Vittoria: un dibattito franco e appassionato con Annalisa Terranova sul non detto e le rimozioni degli anni Settanta
E' stata una discussione franca e appassionata quella che ha attraversato la presentazione napoletana di Vittoria, sabato scorso al Vomero. La restituisce (quasi) perfettamente l'autrice, Annalisa Terranova, in questo post pubblicato su Segnavia :
Considero la presentazione del romanzo Vittoria a Napoli (per la quale ringrazio Francesco Bellofatto) un po' una conclusione della serie di incontri e discussioni suscitati dal mio libro, molto interessante per l'eterogeneità del pubblico (una signora è anche andata via in segno di dissenso). Il confronto con Ugo Maria Tassinari è stato per me importante perché ha fatto "deragliare" dal tema per andare al nocciolo di una questione che non si affronta volentieri: quanto sanno i "camerati" delle esperienze dei loro coetanei sull'altra parte della barricata e viceversa. Ora, Tassinari è uno che sa. E' un interlocutore sui generis (di certi fatti, personaggi, ambienti lui sa anche molto più di me), ma non è rappresentativo di un mondo, così come non lo sono io (infatti lui stesso ha detto, a un certo punto, che sono isolata, ed è vero, e ne sono anche abbastanza fiera, così come lo è lui per il fatto che i compagni lo accusano di avere legittimato i "fasci"). E i punti sono stati questi, anche se il romanzo li evita accuratamente perché, se non sei in grado di dare una risposta, è inutile lanciare interrogativi al vento.
Il primo è che oltre la visione esistenziale degli anni Settanta (le emozioni, il dolore, l'attivismo, le persecuzioni, la violenza, il manicheismo nelle scuole ecc. ecc.) c'è un livello non detto, non conosciuto, che comprende anche la conflittualità tra fascisti e antifascisti ma non solo, comprende le stragi, comprende Gladio, comprende i Servizi e le ingerenze di altri paesi nella politica italiana. Nessuna pacificazione sarà mai possibile se alle generazioni future non sarà consegnata una narrazione convincente su tutto questo (e qui apro una parentesi: se la destra si accontenta di parlare di quel decennio di lutti solo attraverso la mistica dei caduti commette un errore enorme). In questo le revisioni e le autocritiche sono necessarie. A sinistra ci sono stati casi individuali di autocritica sull'atteggiamento tenuto in quegli anni ma è mancata una presa di distanza consapevole dall'idea che i fascisti si potessero ammazzare impunemente come nemici del popolo, come persone "infette" e pericolose per il paese. Questo non c'è stato perché l'antifascismo è ancora un tabù di comodo, così come dall'altra parte si agita la bandierina del Duce a scopi politici impedendo la necessaria storicizzazione del periodo e il suo superamento.
Il secondo punto è la cattiva coscienza della sinistra, il fatto che tanti ex militanti di allora pensano in fondo in fondo che il disprezzo e l'ostilità verso i neofascisti erano giustificati e non si domandano chi fossero i veri giostrai che mandavano avanti un girotondo tragico. Tassinari ha detto che le morti di quel periodo erano in fondo un doloroso "dettaglio" rispetto ai milioni di morti che le ideologie del Novecento hanno provocato [in effetti io avevo detto una cosa un po' più tranciante: come avrebbero potuto porsi il problema di pochi decine di morti quando non lo avevano fatto neanche davanti ai milioni di vittime di Pol Pot e delle guardie rosse? Il tutto rispondendo a Luciano Schifone che sottolineava come un qualsiasi comunista non si sente chiamato in causa dallo stalinismo mentre un neofascista resta sempre schiacciato dai conti in sospesi con il nazismo, l'Olocausto, ecc., umt] e che avevano un loro "perché" più dignitoso rispetto alle morti provocate ad esempio dal tifo da stadio. E' una visione dialettica dei fatti storici che non mi appartiene: ogni morte violenta è una ferita che strappa un'energia vitale al suo contesto naturale. E' un evento cui guardare con un senso di sgomento, avvertendo che c'è stata una perdita, un'assenza. Che nulla è necessitato storicamente su quel piano inclinato e che la soppressione di una vita implica responsabilità personali, che il contesto può agevolare ma mai sostituire. Per questo detesto la retorica sugli anni Settanta e mi auguro che nessuna operazione "identitaria" conduca a letture distorte di quegli anni. Poi, la pacificazione - nella quale non credo - può avvenire come ho detto anche durante il dibattito a Napoli, solo se non sarà più importante dare a uno del "comunista" e a un altro del "fascista" e quando a queste parole sarà dato un significato che ha lo stesso valore "neutro" per l'intera comunità dei "parlanti". Se non si pacifica il linguaggio, in altri termini, non ci sarà alcuna memoria condivisa.
Infine, dopo tanti incontri fatti sul tema col pretesto del mio libro, non si è venuti a capo di nulla: la rappresentazione di quel periodo è del tutto irrisolta e "aperta". Io ho voluto solo dare qualche pennellata, con un punto di vista molto individuale e con un lessico "pacificato". Il mio piccolissimo, insignificante contributo all'elaborazione del lutto di una generazione (sono parole importanti, ma l'ha detto Tassinari, io non avrei mai dato di una cosa scritta da me una definizione così seria). Elaborare però fa bene, è la "fissità" della visione che fa male. Perché si perdono troppi particolari. Troppe sfumature.
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