Da «camerata, basco nero, il tuo posto è il cimitero», Fini divenne subito una «costola della sinistra»
(G.p)Il collega Diego Gabutti dalle colonne virtuali di Italia Oggi, quotidiano giuridico economico e politico, ci ricorda come Gianfranco Fini divenne, come lo fu Umberto Bossi nel 1994, una costola della sinistra.
E così, alla fine, è saltato fuori che dopotutto la denuncia-inchiesta de il Giornale non era una «macchina del fango». C'era davvero del marcio a Montecarlo. Non erano fake news o post verità, come si direbbe oggi; e non era una campagna di fango, come fu definita allora (forse lo ricorderete) dai media devoti e dai giornalisti collettivi. Era il crepuscolo dell'età berlusconiana, quasi dieci anni fa. L'ultimo dei Mascelloni, il fondatore e boss d'Alleanza nazionale , Gianfranco Fini, aveva litigato di brutto col suo sdoganatore, Silvio Berlusconi. Fu allora (impossibile dimenticarlo) che andò in scena un siparietto famoso..
Berlusconi, dal palco, aveva invitato Fini, colpevole d'insubordinazione, a lasciare la presidenza della Camera e allora Fini, a passetti implacabili, era avanzato fin sotto il palco e, agitando il ditino in direzione del leader di plastica, aveva pronunciato la sua sola frase storica: «Che fai? Mi cacci?» Per quanto uomo di spettacolo, praticamente il Johnny Dorelli della politica, Papi non era stato abbastanza pronto nella risposta. Come Walter Matthau nella Strana coppia, quando Jack Lemmon alza un dito contro di lui, Berlusconi avrebbe dovuto fare un passo indietro ed esclamare: «Non puntarmi addosso quel dito se non intendi usarlo». Rimase, invece, a bocca aperta, senza credere ai propri occhi, e tra i due s'andò rapidamente ai materassi, come nel Padrino, tutto un altro film.
Fu uno scontro politico: l'ex vice del Caimano diventò da un giorno all'altro il cocco delle opposizioni de sinistra e, come si diceva, della stampa devota, che cominciò a tifare per lui. Da «camerata, basco nero, il tuo posto è il cimitero», Fini si trasformò in una «costola della sinistra» (come l'Umberto Bossi del 1994, nei giorni del Ribaltone: il colpo di teatro che aveva scalzato, dopo pochi mesi di regno, Berlusconi I dal trono). Fini fondò un gruppuscolo parlamentare che battezzò pomposamente Futuro e libertà (da cui «futuristi», come furono chiamati per un po', prima del rapido e definitivo oblio, i suoi membri). Anche lo stesso Fini, trascorsi tutti questi anni, non saprebbe dire in cosa consistesse, di preciso, la ragion d'essere di Futuro e libertà (io non ci provo nemmeno). Era un partitino senza un'identità politica precisa.
Ma se all'inizio fu uno scontro soprattutto politico, liberaldemocrazia di plastica contro futurismo imperscrutabile, in breve diventò uno scontro personale che non soltanto oppose il presidente della camera al Dux della sua stessa coalizione ma anche l'ex generalissimo dei post fascisti ai suoi colonnelli. La faccenda prese questa brutta piega quando si scoprì che la famiglia Tulliani, con la quale Fini era imparentato per via matrimoniale, aveva allungato artigli e zanne su una proprietà del partito: una casa a Montecarlo, roba di lusso, che una vecchia simpatizzante aveva lasciato in eredità ad Alleanza nazionale. Venduta per due soldi a una società che faceva capo al Cognato Tulliani, e immediatamente rivenduta a un'altra società sempre vicina ai Tulliani, la casa era diventata una proprietà di famiglia.
Ci furono inchieste nei paradisi fiscali dei mari del sud (tutti finsero di scandalizzarsene, anche la magistratura). Libero e il Giornale non s'erano mai divertiti tanto. Fini, indignato, negava tutto. Fantasie! Calunnie! Infamità! Ma alle sue proteste d'innocenza credevano in pochi, anzi nessuno: Fini svanì, subito dimenticato, dalla scena politica.
Ora salta fuori che non solo era tutto vero (i conti cifrati nei paradisi fiscali, le società offshore da romanzo di spionaggio, la casa di Montecarlo che Francesco Corallo comprò dal Cognato per una cifra da capogiro e che subito cedette gratis al medesimo) ma che c'era di peggio (Corallo e le sue macchinette per il gioco d'azzardo, le scoperte coperture politiche di cui godeva per evadere le tasse, una pioggia di mazzette milionarie). È una storia sordida. Intendiamoci: forse l'ex vice-leader del centrodestra è davvero una vittima dei Tulliani, come sostiene. Forse è stato davvero intortato dal Suocero, dal Cognato e dalla Bella Moglie. Ma il fatto che si dia del coglione da solo rende l'ipotesi un po' troppo teatrale e la storia ancora più patetica. Non stupisce che dalla platea non si sia alzato un applauso ma soltanto un invito a spararsi.
E da quel momento che iniziano le sventure politiche di Gianfranco Fini, leader di un partitino senza una identità precisa punito dal corpo elettorale alle elezioni politiche con un misero 0,47%.
