Speciale Pino Rauti/5 - Ma Ordine nuovo era una struttura di servizio atlantica?
Il mio viaggio nella "Fascisteria" (parlo ovviamente della prima edizione del 2001, un'opera che oggi considero imperfetta e squilibrata ma che pure mi dicono non essere priva di pregio) parte proprio da Pino Rauti, scomparso questa mattina all'eta di 85 anni. E quindi con rigore filologico posto qui il primo capitolo del libro, segnalando tagli e inserendo qualche nota a margine (in corsivo e parentesi quadra). Le note a fine capitolo mancanti sono collegate a passi tagliati
di Ugo Maria Tassinari
Per molti anni siamo stati sommersi
dai tormentoni dietrologici, che arbitrariamente ricomponevano in un’unità
metafisica - le membra sparse nei quattro continenti, il cervello a Villa
Wanda - quel dolente impasto di sangue merda e lacrime che va sotto il nome di
“strategia della tensione” e di “eversione neofascista”. Oggi ci vengono a
dire che la P2 era prevalentemente un comitato d’affari[i],
mentre responsabili di stragi e progetti golpisti sarebbero stati in prima persona
gli amerikani e i loro mercenari “neri”, e non quell’“agenzia di stretta
osservanza atlantica” di cui pure ha parlato l’esperto Cossiga. Ci sembrano
forti i rischi delle tentazioni semplificatrici, e noi resisteremo alla
tendenza a fare - nomen est omen - di
tutta l'erba un fascio, mettendo assieme gruppetti neofascisti, sette esoteriche,
massonerie più o meno deviate, cultori della magia nera, terroristi grigi,
uomini degli apparati criminali e delle agenzie semilegali di Stato sotto il
cappello magico della CIA.
E’ per noi più feconda un’altra chiave di lettura:
quella che sottolinea come le vicende dell'ultimo quindicennio [è una delle tante tracce che il libro, scritto in tre successive stesure non ha avuto un accurato editing: essendo pubblicato nell'inverno 2001 era più esatto parlare di un ventennio: queste righe sono rimaste intatte dalla versione del 1997...], dalla
disfatta dello spontaneismo armato all'emergenza di un terrorismo di matrice
magico-religiosa, dagli intrecci tra organizzazioni criminali e reseaux degli apparati di Stato
all'ombra di logge coperte e di improbabili ordini cavallereschi ma anche la
confluenza nell’ala più radicale del separatismo nordista di uomini e miti
della destra neopagana e cattolico-tradizionalista sembrino inverare le feconde
intuizioni di Giorgio Galli[ii]
e di Furio Jesi[iii]
sul ruolo del nazismo magico e della pedagogia dell'atto inutile tipica
delle sette iniziatiche nelle vicende del terrorismo italiano negli anni ’70.
Hanno infatti consistenza le tracce dei perversi intrecci tra network della destra radicale, apparati
di Stato e agenzie internazionali del crimine, tra pratiche rituali e dirty works. Un buon punto di partenza è
rappresentato da Ordine nuovo, il centro studi fondato negli anni ’50 da Pino
Rauti come “ordine di credenti e di combattenti” che ha finito per costituire
una centrale di selezione e di reclutamento per le strutture parallele
della Nato e che le ultime inchieste sulla stagione della stragi individuano
come responsabile diretto dei più feroci attentati della “strategia della tensione” [all'epoca avevo in maggiore considerazione le tesi di Vincenzo Vinciguerra e i processi erano nella prima fase: quella delle condanne, poi si sa come sono finiti: assoluzioni a catena e condanne 'storiche' a futura memoria ...]
Su questa ipotesi ha lavorato con
grande determinazione il giudice milanese Guido Salvini, interrogando 564 testimoni,
sequestrando 47 faldoni di documenti del Sismi, scrivendo migliaia di pagine
che ricostruiscono la strategia della tensione, innervando con il suo lavoro
decine di inchieste abbandonate o in stato vegetativo. Per ragioni procedurali
– e al termine di una dura battaglia – si è visto espropriare delle indagini su
piazza Fontana ma, continuando a lavorare sui reati associativi connessi, ha
contribuito a disegnare in modo più articolato e credibile il contesto e i reseaux della prima stagione dello
stragismo.
