Scontri al derby di Catania, assolto il militante di Forza Nuova arrestato dopo la morte di Raciti
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Il tribunale ha condannato: Vito Agliozzo (un anno e 10 mesi), Giovanni Calvagna (2 anni e 6 mesi), Mario Razzano (un anno e mezzo), Damiano Sciuto (4 anni e 2 mesi), Santo Sciuto (un anno e 10 mesi), Giuseppe Siscaro: A due anni e due mesi sono stati condannati Sebastiano Barbagallo, Agostino Compagnini, Marco Lento, Lorenzo Marchese. Assolti per non aver commesso il fatto Giuseppe D'Allotta, Alan Di Stefano, Danilo Patrizio.
Secondo i giudici, i dieci imputati avrebbero organizzato «sistematiche azioni di contrasto violento nei confronti delle forze dell'ordine in occasione delle partite di calcio del Catania». Negli scorsi anni, per gli inquirenti, si era creato una sorta di mutuo soccorso con vere e proprie raccolte di fondi per sostenere le spese legali delle famiglie, con metodo - spiegano i giudici - per molti versi del tutto analogo a quello mafioso. Le attività violente erano coordinate da «capi» e tutti manifestavano odio incondizionato nei confronti delle forze dell'ordine.
Secondo il tribunale di Catania, queste dieci persone, già dal 2000, costituivano un'associazione tesa a usare la violenza contro gli «sbirri»: poliziotti e carabinieri che durante le partite di calcio assicurano la sicurezza allo stadio.
Quanto all'omicidio Raciti, fu invece condannato a otto anni di carcere, per omicidio preterintenzionale, Antonino Speziale, l'ultrà catanese che nel 2007, durante gli scontri all'esterno dello stadio per la partita di calcio Catania-Palermo di serie A, avrebbe scagliato un sottolavello di acciaio contro l'ispettore capo di polizia Filippo Raciti, morto cinque giorni dopo per le ferite riportate. Speziale all'epoca dei fatti era sedicenne. Confermata in via definitiva nel 2012 anche la condanna per l'altro ultrà che era assieme a Speziale al momento dei fatti, Daniele Micale, già maggiorenne all'epoca, al quale invece, la Corte d'Assise d'Appello di Catania, il 21 ottobre 2011 aveva inflitto 11 anni di carcere: 10 per omicidio preterintenzionale e uno per resistenza aggravata a pubblico ufficiale.
Così in Fascisteria (2a ed. 2008) ricostruivo gli incidenti di Catania:
La morte di Raciti
Il 2 febbraio 2007 ritorna dopo 45 anni in serie A il derby Catania-Palermo, un confronto ad altissimo rischio. Per la coincidenza con la festa di Sant’Agata – che produce tre giorni di delirio collettivo ai piedi dell’Etna – è stato anticipato alle 18 di venerdì. Per ridurre ulteriormente i rischi due pullmann con tifosi rosanero sono portati a spasso e l’ingresso allo stadio è consentito solo a secondo tempo iniziato. Al loro arrivo allo stadio dalla gradinata nord, ma anche dalle truppe che stazionavano all’esterno della gradinata, parte di tutto su tifosi e poliziotti che gli scortano. Tra i più accaniti lanciatori un vecchietto di almeno 70 anni che poi riesce a passare tra gli agenti che non lo immaginano certo capace di tale impresa. La risposta delle forze dell’ordine è un intensissimo lancio di lacrimogeni che rende irrespirabile l’aria. L’arbitro è costretto a interrompere la partita per circa mezz’ora: numerose testimonianze di spettatori attribuiranno a questo intervento poliziesco il precipitare della situazione. Alla fine del match la violenza dilaga nonostante l’imponente schieramento delle forze dell’ordine (1500 uomini ‘contro’ 21mila spettatori). Il vicino cantiere aperto per il rifacimento di via dello Stadio rifornisce di materiali freschi per la guerriglia urbana centinaia di giovanissimi invasati. A un quarto d’ora dal termine, intorno alle 20,30, un ispettore della polizia si accascia al suolo immediatamente dopo lo scoppio di una bomba carta e muore in pochi minuti. I giornali si affannano a spiegare la particolare efficacia degli ordigni artigianali che utilizzano la pietra vulcanica dell’Etna per produrre micidiali schegge incendiarie ma l’autopsia dimostrerà che l’esplosione non c’entra niente: ha ucciso Filippo Raciti l’emorragia prodotta da un colpo violentissimo (inferto con un tubo di ferro a sezione stellare) che gli ha spappolato il fegato. A trarre in inganno sulla dinamica la determinazione del poliziotto, uno tosto: ha continuato a battersi fino allo stremo. Incrociando le rivelazioni di un ‘pentito’, intercettazioni ambientali negli stanzoni della questura dove sono parcheggiati i fermati e lo studio certosino delle riprese video (assai sfocate per il buio e il fumo di lacrimogeni e torce) l’episodio è ricostruito così: per liberare un tifoso arrestato un gruppo di ultrà della Curva nord attacca una volante, a colpire il poliziotto è un ragazzone di 17 anni, uno studente di elettronica campione di arti marziali e giocatore di rugby. Pesa 92 chili e carica impugnando il supporto metallico di un lavabo, divelto dai gabinetti dello stadio, a mo’ di ariete. Abita in un quartiere popolare degradato, San