Ma se all'inizio fu uno scontro squisitamente politico, ben presto divenne altro. Infatti la faccenda prese una brutta piega quando si scoprì che la famiglia Tulliani, con la quale Fini era imparentato, aveva allungato gli artigli su una proprietà del partito, una casa a Montecarlo,che la contessa Colleoni, vecchia simpatizzante missina aveva donato al partito per la buona battaglia. come ci racconta il collega Gabutti con un interessante articolo che pubblichiamo per intero.
E così, alla fine, è saltato fuori che dopotutto la denuncia-inchiesta de il Giornale non era una «macchina del fango». C'era davvero del marcio a Montecarlo. Non erano fake news o post verità, come si direbbe oggi; e non era una campagna di fango, come fu definita allora (forse lo ricorderete) dai media devoti e dai giornalisti collettivi. Era il crepuscolo dell'età berlusconiana, quasi dieci anni fa. L'ultimo dei Mascelloni, il fondatore e boss d'Alleanza nazionale , Gianfranco Fini, aveva litigato di brutto col suo sdoganatore, Silvio Berlusconi. Fu allora (impossibile dimenticarlo) che andò in scena un siparietto famoso..
Berlusconi, dal palco, aveva invitato Fini, colpevole d'insubordinazione, a lasciare la presidenza della Camera e allora Fini, a passetti implacabili, era avanzato fin sotto il palco e, agitando il ditino in direzione del leader di plastica, aveva pronunciato la sua sola frase storica: «Che fai? Mi cacci?» Per quanto uomo di spettacolo, praticamente il Johnny Dorelli della politica, Papi non era stato abbastanza pronto nella risposta. Come Walter Matthau nella Strana coppia, quando Jack Lemmon alza un dito contro di lui, Berlusconi avrebbe dovuto fare un passo indietro ed esclamare: «Non puntarmi addosso quel dito se non intendi usarlo». Rimase, invece, a bocca aperta, senza credere ai propri occhi, e tra i due s'andò rapidamente ai materassi, come nel Padrino, tutto un altro film.
Fu uno scontro politico: l'ex vice del Caimano diventò da un giorno all'altro il cocco delle opposizioni de sinistra e, come si diceva, della stampa devota, che cominciò a tifare per lui. Da «camerata, basco nero, il tuo posto è il cimitero», Fini si trasformò in una «costola della sinistra» (come l'Umberto Bossi del 1994, nei giorni del Ribaltone: il colpo di teatro che aveva scalzato, dopo pochi mesi di regno, Berlusconi I dal trono). Fini fondò un gruppuscolo parlamentare che battezzò pomposamente Futuro e libertà (da cui «futuristi», come furono chiamati per un po', prima del rapido e definitivo oblio, i suoi membri). Anche lo stesso Fini, trascorsi tutti questi anni, non saprebbe dire in cosa consistesse, di preciso, la ragion d'essere di Futuro e libertà (io non ci provo nemmeno). Era un partitino senza un'identità politica precisa.
Ma se all'inizio fu uno scontro soprattutto politico, liberaldemocrazia di plastica contro futurismo imperscrutabile, in breve diventò uno scontro personale che non soltanto oppose il presidente della camera al Dux della sua stessa coalizione ma anche l'ex generalissimo dei post fascisti ai suoi colonnelli. La faccenda prese questa brutta piega quando si scoprì che la famiglia Tulliani, con la quale Fini era imparentato per via matrimoniale, aveva allungato artigli e zanne su una proprietà del partito: una casa a Montecarlo, roba di lusso, che una vecchia simpatizzante aveva lasciato in eredità ad Alleanza nazionale. Venduta per due soldi a una società che faceva capo al Cognato Tulliani, e immediatamente rivenduta a un'altra società sempre vicina ai Tulliani, la casa era diventata una proprietà di famiglia.
Ci furono inchieste nei paradisi fiscali dei mari del sud (tutti finsero di scandalizzarsene, anche la magistratura). Libero e il Giornale non s'erano mai divertiti tanto. Fini, indignato, negava tutto. Fantasie! Calunnie! Infamità! Ma alle sue proteste d'innocenza credevano in pochi, anzi nessuno: Fini svanì, subito dimenticato, dalla scena politica.
Ora salta fuori che non solo era tutto vero (i conti cifrati nei paradisi fiscali, le società offshore da romanzo di spionaggio, la casa di Montecarlo che Francesco Corallo comprò dal Cognato per una cifra da capogiro e che subito cedette gratis al medesimo) ma che c'era di peggio (Corallo e le sue macchinette per il gioco d'azzardo, le scoperte coperture politiche di cui godeva per evadere le tasse, una pioggia di mazzette milionarie). È una storia sordida. Intendiamoci: forse l'ex vice-leader del centrodestra è davvero una vittima dei Tulliani, come sostiene. Forse è stato davvero intortato dal Suocero, dal Cognato e dalla Bella Moglie. Ma il fatto che si dia del coglione da solo rende l'ipotesi un po' troppo teatrale e la storia ancora più patetica. Non stupisce che dalla platea non si sia alzato un applauso ma soltanto un invito a spararsi.
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