Ordine nuovo, spesso semplicisticamente indicato come il gruppo
neonazista per antonomasia, è la filiazione di un cenacolo iniziatico di
stretta osservanza evoliana, i Figli del Sole. Negli anni ’60 si distingue
nel fiancheggiamento della frazione più rigorosamente atlantista dello Stato
Maggiore della Difesa, sul fronte opposto del “golpista” De Lorenzo. Il viscerale
disprezzo per la democrazia, definita “sifilide dello spirito” e la mai rinnegata
venerazione per le eroiche SS non hanno impedito a Rauti di essere a busta
paga di apparati della Repubblica nata per la Resistenza e, secondo recenti
acquisizioni istruttorie da lui sdegnosamente smentite, anche direttamente
della Cia.
Rauti rivendica il sostegno offerto
ai golpisti francesi: «Stringevamo
contatti con l’OAS e aiutavamo Soustelle nascosto in Alto Adige. Incontravamo
Alain de Benoist clandestino perché condannato per un attentato dinamitardo»[iv].
L’Alto Adige della lotta all’irridentismo tirolese è il laboratorio avanzato
per formare quadri e tecniche di controguerriglia dell’apparato di sicurezza
della Nato. Sulle compromissioni neofasciste nella strategia della tensione
il fondatore di Ordine nuovo finisce per ammettere: «È vero: negli anni Sessanta c’è stata tra noi la tentazione della
scorciatoia, e questo può avere in seguito aperto spazi di manovra»[v].
Opinione confermata da un altro leader di ON, Paolo Signorelli, otto anni di
carcere preventivo e tre condanne all’ergastolo (omicidio Leandri, Amato,
Occorsio) annullate in successivi gradi di giudizio: «C’è stato un tempo in cui l’azione dei servizi si è sviluppata con
insistenza nell’ambito della destra, perché questa offriva un buon grado di
utilizzazione per certe operazioni di potere, in quanto nel suo composito
mondo era possibile far leva su certe ricorrenti e stantie “esigenze d’ordine”
e sollecitare, nel contempo, le ambizioni di quanti, illusoriamente, ritenevano
di poter “conquistare il potere”»[vi].
Che poi i due siano considerati protagonisti di questa compromissione è altro
discorso. Rauti nega sdegnato di essere stato al soldo della Nato: «Non era ammissibile che mentre contestavamo
l’americanismo qualcuno facesse i servizi sporchi della peggiore Nato (...)
Io non credo che un elemento, se era
veramente un nostro iscritto, si desse a queste forme forsennate di attività ma
non posso escludere che in una struttura che è durata quattordici anni e nella
quale sono passate, credo, diecimila persone, e tutto un mondo di irrequietezze
giovanili, qualcuno si sia infiltrato. C’erano i mitomani, gli esagitati, quelli
che dicevamo e si drappeggiavano da nazisti. Poteva esserci il provocatore
mandato apposta»[vii].
Le più recenti inchieste su stragi e terrorismo nero compromettono pesantemente
la sua immagine ma alcuni riscontri indicati dai “pentiti” per dimostrare le
sue dirette responsabilità sono fasulli. Rauti cita due esempi: gli si
attribuisce la partecipazione a un summit di Nuovo Ordine Europeo (aprile 1972)
per definire la nuova fase della strategia del terrore mentre era detenuto per
la strage di Milano; Edgardo Bonazzi racconta che un suo complice nell’omicidio
di Mariano Lupo[viii]
avrebbe incontrato il leader di ON nella redazione romana del “Tempo” per
essere aiutato a riparare in Grecia quando Rauti, già eletto deputato, si era
licenziato dal quotidiano. Non è l’unico caso in cui le rivelazioni di Bonazzi
– reclutato come collaboratore di giustizia dopo un arresto per traffico di
stupefacenti, per la sua lunga militanza tra i detenuti dello spontaneismo
armato – fanno a cazzotti con l’evidenza. (...)
Sulla doppiezza di Rauti e di ON
lasciamo la parola a testimoni attendibili. Il primo è Giulio Caradonna, uno
dei più noti capisquadra della “piazza romana”, otto volte deputato del Msi: «Ordine nuovo aveva l'ascia bipenne, il ricordo
dei nibelunghi, la propaganda del mito della superiorità della razza ariana,
Odino, i castelli delle SS (...)
Rauti ai suoi giovani insegna riti magici, e quella storia dei galli. Ne parlammo
addirittura una volta in direzione: a Pisa, mi pare, c'erano delle sezioni
che alla mattina sacrificavano un gallo a chi sa chi, un rito druidico. E
senza neanche mangiarselo»[ix].
Uno scetticismo sospetto in un neofascista talmente appassionato di esoterismo
da affiliarsi alla massoneria nella loggia P2. Una doppiezza che ha avuto ampi
margini di manovra grazie anche al pressappochismo degli addetti ai lavori.