Cristofaro, ma ha alle spalle una famiglia “sana”: padre operaio, ed ex sindacalista, nella maggiore fabbrica di componentistica dell’Etna valley, madre fioraia al cimitero. Un solo precedente: accusato (prosciolto) di rissa per aver difeso la sua ragazza da un corteggiatore molesto. Ammetterà la partecipazione agli scontri ma continuerà a negare sempre la responsabilità diretta nella morte dell’ispettore. Alla fine della battaglia si contano tra i 70 e i 100 feriti e molti ragazzi che lamentano pestaggi delle forze dell’ordine non passano per gli ospedali. Nel lungo elenco dei 40 arrestati, un terzo circa minorenni, viene dato grande risalto alla presenza di un dirigente di Forza nuova, Alan Di Stefano. Tra i 29 fermati nel corso degli scontri solo due risultano organici ai gruppi ultrà. La notevole presenza di ragazzini tra i protagonisti della battaglia di strada non suscita meraviglia: Catania è la seconda città d’Italia per numero di minori arrestati. L’ex sindaco Enzo Bianco, divenuto presidente del Comitato parlamentare di controllo dei servizi di sicurezza, consapevole della collocazione ‘politica’ del gruppo egemone in curva Nord, la Falange d’Assalto, accusa dei disordini estrema destra e clan. Una testimonianza preziosa, che aiuta a capire e a interpretare la nuova realtà della violenza da stadio molto più di tante chiacchiere di rito, è offerta dal Manifestoxiii che ospita lo sfogo di un ultrà catanese. Si tratta di un operaio precario di 23 anni che non milita ma ha una dichiarata appartenenza di destra (bomber nero, tatuaggi, tricolore, spillette), un diploma di scuola superiore e una normale famiglia proletaria alle spalle: “La polizia ha avuto quello che si meritava e forse adesso la smetteranno di fare i prepotenti ”. I tifosi organizzati? “Bravi ragazzi che hanno un grosso seguito in città (…) Quando partono gli scontri con gli sbirri, coinvolgi praticamente tutti perché, la maggior parte, non aspetta ltro che togliersi qualche soddisfazione”. Gli ultrà hanno dato “fuoco alle micce” ma “la rivolta covava da tempo”: “Tutti ci conoscono e sanno che non siamo tipi da tirarci indietro, su niente. Con tutti gli altri, tifo o non tifo, condividiamo le stesse cose. Lavori del cazzo, soldi che non ci sono, immigrati e neri che fanno i padroni nei nostri quartieri, sbirri che ci rompono i coglioni dalla mattina alla sera, giornalisti e politici, tutti servi dei comunisti che ci disprezzano. Abbiamo gli stessi problemi e, nelle cose che contano, la ragioniamo allo stesso modo”. La violenza, piuttosto che un deterrente, funziona da attrattore: “Se ci sono buone possibilità che si vada a uno scontro con gli sbirri, che si possono assaltare negozi, supermercati e far cagare un po’ sotto tutti gli stronzi in giro a fare shopping allora non mi bastano i pullman”. L’impianto ideologico è reazionario: “Vivere la dimensione comunitaria vuol dire avere un’identità, una Patria e una nazione della quale vai continuamente orgoglioso e fiero. Difendi e affermi il tuo essere bianco e italiano, che sono le cose che contano di più. Noi andiamo molto fieri di questo e, soprattutto, al contrario di quei fighetti stronzi dei no global, dei nostri soldati che difendono nel mondo la nostra identità nazionale”. Questo apprezzamento non è esteso a quei disgraziati che si limitano a difendere l’ordine pubblico, perché, è chiaro che “il soldato è una cosa, lo sbirro un’altra”. L’odio razziale non impedisce agli ultrà catanesi di rifornirsi da immigrati africani: nel corso delle retate dopo gli scontri è scoperto un deposito di bombe carte gestito da quattro senegalesi. (…)
Sulla tragedia siciliana si innesta una clamorosa campagna mediatica e politica paragonabile soltanto al caso “Spagna” attraverso la quale, cavalcando l’allarme sociale, si impone una decisa stretta nella gestione del business calcio. Il governo decide due settimane di serrata del campionato, l’anticipo delle misure di sicurezza per l’accesso allo stadio, porte chiuse per gli impianti non a norma (tornelli, biglietto nominale), il divieto di trasferta organizzata, l’adozione di misure preventive di polizia contro i tifosi non applicate ad alcuna categoria di soggetti socialmente pericolosi. Tra l’indignazione generale, a Livorno e Piacenza, compaiono scritte contro i “poliziotti bastardi” siglate Acab, cioè l’acronimo di “All the cops are bastards”. Un solo dato segnala l’intensità del problema: mettendo a confronto i dati degli ultimi due campionati (2005-2006 e 2006-2007) sono in calo gli incidenti con feriti (da 59 a 55) e il numero dei feriti civili (da 94 a 65), in leggero aumento gli arresti (da 96 a 108) mentre è sproporzionato il picco dei feriti tra le forze dell’ordine (da 142 a 202). Il presidente della Lega, Antonio Matarrese, prova a banalizzare: i morti fanno parte del sistema, il calcio non si può fermare. E’ schiacciato dall’indignazione a tenaglia di ministro e Coni.
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