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Mafia Capitale, l'ex br Bugitti racconta a Noi donne la storia della cooperativa 29 giugno, al centro dell'inchiesta

(umt) Una volta tanto la mia pigrizia mi ha premiato. Fossi stato frenetico e reattivo come nella prima edizione di "Fascinazione", già da ieri avrei inondato il blog di storie di fascisteria, a proposito del blitz di Mafia Capitale. Al limite con qualche elemento di gossip in più, che so le foto di Riccardo Brugia che pomicia in spiaggia con Anna Falchi, ovvero il gigante e la bambina,1.78 senza tacchi. giusto per adeguarmi agli standard informativi contemporanei. Ora che ho potuto cominciare a sfogliare l'ordinanza mi rendo conto che un pezzo importante dell'inchiesta riguarda la coop rossa degli ex detenuti, 29 giugno. Diretta da Salvatore Buzzi, un comune che, come centinaia di altri, si politicizza in carcere e diventa un fiancheggiatore delle Br per poi inserirsi in un percorso di recupero sociale che parte dall'area omogenea di Rebibbia. Questa storia ce la racconta, pochi mesi fa, un'altra degli arrestati di ieri, Emanuela Bugitti, militante della colonna veneta delle Br, condannata per l'omicidio del commissario della Digos  di Venezia Alfredo Albanese a 16 anni e 6 mesi (immagino con i benefici della dissociazione), presidente della cooperativa 29 giugno servizi. Intervistata da Noi donne sul reinserimento lavorativo degli ex detenuti, la Bugitti ricostruisce il percorso politico e organizzativo della cooperativa.

Attente agli ultimi

La cooperativa 29 Giugno, a maggioranza femminile, e l’inserimento lavorativo delle fasce deboli. Intervista alla Presidente Emanuela Bugitti

Maria Fabbricatore
Emanuela Bugitti è Presidente della Cooperativa 29 giugno servizi e Direttore della 29 Giugno onlus nata nel 1984. La Cooperativa si occupa dell’inserimento lavorativo di detenuti, ex detenuti, disabili fisici e psichici e più in generale delle persone appartenenti alle fasce deboli della società: dai senza fissa dimora alle vittime della tratta agli immigrati.

Ci può parlare della storia della vostra Cooperativa?
La 29 giugno ONLUS è una cooperativa che nasce dall’esperienza fatta nel carcere di Rebibbia nel 1984, quando per la prima volta in Europa organizzò, insieme ai detenuti, il primo convegno-spettacolo in carcere. Antigone il titolo dello spettacolo, che fu un pretesto per riflettere sulla pena e sul cambiamento delle persone nella società civile, per riflettere sul rapporto con il territorio, individuando nel lavoro cooperativo una maggiore democrazia, come lo è anche adesso. Questo progetto fu ripreso e rilanciato da articoli di Pietro Ingrao e Miriam Mafai usciti sull’Unità che innescarono un dibattito nella società. Per noi fu importante trovare una via alternativa alla mera detenzione, che senza la parte risocializzante non ha, ancora oggi, molto senso. Da lì cominciammo un dibattito che portò alla legge di riforma dell’ordinamento penitenziario.

È cominciato tutto con una scommessa…
È sempre stata una scommessa, però noi abbiamo avuto l’appoggio della società civile e non solo, abbiamo avuto un grosso aiuto dalle centrali cooperative. E poi ci fu anche la riflessione sulla pena. Non ha senso tenere per vent’anni una persona in carcere senza prevedere, alla sua uscita, le condizioni per non dovere delinquere più. Questa era la scommessa che pensiamo di avere onorato in tutti questi anni.

Qual è lo scopo della vostra Cooperativa?
Offriamo possibilità lavorative a chi sta in carcere, questo è il nostro scopo. Quando un detenuto ha la possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione, quindi godere del beneficio della semi-libertà, noi gli offriamo il lavoro. All’inizio lavoravamo solo con i detenuti, poi abbiamo allargato anche al DSM (dipartimento di salute mentale) e in seguito da noi sono arrivate donne vittime di tratta.

Quale lavoro svolgono i vostri soci e in particolare i detenuti? 
Ci occupiamo di manutenzione del verde. L’intero comprensorio dell’Eur a Roma, ad esempio, lo curiamo noi, oppure il parco di Colle Oppio al centro della Capitale, siamo noi che lo manuteniamo. I ragazzi che lavorano su quell’area sono della nostra cooperativa, sono tuttora in carcere o sono ex detenuti, continuano a lavorare con noi, anche se hanno finito di scontare la pena. Insomma ci occupiamo di persone che hanno difficoltà a trovare lavoro.