A
Rauti, infatti, alla luce di alcuni brillanti ed ineffettuali slogan come lo
“sfondamento a sinistra”, è stata attribuita arbitrariamente una qualifica di
“esecutore testamentario” e titolare del copyright
del fascismo di sinistra che anche leader giovanili missini a lui personalmente
non ostili, come Giulio Salierno[x]
e Marco Tarchi[xi],
gli disconoscono. La sua vicenda, attraverso cinquant’anni, si è dipanata
lungo tutt’altra traiettoria. Giovanissimo reduce, durante la prima detenzione
a Regina Coeli, è folgorato dal Verbo evoliano. È quindi tra gli animatori dei
Far, i Fasci armati rivoluzionari, processati per una catena di attentati e
al tempo stesso leader di una corrente giovanile «che si muove nell’orbita di Julius Evola: una sorta di estrema destra
iperspiritualista, gerarchica e antimoderna, ossessionata dalla demonia
dell’economia»[xii].
Nell’articolato spettro di posizioni del primo neofascismo Evola si poneva
agli antipodi dei “socializzatori”, i fanatici della Carta di Verona.
La scissione del 1956 che dà vita
al Centro studi di Ordine Nuovo è conseguenza della vittoria congressuale del
moderato Arturo Michelini contro il cartello della “sinistra”. Ma tutti i
“sinistrorsi” che escono dal Msi danno vita ad altre esperienze, dal Socialismo
nazionale di Massimo Invrea alla Nazione sociale di Ernesto Massi, professore di geografia
dell’Università cattolica, figura prestigiosa del corporativismo italiano.
Per gli ordinovisti il «vangelo della
gioventù nazionalrivoluzionaria»[xiii]
è Gli uomini e le rovine, scritto da
Evola per un’operazione di piccolo cabotaggio politico: legittimare il
rientro, alla metà degli anni ‘50, del principe Valerio Borghese in un Msi ormai saldamente
istituzionalizzato. Tutta le generazione successiva di “indole” sovversiva
orienterà l’azione politica ed esistenziale sulle coordinate di Cavalcare la tigre[xiv],
che un pupillo di "Giorgio" Freda ha definito livre de chevet dello spontaneismo armato[xv],
anche se in realtà i “guerrieri senza sonno” per lo più leggevano libri di
armi.
Particolarmente caustico è Vincenzo Vinciguerra, il responsabile ordinovista
di Udine che diventerà il più feroce accusatore di Rauti e delle sue compromissioni
con gli apparati militari e polizieschi dello Stato democratico: «La “Bibbia” dei nazisti alla Rauti, Gli
uomini e le rovine di Evola, nella quale
si sostiene che bisogna difendere lo Stato “anche uno Stato vuoto come
questo”, non fu altro - scrive
l’organizzatore della strage di Peteano - che
un’operazione strumentale che serviva a dare giustificazione al reingresso
di molti ufficiali che avevano aderito alla RSI e che, nel 1952, rientrarono
nelle Forze Armate giurando fedeltà sul loro “onore” allo Stato repubblicano,
democratico ed antifascista»[xvi].
La vocazione reazionaria di Rauti
si conferma nel ‘68: saranno molto più tentati dal Movimento i quadri di
Avanguardia nazionale, assai più sprovveduti dottrinariamente e semplicisticamente
educati al culto della disciplina e dello scontro fisico con i comunisti, dei
più raffinati militanti dell’ascia bipenne. Nella primissima fase i giovani
che avevano già letto l’ultimo Evola, erano pronti a Cavalcare la tigre. Uno dei primi feriti negli scontri di Valle
Giulia è il responsabile degli universitari ordinovisti, Mario Cascella. La
direzione richiamò i militanti che avevano abbracciato la rivolta studentesca
ed elaborò un documento che definiva la contestazione «una reviviscenza dell’utopismo anarchico»[xvii]. Cascella sarà con il gruppo del
Ghibellino tra i fondatori di Lotta di popolo, altri, radicalizzeranno la
rottura, passando nei ranghi dell’estrema sinistra o individualmente o
attraverso la breve esperienza, ancora ambigua, del Movimento studentesco europeo.
In occasione del Ventennale, Rauti non esita a parlare del ’68 come occasione
perduta e se la prende con la spedizione punitiva nell’Università di Roma occupata:
«Penso con rammarico che avevamo con noi
la maggioranza degli studenti negli anni Sessanta, ma non abbiamo fatto noi
il ’68. Anzi, Almirante e Caradonna sono andati all’università di Roma con le
mazze in mano e hanno pensato bene di farsi anche fotografare! Ma hanno fatto
bene gli studenti a prenderli a mazzate»[xviii].
