Domenico Gramazio ricorda il camerata Angelo Mancia
(G.p) Angelo Mancia era un militante del Movimento Sociale Italiano che lavorava come fattorino al giornale del partito, il Secolo d’Italia. Il 12 marzo del 1980, quando aveva 27 anni, venne ucciso con sette colpi di pistola davanti al portone di casa, in via Federico Tozzi 10, nel quartiere Talenti a Roma.
I killer arrivarono in via Tozzi nella notte, a bordo di un pulmino Volkswagen di colore azzurro chiaro. Erano in due, armati di pistole calibro 7,65, con indosso camici bianchi, come quelli degli infermieri. Restarono nascosti dentro il pulmino fino al mattino, senza perdere di vista il portone del civico 10, in particolare il quarto piano. Nell’appartamento tenuto sotto controllo viveva la famiglia Mancia: il padre e la madre, titolari di un negozio di alimentari, e i tre figli.
Angelo era il primogenito, un ragazzone di otto anni più grande dei fratelli. Agli studi aveva preferito l’attivismo politico, nel partito di Almirante, frequentava la sezione di Talenti. Ogni giorno, in sella al suo motorino Garelli, recapitava le copie del Secolo d’Italia in Tribunale e in Procura. Quel 12 marzo Angelo Mancia si svegliò alle 7.30. I genitori erano al lavoro, i fratelli a scuola.
Alle 8.30 aprì il portone e si incamminò lungo il vialetto, verso il suo motorino. Dal pulmino saltarono fuori i due uomini coi camici bianchi e iniziarono a sparare. Mancia venne colpito. Tornò indietro, cercando rifugio nel portone di casa, muovendosi a fatica. Uno degli assassini lo raggiunse e gli sparò un ultimo colpo alla nuca. Nel frattempo arrivò una Mini Minor rossa, con alla guida un terzo complice che raccolse i due killer e si allontanò. Poche ore dopo l’agguato, alle 11.05, arrivò al quotidiano ‘La Repubblica’ una telefonata di rivendicazione: “Qui compagni organizzati in Volante Rossa abbiamo ucciso noi il boia Mancia. Siamo scesi da un pulmino posteggiato lì davanti.
L'ex senatore Domenico Gramazio, bandiera della destra missina romana, in Cuori Neri il libro di Luca Telese edito da Sperling & Kupfer, che dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli rende onore e memoria a 21 delitti dimenticati degli anni di piombo che hanno avuto come vittime militanti di destra ci parla di Angelo Mancia.
I killer arrivarono in via Tozzi nella notte, a bordo di un pulmino Volkswagen di colore azzurro chiaro. Erano in due, armati di pistole calibro 7,65, con indosso camici bianchi, come quelli degli infermieri. Restarono nascosti dentro il pulmino fino al mattino, senza perdere di vista il portone del civico 10, in particolare il quarto piano. Nell’appartamento tenuto sotto controllo viveva la famiglia Mancia: il padre e la madre, titolari di un negozio di alimentari, e i tre figli.
Angelo era il primogenito, un ragazzone di otto anni più grande dei fratelli. Agli studi aveva preferito l’attivismo politico, nel partito di Almirante, frequentava la sezione di Talenti. Ogni giorno, in sella al suo motorino Garelli, recapitava le copie del Secolo d’Italia in Tribunale e in Procura. Quel 12 marzo Angelo Mancia si svegliò alle 7.30. I genitori erano al lavoro, i fratelli a scuola.
Alle 8.30 aprì il portone e si incamminò lungo il vialetto, verso il suo motorino. Dal pulmino saltarono fuori i due uomini coi camici bianchi e iniziarono a sparare. Mancia venne colpito. Tornò indietro, cercando rifugio nel portone di casa, muovendosi a fatica. Uno degli assassini lo raggiunse e gli sparò un ultimo colpo alla nuca. Nel frattempo arrivò una Mini Minor rossa, con alla guida un terzo complice che raccolse i due killer e si allontanò. Poche ore dopo l’agguato, alle 11.05, arrivò al quotidiano ‘La Repubblica’ una telefonata di rivendicazione: “Qui compagni organizzati in Volante Rossa abbiamo ucciso noi il boia Mancia. Siamo scesi da un pulmino posteggiato lì davanti.
L'ex senatore Domenico Gramazio, bandiera della destra missina romana, in Cuori Neri il libro di Luca Telese edito da Sperling & Kupfer, che dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli rende onore e memoria a 21 delitti dimenticati degli anni di piombo che hanno avuto come vittime militanti di destra ci parla di Angelo Mancia.
"Era una tigre, e non a caso in quei giorni, in cui Kabir Bedi era l'eroe di tutti i teleschermi per via del famoso sceneggiato televisivo, se ne uscì con un gigantesco bandierone sulla sua 500 con scritto sopra : Manciokan.
Era così Angelo: lui era Sandokan ed i suoi ragazzi, i suoi tigrotti. Lui era diventato, da appena un giorno, il segretario della sezione, prendendo il mio posto. Per lui non c'erano mezze misure: lui era il capo e tutti gli altri dovevano stargli sotto. Ma era l'uomo più felice della terra, diceva: un giorno diventerò consigliere circoscrizionale. Sarebbe accaduto davvero".......
"Se racconti Angelo devi dire com'era. Una furia: una volta dovetti andarlo a prendere in questura perché aveva buttato una puttana fuori dalla 500. Non aveva i soldi per pagare. La 500 gliela avevano regalata perché attaccasse i manifesti dell'Achillea la squadra di calcio del quartiere. Lui invece ci attaccava i manifesti del partito. Per i manifesti era stato anche condannato: ai compagni che glieli staccavano, lui ed altri camerati avevano fatto la posta... Li massacrarono di botte, una cosa devastante, con i bastoni, quaranta giorni di prognosi. Erano gli anni della violenza, si difendeva il territorio metro a metro. Ma Chiara Ingrao, figlia di Pietro, presidente della Camera del Pci, all'epoca extraparlamentare lo riconobbe mandandolo in carcere. Lo interrogarono anche, non fece nessun nome. E poi, appena uscito, mi chiedeva di scrivere un pezzo per il nostro giornalino e di firmarlo con il suo nome. Dopodiché si prendeva tutti i camerati uno per uno e gli faceva: oh ma te se letto er pezzo mio? Te lo sei letto il pezzo mio si o no? Era diventato, alla fine, fattorino de Il Secolo d'Italia. E lo avevamo fatto assumere lì, perché tutti gli altri lavori gli stavano stretti. Angelo era cosi.
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