Cinque anni dopo Paolo Signorelli/2. Marina Simeone: una vita sulla trincea dell'antagonismo.
Cinque anni già trascorsi, eppure
la sua morte rimane un’assenza recente; medesimo il malessere nel salutare,
stessa la gioia nel ricordare. I suoi libri sul tavolo accanto a me guidano la
mia memoria, i suoi disegni alle mie spalle rinvigoriscono le mie convinzioni,
un tempo condivise. Paolo Signorelli non è sconosciuto ai lettori di questo
sito web; è noto come imputato, ad altri come professore o come politico
audace, ai suoi figli come padre, alla
sua donna come marito e amico, a tanti altri come nemico. Tanti volti hanno
trovato ragion d’esistere nella profondità di uno sguardo, volti ricomposti
crudelmente nel teorema del mostro.
Nietzschianamente ha sempre
scelto la morte, dalle sassaiole contro i carri armati nemici, alle scelte
politiche antagoniste, al carcere, alla reazione associativa, non però per
ostacolare la vita, ma per accrescerne il senso. Non è finito con la testa tra
le nuvole, nemmeno ha scelto di imbrattare i piedi nel fango; è rimasto fedele
a se stesso, incamminandosi da viandante lungo la via della comunità, come
amava ricordarla, sacra fino a che ha creduto nella comunione con gli dei,
vivente fino a che si è spinta a difendere l’autodeterminazione dei popoli
micro o macro che siano, identitaria fin quando non si è arresa all’omologazione
del pensiero universalista.
Autentico nell’azione e nel
linguaggio, senza necessità di eufemismi ha manifestato il suo pensiero,
derubricando gli avversari in base al coraggio e alla levatura umana prima che
culturale, estetica prima che formale. Dei pentiti e ancor più dei dissociati non
discorreva, ne era ripugnato, li coniugava bene al mondo levantino del momento;
la rarità rimaneva a suo dire la coerenza, la grandezza, la bellezza, eppure non
ha mai dubitato dell’esistenza di queste qualità e le ha cercate fino alla
fine, le ha incarnate fino alla fine.
Ribelle in marcia verso una meta
che ignorava, alla ricerca di una libertà Jungherianamente raggiungibile solo
dagli uomini liberi, la cui impronta rimane nella storia come faro protettore
anche per gli altri, si fermava incuriosito ad osservare i ghetti societari, gli
emarginati dal “no” di chi detiene il potere e miccia eversiva contro l’attuale
sistema Stato. Per questo l’avvicinamento alle associazioni studentesche o
giovanili o anche agli ultras. Tardi si rende conto, come lui stesso ha ammesso nell’intervista pubblicata da Giuliano Compagno, che persino gli ultras rimangono
figli del loro tempo, del Kali yuga: giovani che si aggregano intorno ad una
ideologia svuotata nel senso pieno, privi di aspettative concrete, di sogni
coraggiosi.
Altrettanto critico il giudizio sull’emarginazione volontaria della
destra radicale, mente strumentalizzante il più delle volte di vittime delle
manovre politiche dei soliti “guru”, dei quali pubblicamente ha sempre fatto i
nomi.
Fascista senza nostalgia, capace
di sorridere del folklore e di infervorarsi per un principio riassumibile
perfettamente nel simbolo che orgogliosamente portava al collo, appariva
ridente e beffardo, amante del gioco della vita, pur considerandone le
complicazioni. Questo sguardo estasiato verso il domani lo ha reso magnetico
per tutti noi “lame di coltello”, anagraficamente dispersi nel deserto
ideologico e profondamente arrabbiati per l’eredità promessa, attesa e negataci
da chi ci ha preceduto. Anche io ero tra quei giovani che lo hanno circondato e
osservato, che in lui hanno riscontrato una cartina di tornasole con cui misurare
il proprio valore. Un modello cui tendere, un amico con cui camminare. Non
ricordo una sola costrizione o tentativo di indottrinamento, ricordo l’esempio
invece, chiaramente, il silenzio eloquente di chi ti ascolta e comprende, di
chi non si serve della tua energia, ma tenta di indirizzarla, riconoscendone
limiti e inclinazioni, come dovrebbe fare un padre.
Garantista, perché se a detenere
le redini del potere giudiziario è una masnada di ciarlatani in uno stato non
sovrano è doveroso esserlo. La giustizia la intendeva solo come strumento per
l’azione politica, come ribellione totale ad uno Stato indegno, usando anche la
propria esperienza di imputato, ma senza ergerla ad unico fine, occultando con
il personalismo una meta comunitaria.
Arrestato nel 1980 dopo
vicissitudini fisiche e psicologiche di cui in tarda età ha pagato il conto, gli
piombano addosso le accuse più paradossali, finanche lo spionaggio
internazionale. Completamente libero nel 1990 dopo 3618 giorni di detenzione
preventiva, quindici anni di sospensione cautelare dall’insegnamento e dallo
stipendio, giustificata da un decreto in cui si legge la “destituzione di
diritto” dal ruolo di insegnante. Ha resistito al carcere, alle offese, alle
calunnie, al perbenismo di una giurisdizione che non si limita ad esercitare il
diritto quando si trova di fronte il “male assoluto” e diventa amorale, disumana.
Paolo Signorelli in carcere, da innocente si è visto privato finanche
dell’assistenza medica domiciliare; il tutto è accaduto nel silenzio più
fastidioso di quella sinistra penosa, vociante finché ci sono diritti umani
comodi da difendere, assente se quegli stessi diritti devono essere
riconosciuti ad un fascista. I radicali soltanto oltre al suo mondo umano e politico e a singole
personalità pubbliche si sono interessate
al caso Signorelli; per il resto, per la politica come per la stampa le assoluzioni
che cominciano nel tempo a sovrapporsi non sono mai servite a ridare il giusto
valore ad un uomo processato per le sue idee, per la sua intelligenza, per la
sua capacità a non piegarsi né allo stato né alla giustizia né al partito.
Uomini come Paolo Signorelli non
escono mai dal carcere, rimangono segregati ai margini della buona società,
marchiati a fuoco, come si fa con le bestie; frequentati il più delle volte dal
mondo giovanile e non per ostentare ribellione, evitati frequentemente per aver
salva l’onorabilità quando è richiesto il sostegno concreto, addirittura
allontanati dai tavoli legittimati a parlare all’occorrenza. Gli interessati a
ciò che significa e ha significato essere Paolo Signorelli o potremmo dire
Giorgio Freda o Stefano delle Chiaie o Mario Merlino o Generoso Simeone sono
troppo pochi, persino per credere nell’esistenza di una comunità.
Si è spezzato solo dinanzi la
morte e ricordo il suo viso stanco sorridente a fatica, quasi invisibile nel
grosso letto bianco dell’ennesimo ospedale, se non fosse stato per l’azzurro
intenso dei suoi occhi. Lo saluto per l’ultima volta e prima di uscire dalla
stanza mi volto a guardarlo. Giustizia Giusta sul mobiletto accanto al letto,
la sua famiglia con lui; alza il braccio nell’incontrare i miei occhi e mi
sorride, rispondo al saluto ma il malessere di quei momenti mi impedisce di
fermare la mano. - Ricordati di tenere sempre fermo il braccio- mi risponde.
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