Rauti non esiterà ad accusare i
militanti dei Nar - quelli stessi che sarebbero giunti a progettare la sua
esecuzione per punire la sua attività di “delatore”[xix]
- di “intelligenza con il nemico”: «Questi
assassini dei Nar sono soltanto agenti al servizio del regime. Gente
manovrata (...) gente sconosciuta ma che frequentava molto
sia la polizia sia i servizi segreti (...) Fra di loro c’è gente che veniva da me
proponendo articoli per la mia rivista e si presentava come nazista, tutti atteggiati.
Sembravano costruiti. Alla larga mi dicevo. E sapevamo che quella gente
frequentava servizi segreti e qualche corridoio di questura»[xx]. [A onor del vero va ricordato che molti giovani quadri del Fronte della gioventù romana riconoscono a Rauti il merito di averli trattenuti con le sue proposte culturali e le iniziative 'fantasiose' sul crinale del passaggio alla 'via più breve'].
Anche in seguito Rauti ammetterà la “collaborazione sottobanco” dell’estrema
destra con i servizi segreti e i suoi rapporti con le Forze armate: «L’ipotesi del golpe ha circolato nell’estrema
destra, a un certo punto. Come scorciatoia per il potere. Di fronte a un pericolo
comunista (...) Negli anni Sessanta io stesso sono stato
coinvolto in rapporti con i militari. Scrivendo, insieme con Edgardo Beltrametti,
l’opuscolo Le mani rosse sulle Forze Armate, commissionato dal generale Giuseppe Aloia. Io lo vedevo come un tentativo
di ideologizzare l’esercito»[xxi].
Ma secondo Oscar Le Winter, ex colonnello della Cia, Rauti sarebbe stato un
agente di grado 2 dell’agenzia americana, con uno stipendio mensile di 4000
dollari.
A prendere le distanze dai dubbi e
dalle compromissioni del fondatore di Ordine Nuovo è anche il fascista non
pentito Giorgio Pisanò, che pur condivide con Rauti, l’avventura della
rifondazione missina: «Posso escludere
che il Msi abbia condotto o coperto operazioni sporche per conto dei servizi.[…] Rauti ha avuto anni convulsi, ai margini e
fuori dal partito. Può darsi che si sia fatto convinzioni errate»[xxii].
Per il direttore del “Candido”, la
centrale del terrore era l’ufficio Affari riservati del Viminale, che «reclutava sciagurati di ogni risma e colore,
per alimentare la teoria degli opposti estremismi. Materiali da manicomio»[xxiii].
Delle caratteristiche “umane” del personale reclutato offre un significato
spaccato il questionario che l’aspirante militante doveva compilare: «Perché sei in ON? Desideri che ON imponga la
dittatura al Paese? Sei capace di sostenere in un’assemblea politica una tesi
assolutamente impopolare? Hai rispetto dell’opinione pubblica? Sei antisemita?
Sai dimostrare che gli uomini non sono uguali? Ti ritieni vincolato dalla
moralità comune?». «L’invito scritto
- racconta Vinciguerra - a mandare
uno o due elementi di ON ad un campo “paramilitare”, con tanto di lista
dettagliatissima di oggetti da portare, primo la tuta mimetica, non era una
nuova prova di imprudenza, come pensai allora, bensì di arroganza perché i
dirigenti di “Ordine nuovo” sapevano quello che facevano e lo facevano
d’accordo con le autorità militari, i carabinieri e la pubblica sicurezza. Il
“comandante” del campo era Paolo Signorelli, tuta mimetica, energia e faccia
feroce. Ancora Dio e i carabinieri erano con lui: il tempo in cui Dio lo
avrebbe mollato lasciandolo solo con i carabinieri era ancora lontano»[xxiv]. La stessa devozione ai carabinieri –
ma anche scambi di piaceri e forniture militari al suo gruppo - Vinciguerra
l’attribuisce a Giancarlo Rognoni, ex bancario, leader della milanese Fenice,
un piede in Ordine nuovo, uno nel Msi, (...). [Secondo Vinciguerra] Ordine Nuovo ha finito
per trasformarsi in una struttura di civili organica ai disegni di
stabilizzazione politica dell’Alleanza atlantica: «Buona parte di coloro che formavano i quadri e i nuclei militanti dell'organizzazione
erano in diretto contatto con funzionari di polizia ed ufficiali dei servizi
segreti; e, alcuni di essi, erano addirittura stabilmente inseriti nelle
“strutture parallele” tipo Gladio»[xxv].