È la forma cooperativa che vi permette di fare tutto questo? 
Sì, anche perché una persona condannata può avere l’interdizione di cinque anni o perpetua. Invece il nostro statuto prevede che “può” essere escluso il socio che è interdetto, noi su questa “possibilità” abbiamo fatto diventare soci tutti. Tutti partecipano alla vita della cooperativa, tutti beneficiano dei ristorni, e poi c’è il legame associativo personale, che è amicale e diventa fondamentale.

Come regge la crisi economica la cooperativa rispetto alle aziende o alle imprese? 
Secondo me la cooperativa è più duttile e quindi meno rigida rispetto agli orari di lavoro, oppure più flessibile rispetto ad un appalto che non è molto remunerativo: se tutti approvano lo si porta avanti comunque, in un’impresa è difficile chiedere di aumentare i ritmi di lavoro o di sobbarcarsi di responsabilità diverse dai propri compiti, in cooperativa si fa di tutto e di più perché si è soci, è un rapporto diverso con il lavoro, si è più solidali.

Sono molte le donne che collaborano con la vostra cooperativa? 
Nella 29 giugno servizi le donne sono in numero maggiore, nella 29 giugno onlus siamo pari. Abbiamo rivisto tutta la nostra organizzazione con la responsabile per le pari opportunità, per permettere orari flessibili eliminando le strutture che avrebbero potuto ostacolare. Perché se la sera il socio deve rientrare in carcere o non può lavorare per motivi familiari non è possibile discriminare. Legacoop nazionale ha fatto uno studio sulla condizione delle donne nelle cooperative: la prima fase ha riguardato lo studio e l’indagine, la seconda fase è stata di sensibilizzazione e di non discriminazione delle donne all’interno per poi favorire il più possibile il capitale umano femminile.

Quali sono gli strumenti concreti per le donne?
Gli strumenti importanti sono quelli della conciliazione e delle parità salariali. Tutti siamo assunti con lo stesso contratto di lavoro, poi però cambia in una parte che è detta “variabile”, nelle aziende le parti variabili sono più alte nei salari degli uomini, è questa una delle ragioni per le quali all’interno delle aziende, che sono impostati con modelli maschili e competitivi, troviamo disparità. Bisogna eliminare le barriere che impediscono a tutti di accedere allo stesso livello di trattamento. 

Facciamo degli esempi concreti..
Se la riunione viene convocata dopo l’orario di lavoro chi interviene sono per la maggioranza gli uomini, così come il sabato. Insomma ci sono una serie di misure da mettere in atto nelle aziende che oggettivamente frenano. Per quello che riguarda le cooperative essendo composte di soci si possono favorire tutti questi processi, quando si incontrano degli ostacoli si fa in modo di superarli. 

Cosa vi ha permesso di arrivare a mille dipendenti e diventare una realtà italiana così importante?
Il fatto di esserci sempre alleati con gli altri. All’inizio eravamo l’unica cooperativa a Rebibbia, dopo ne sono venute per fortuna tante altre. Per un detenuto il lavoro associato è l’unico possibile, perché si acquista uno status che è quello di lavoratore e questo dà fiducia e stima in sé stessi. Il movimento cooperativo ci ha aiutato moltissimo, abbiamo fatto una partnership con cooperative romagnole, da loro abbiamo imparato a strutturarci, senza di loro non ci saremmo strutturati così bene. La cooperativa è in qualche modo uno strumento di prevenzione. Nel nostro caso in particolare la recidiva è molto bassa: è inferiore all’1%, e ciò significa che è pochissima la gente che torna a delinquere. Ma c’è anche l’aspetto della corresponsabilità: da socio cambia il rapporto che hai con gli altri. È un modo per aiutare i giovani a trovare il lavoro, perché con pochissimi mezzi si mette in piedi la cooperativa. Per fare un’impresa ci vogliono tantissimi soldi, e poi questo è un lavoro collettivo, siamo pari. La sintesi collettiva, per me, dà un senso a tutto.

Una volta che iniziano con voi non rientrano in carcere?
Di solito rimangono con noi. I detenuti, che sono circa 120, sono totalmente integrati. 

Le donne detenute in che tipo di lavoro si sono integrate?
Qualcuna nelle amministrazioni, qualcuna nelle pulizie. Altre donne che avevano commesso reati di mafia sono state reintegrate, fuori dal contesto di origine, in varie attività.

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