento e nello stesso linguaggio, a me che venivo dalla provincia profonda e conservatrice, mi sembravano quasi dei compagni: i capelli lunghi, gli orecchini… Ragazzi animati dalla voglia di scendere in campo, che dei loro coetanei schierati sul fronte opposto condividevano gli interrogativi, le tematiche, gli stili comportamentali, la violenza e la furia antisistema.
Ci arrivarono anche le prime cassette di musica alternativa ( è allora che scoprii che c’erano altre canzoni oltre quelle della guerra, di Leo Valeriano, e poi Lucio Battisti, di cui si mormorava di una sua appartenenza al nostro ambiente) e poi le nuove pubblicazioni, i fumetti, la grafica (la croce celtica io la conobbi allora)…
Ma comunque ci “riconoscemmo”!
Quindi anch’io fui più pronto, più capace di prestare attenzione al secondo Campo Hobbit, quello del 78, che ci sconcertò per il ruolo di Fini e di tutto il vecchio establishment del partito, con lottizzazioni e compromessi correntizi.
Io ero sempre a Favignana insieme a Bonazzi, dove intanto ci eravamo impegnati su Quex, questo bollettino di collegamento tra noi prigionieri e l’esterno… E che alla fine è stato causa della mia più lunga vicenda processuale, iniziata a Bologna nell’82 e conclusasi a Roma, con un’assoluzione, dieci anni dopo… Eh, eh, e posso ricordare come quando alla fine ci fu il dibattimento, alla corte d’assise di Roma, con l’imputazione di stampa clandestina, il PM si mise a chiosare appunto anche il mio articolo Tolkienmania, spacciandolo come una sorta di direttiva per i Campi Hobbit e addirittura ritenendo il rifermento alla P38 come una rivendicazione, e esortazione alla lotta armata, e la citazione del waffenamt come chiara apologia di nazismo… E quando io gli replicai che da un lato mai avrei propugnato l’uso di armi forgiate per l’epopea del Reich, destinate quindi, come le spade elfiche appunto, per una lotta ideale, mitica, e non certo per azioni contro di loro, che ritenevo di bassa macelleria, e che per il resto io ero appunto nazista, e che facesse un po’ come gli pareva, il PM quasi schiattava di bile, rendendosi conto che non poteva farci nulla. Tanto che alla fine, pur essendo evidente, e anche da noi rivendicata, la stampa clandestina, ci dovettero assolvere per il disposto costituzionale sulla libertà di stampa… Eh, eh, al massimo avrebbero potuto darci una sanzione amministrativa, chessò, la radiazione dall’albo dei giornalisti, o il sequestro delle copie!
Comunque quella ridicola accusa fu sufficiente per far fare a Carlo Terracciano un paio di anni di carcere per un articolo, in un certo senso profetico: la recensione del libro di un dissidente sovietico, Amalrik, dal titolo: Riuscirà l’Unione Sovietica a sopravvivere fino al 1984? In fondo aveva sbagliato di pochi anni, e l’aver avuto ragione, allora come ora, è sempre imperdonabile!
Comunque è del terzo Campo Hobbit che ho il ricordo più chiaro e più divertente. Nel frattempo ero stato trasferito a Nuoro, dove avevo ritrovato Bonazzi, i miei coimputati Franci e Malentacchi; c’erano quello della Fenice, Azzi, De Min, Marzorati; Ferro, il coimputato di Concutelli, insomma, finalmente un po’ di compagnia, anche se sempre tutti della vecchia generazione!
E lì a Nuoro trovai anche il libro Lambro Hobbit, e spesso parlavamo del nuovo modo di intendere la militanza, e la stessa lotta armata. Piangendo i morti, deprecando gli arresti e le provocazioni.
E sempre Almirante, a presenziare ai funerali e a condannare gli arrestati, chiedendo sempre la pena di morte per i terroristi, e per me e Concutelli, la doppia pena di morte! Mentre poi negava piagnucolando l’accusa, apparsa su L’Unità, di aver firmato durante la Repubblica Sociale un bando che minacciava la pena di morte a partigiani e renitenti alla leva.
Così quando a qualcuno di noi, non ricordo chi, forse a Azzi, giunse una cartolina del Campo Hobbit, la riciclammo e la indirizzammo al “disonorevole Giorgio Almirante, Porcilaia dei deputati, Montecitorio, Roma” con il seguente messaggio,, non molto dialettico ma chiaro: “Brutto scemo, te che dici di non aver mai voluto la pena di morte dei partigiani e dei disertori durante la guerra, quando sarebbe stato tuo dovere comminargliela, ora chiedi la pena di morte per noi? Attento, che ti tiriamo giù dalle spese! Firmato: I Cavalieri Neri” E poi, le firme, mia, di Azzi e di tutti gli altri.
Ridemmo un po’ tra noi immaginandoci la faccia di Almirante se mai l’avesse ricevuta, e non ci pensammo più…
Uno o due anni dopo, stavo facendo il processo dell’Italicus, c’erano le elezioni e una sera in una Tribuna Elettorale con Almirante uno degli ospiti chiese appunto spiegazioni sulla sua richiesta di pena di morte per i terroristi. Una domanda certo concordata, perché Almirante tirò fuori di tasca la nostra cartolina, ed agitandola davanti alla telecamera gridò: “Sono Tuti e la sua banda che mi hanno condannato a morte!”
Francamente, uno dei momenti più divertenti della carcerazione!
Poi venne la strage di Bologna e le infami accuse della stampa e della magistratura, gli arresti indiscriminati che scompaginarono l’ambiente, di lì a poco anch’io sparii nel buco nero dei “braccetti” e quando ne riemersi, nell’ ’87, tutto era cambiato…
Ma non io, non noi!
Ed è un peccato che quella condanna in cartolina rimase solo uno scherzo, una boutade, perché, veramente, questi politicanti hanno sulla coscienza non solo il sangue di tanti ragazzi ma la morte di un mondo, dei nostri ideali, dei nostri sogni…
Nemmeno nei momenti più duri dei braccetti, tra pestaggi, condanne ingiuste ed isolamenti, e quando fuori la repressione e gli avversari si accanivano cupamente contro di noi con morte e persecuzioni, mai ho avuto il senso della confitta o la tentazione di arrendermi.
Il senso della sconfitta, e della fine di un mondo, lo dobbiamo a questi che passarono dai campi Hobbit e dalla militanza a fare i ministri, i governatori, i sindaci... Ma noi ci siamo ancora, e il conto è ancora da fare!
Un saluto ed un abbraccio a braccio teso!
Mario Tuti





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