Proprio alla vigilia della strage
di Piazza Fontana una “fonte Borghese” segnala agli Affari riservati – ma il rapporto
è ritrovato solo 28 anni dopo, nei faldoni occultati nel maxiarchivio del
Viminale e riportati alla luce da Aldo Giannulli, professore universitario e
consulente della commissione stragi – che un nucleo ristrettissimo di militanti
di Ordine nuovo si preparava a compiere azioni clamorose. Alla luce di queste
rivelazioni desta meraviglia la circostanza che sia stato proprio il Movimento
politico Ordine nuovo – nato dalla scissione che si consuma a ridosso della
strage - ad applicare per la prima volta in Italia il processo-guerriglia[xxvi],
passato alla storia come “invenzione” brigatista. (...) Così anche nel primo processo per ricostruzione del partito fascista
gli ordinovisti rifiutarono gli interrogatori, rimettendosi tutti alla
memoria difensiva del leader Clemente Graziani. Un manifesto politico che contiene
un preciso avvertimento: «Siamo in
attesa, signori del Tribunale, per sapere dal vostro verdetto se abbiamo
ragione o torto, se Ordine nuovo può continuare ad agire sul piano della
legalità oppure se deve ricorrere ai mezzi di lotta previsti nei periodi di
repressione e persecuzione democratiche»[xxvii].
Gli ordinovisti erano lacerati da un dilemma dottrinario: tra la fedeltà
all’Idea (l’evoliana idolatria dello Stato come entità metafisica) e la lotta
al regime. La scelta di contestare la legittimità del tribunale della Repubblica
troverà l’estrema conseguenza nella condanna a morte eseguita contro il pm Occorsio
che si era fatto carico per tre volte dell’onere dell'accusa contro Ordine
nuovo [Questo è lo spezzone che fa capo a Graziani e che decide di non rientrare, con Rauti, nel Movimento sociale, nel novembre 1969].
(...) Vinciguerra attribuisce la
strategia della tensione a «una struttura
parallela ai servizi di sicurezza e che dipendeva dall’Alleanza atlantica; i
vertici politici e militari ne erano perfettamente a conoscenza (...)
Il personale veniva selezionato e reclutato negli ambienti dove
l’anticomunismo era più viscerale, cioè negli ambienti di estrema destra (...) Tale struttura organizzativa obbedisce a
una logica secondo cui le direttive partono da Apparati inseriti nelle
Istituzioni e per l’esattezza in una struttura parallela e segreta del
Ministero degli Interni più che dei Carabinieri»[xxviii].
E se gli si può riconoscere, alla
luce della sua posizione giuridica (ergastolo definitivo) e penitenziaria (una
lunga documentata catena di vessazioni) il beneficio della buona fede [undici anni dopo Vinciguerra continua a non godere di benefici penitenziari ed è blindato da 34 anni], gli
va allora addebitata una dose di ingenuità incompatibile con le velleità di
un combattente rivoluzionario, che non esita a collaborare con la magistratura
pur di “smascherare” le attività controrivoluzionarie degli ex camerati in un
bizzarro proseguimento della lotta politica per via giudiziaria (a suon di
ergastoli). Un ritratto in chiaroscuro di Vinciguerra ce lo offre Gianni Barbacetto:
«Ha mani minute, viso tondo, un eloquio
che dimostra intelligenza e buona cultura, nutrita soprattutto dei maestri
europei del pensiero di destra, Guénon, Céline, Evola. Ci tiene a dare di sé
l’immagine di “soldato politico” spietato ma integro, incapace di compromessi,
tutto d’un pezzo. Non vuole essere confuso con la destra reazionaria»[xxix]. La sua intenzione dichiarata è di «chiarire il proprio ruolo di combattente
rivoluzionario antisistema in mezzo a gruppi di destra che, sostiene, erano
al contrario servi del partito atlantico, bracci armati e milizie civili a
disposizione dell’esercito e dei servizi segreti»[xxx].
Della purezza di queste intenzioni non è convinto il giudice Felice Casson e così
Vinciguerra si sceglie come interlocutore il milanese Guido Salvini – che pure lo
considera un “testimone reticente”[xxxi]
- riservando a quello che chiama il “giudice felice” centinaia di pagine al
vetriolo. Da parte sua Casson s’impegna sistematicamente a demolire la sua
immagine. Gli interrogativi che il giudice veneziano si pone sono pertinenti: «Perché si è consegnato ai giudici nel 1979,
quando aveva sulle spalle una condanna a dodici anni per il tentato
dirottamento di Ronchi dei Legionari? Se si è consegnato per fare chiarezza
sul ruolo della destra, usata dagli apparati dello Stato o, peggio,
doppiogiochista e venduta ai servizi segreti italiani e americani, perché ha
aspettato cinque anni prima di raccontare, nel 1984, la verità su Peteano? Perché
si è consegnato proprio alla vigilia della grande offensiva terroristica
1979-80, che culminerà con la strage di Bologna? Perché era ferito quando si è
lasciato arrestare?»[xxxii]. (...).
È verosimile che Vinciguerra si
sia consegnato perché effettivamente disgustato delle tante “schifezze” che
aveva visto in giro, tra «agenti doppi, “nazisti” a mezzo servizio stipendiati
dai carabinieri e giovani fascisti italiani trasformati, per conto dell’Aginter
Press-Cia, in cacciatori ammazza-baschi in Spagna o in volontari del terrore
in Africa o in torturatori di oppositori in Argentina e in Cile»[xxxiii]
mettendosi al tempo stesso al sicuro da chi evidentemente non si fidava più di
lui. L’ultimo attacco frontale
all’autorappresentazione di un Vinciguerra incontaminato dopo anni
d’attività tra “zozzoni” di vario genere Casson l’ha data indagando per
concorso nella strage di Peteano l’agente della Cia, Edward Mc Gettigam,
consigliere politico dell’ambasciata di Roma e responsabile di Stay Behind in
Italia. (...) Del resto, smentendo le rassicurazioni di Giulio Andreotti
sulla natura antifascista di Gladio, Casson ha potuto individuare tra i 622
nomi di gladiatori gettati in pasto alla stampa almeno quattro iscritti al
PNF, otto reduci di Salò, un marò della X MAS e nove iscritti al MSI. Così come il segretario del Msi, Giorgio Almirante sarà accusato di aver favorito – e amnistiato – la latitanza di Carlo Cicuttini, complice di Vinciguerra a Peteano
e segretario missino di un paesino della valle di Natisone[xxxiv].
(...) Le
conclusioni a cui è pervenuto il giudice Salvini è che sia veramente esistita
«una catena di comando che dagli
esecutori materiali (gli uomini di Avanguardia nazionale a Roma e di Ordine
nuovo a Milano) risaliva ai capi di quelle organizzazioni (Stefano Delle Chiaie per
Avanguardia, Rauti e Carlo Maria Maggi per Ordine), fino a un livello internazionale,
quello di Guerin Serac, in ottimi rapporti, per esempio, con un personaggio
come William Buckley, il capo della Cia per l’area del Mediterraneo ucciso nel
1985 in Libano»[xxxvii]. Di rapporti tra gli ordinovisti
patavini e gli avanguardisti romani aveva già parlato Giovanni Ventura, in un
interrogatorio nel ’72: a suo dire l’interfaccia nella capitale di Freda era Guido Paglia,
presidente della rifondata Avanguardia Nazionale, autore di una relazione sul golpe
Borghese e sul suo gruppo ritrovata nella redazione di Op, la rivista di Mino Pecorelli. (...)
Molte delle confessioni di
Vinciguerra sono de relato: la sua
militanza in AN comincia in Spagna, nella primavera del 1974. I magistrati di
mezza Italia (Milano, Reggio Calabria, Bologna) lo tengono comunque in gran conto.
Così è fondamentale il suo j’accuse contro
i vertici ordinovisti per la richiesta di rinvio a giudizio della procura di
Bologna per i depistaggi sulle stragi[xxxviii]:
«A dimostrazione dell’elevatezza
dell’attacco terrorista, della complicità di apparati dello Stato (dal Ministero dell’Interno ai vertici delle
Forze Armate e dei Servizi segreti, a esponenti politici di primo piano) si
richiamano le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra secondo il quale, sotto la
facciata di ON si nascondeva una struttura occulta all’interno della quale
operavano personaggi come Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Paolo Signorelli e,
in posizione di vertice, lo stesso Pino Rauti»[xxxix]. A Maggi, responsabile ordinovista
per il Triveneto, rientrato nel Msi con Rauti, di cui era grande amico,
arrestato nel giugno ‘97 come organizzatore delle due stragi di Milano (piazza
Fontana e Questura), Vinciguerra attribuisce anche responsabilità penali: il
medico veneziano, che aveva cominciato la sua carriera nel ’66, rubando
esplosivo in una cava nel Vicentino, gli avrebbe consegnato il plastico al T4
utilizzato per la strage di Peteano. La condanna a dieci anni sarà cancellata
in appello [così come si concludono con assoluzioni i processi per strage che vedono Maggi imputato come organizzatore della strage di piazza Fontana, della Questura di Milano, mentre per la strage di Brescia al termine di un complesso iter giudiziario arriverà la condanna definitiva all'ergastolo].
La struttura descritta da Vinciguerra - in un primo momento confusa
con Gladio e solo successivamente definita come Nuclei di difesa dello Stato[xl]
o più semplicemente come Legione - solo
in parte si identifica con Ordine nuovo ma può essere definita con maggiore
esattezza come una federazione di singoli gruppi e bande del partito (armato)
del golpe, che collega e organizza terroristi neri e bianchi, ufficiali delle
forze dell’ordine, delle forze armate e della Nato: « E’ proprio sul terreno di questo “anticomunismo atlantico” che il
mondo neofascista, alla ricerca di un posto all’ombra dei potenti, ha finito
per legarsi definitivamente al carro americano, nella sola posizione possibile:
quella di uno degli strumenti di azione del potere statunitense. Non si è
trattato di un’alleanza ma di una posizione di assoluta sudditanza politica ed
operativa, di cui almeno gli esponenti di vertice del neofascismo non potevano
non essere consapevoli»[xli].
Già nel 1977, nel corso dell’inchiesta
sulle bombe di Trento[xlii],
uno dei legionari, Enzo Ferro, ricostruisce le attività di addestramento al
sabotaggio e alla controguerriglia della banda armata di Stato. Descrive una
struttura di militari e civili concentrata a Verona intorno al colonnello Amos
Spiazzi, detenuto da tre anni per l’inchiesta sulla Rosa dei Venti. Conferma
le responsabilità degli apparati di Stato per gli attentati di Trento per i
quali da mesi si stavano scannando Carabinieri e Guardia di Finanza, accusandosi
a vicenda di esserne i mandanti. Senza conseguenze[xliii].
Racconta le esercitazioni con gli esplosivi, gli attentati dimostrativi, i
progetti di stragi per fermare l’avanzata comunista: «La finalità della struttura - ha ribadito diciott’anni dopo a
Salvini - era quella certamente di fare un colpo di
Stato all’interno di una situazione che prevedeva attentati dimostrativi
preferibilmente senza vittime (…) Alle
riunioni presenziavano diversi civili, anche di Verona, vari amici di Spiazzi
che avevano un’ideologia più fanatica, erano quelli di Ordine nuovo, ricordo
Elio Massagrande, Roberto Besutti, Claudio Bizzarri, Giampaolo Stimamiglio; si
usava sempre il nome in codice (…) Una volta venne uno con una valigetta di
cuoio mostrando delle saponette di tritolo già pronte con gli spinotti e gli
inneschi»[xliv]. [Verona, importante centro militare, è l'unica città veneta i cui militanti non rientrano nel Msi con Rauti ma aderiscono al Movimento politico Ordine nuovo]
Secondo
Salvini - che ne ha tratteggiato le caratteristiche in una sentenza-ordinanza
del marzo ’95[xlv]
- i Nuclei per la difesa dello Stato sono stati attivi dal 1966 al luglio 1974
(cioè dal convegno del Parco dei Principi alla “svolta antifascista” di Andreotti),
strutturati in trentasei Legioni, che avrebbero fatto capo allo Stato
maggiore dell'Esercito con il supporto logistico dei carabinieri. Quella di Verona,
la quinta, era composta da 60-70 uomini, il che fa ipotizzare un organico
nazionale di millecinquecento uomini. Secondo alcuni pentiti, ma anche per
Francesco Gironda, il gladiatore promotore di un’associazione di reduci decisi
a difendere la legittimità costituzionale di Stay behind, Andreotti avrebbe
bruciato Gladio per coprire i Nuclei e le loro pesanti compromissioni con il
terrorismo neofascista. Una tesi sostenuta con rabbia dal generale Paolo
Inzerilli, capo di Stay behind dal 1974 al 1986 e poi comandante del Sismi fino
al ‘91: dietro le stragi c’è stata un’organizzazione segreta legata ad apparati
istituzionali (...).
Nella
sentenza ordinanza del processo per la strage della stazione di Bologna i giudici,
dopo aver indicato i componenti della struttura occulta implicata nelle stragi
(il colonnello Michele Santoro[xlvi],
Antonio Labruna[xlvii],
Cristiano De Eccher[xlviii],
Massimiliano Fachini, Marcello Soffiati[xlix],
Amos Spiazzi, Roberto Raho[l],
Paolo Signorelli e Fabio De Felice) ricordano che «Vinciguerra ha fornito un elenco di nomi ben più ampio indicando negli
appartenenti al Centro studi Ordine nuovo la struttura portante della strategia
di infiltrazione, provocazione e strumentalizzazione di gruppi politici volta
a perseguire fini coincidenti con quelli di alcuni apparati dello Stato ai
quali erano legati»[li] e riportano gli altri componenti del
gruppo. Alcuni non hanno mai militato in Ordine Nuovo: i giornalisti Enzo Erra
e Fausto Pierfranceschi (così nel testo: presumibilmente Gianfranceschi), già
coimputati di Rauti nel processo del 1951 contro i FAR, il senatore missino
Cesare Pozzo, portavoce di Almirante, il fondatore di Lotta di Popolo Enzo
Maria Dantini, i leader di Giovane Europa Claudio Orsi e Claudio Mutti, i
milanesi della Fenice, Giancarlo Rognoni e Marco Cagnoni, il bolognese Luigi Falica,
a cui Graziani affida la gestione di Ordine nuovo prima di espatriare. Gli
altri sono i quadri ordinovisti del Triveneto: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi,
Francesco Neami, Cesare Turco[lii],
Claudio Bressan[liii],
Mario Portolan[liv],
Gianfranco Vianello[lv],
Aldo Trinco[lvi],
l’intero gruppo Freda-Fachini. Un rapporto del Ros per l’inchiesta Salvini dà
credito alle accuse di Vinciguerra: Franco Freda avrebbe scritto rapporti
informativi per il Sid con il nome di copertura di “agente T” mentre ad
ammettere la collaborazione di Fachini con il servizio segreto sarebbe stato lo
stesso generale Gianadelio Maletti[lvii].
[i] Il 21 novembre 1996 la Cassazione ha reso
definitiva l’assoluzione per Licio Gelli e i vertici della P2: la loggia
segreta non cospirò contro lo Stato. Per procacciamento di notizie riservate
(un dossier su un traffico di petrolio con la Libia teso a finanziare una
scissione di destra della DC nel 1975) Gelli è condannato a 8 anni di carcere,
l’ex numero 2 del Sid Maletti, da anni rifugiato in Sudafrica, a 14 anni.
[ii]
Giorgio Galli La crisi italiana e la
Destra internazionale , Mondadori, Milano, 1974.
[iii]
Furio Jesi Cultura di destra , Garzanti,
Milano, 1979.
[iv]
Chiara Valentini «La volta che mi stavano fucilando», L’Espresso, 10 febbraio 1995.
[v]
Adalberto Baldoni-Sandro Provvisionato La
notte più lunga della repubblica. Sinistra e destra, ideologie, estremismi,
lotta armata Serarcangeli, Roma 1989, p. 32
[vi]
idem, p. 54.
[vii]
M. Ca Rauti:regia Cia? Poteva esserci una
centrale unica, Il Corriere della
Sera, 13 novembre 1995.
[viii]
Militante di Lotta Continua ucciso a coltellate a Parma il 20 luglio 1972 da
una squadra neofascista.
[ix]
Daniele Protti Non fidatevi di loro.
Parola di fascista , L'Europeo,
20-25 maggio 1994.
[x]
Giulio Salierno Autobiografia di un
picchiatore fascista, Einaudi, Torino, 1976.
[xi]
Marco Tarchi Cinquant’anni di nostalgia.
La destra italiana dopo il fascismo , Rizzoli, Milano 1995.
[xiii]
Clemente Graziani Processo a Ordine
Nuovo, processo alle idee, Edizioni di ON, Roma 1973.
[xiv]
Evola, falliti i tentativi tattici di collegarsi alle “forze sane della
nazione”, approda a una visione più tragica e negativa di isolamento e di
distacco dell'uomo dalla società borghese, la cui crisi è ritenuta definitiva. L’impegno politico si concretizza in una
milizia eroica, passaggio obbligato per costruire uno stato popolare (nella
teorizzazione che ne fa Freda) o nell’esaltazione del gesto come affermazione
dei valori di superiorità e disuguaglianza.
[xv]
Francesco Ingravalle Pour une analyse du
Mouvement Révolutionnaire en Italie, Totalité,
nov.-dic. 1979, 10.
[xvi]Vincenzo
Vinciguerra Ergastolo per la libertà,
Arnaud, Firenze 1988, p.199
[xvii]
Adalberto Baldoni-Sandro Provvisionato La
notte cit., p. 35
[xviii]
ibidem
[xix]
vedi il capitolo 15.
[xx]
cfr. l’intervista di Paolo Guzzanti a Pino Rauti (La Repubblica, 5 agosto 1980).
[xxi]
Michele Brambilla Interrogatorio alle
destre , Rizzoli, Milano 1994, pp.31-32.
[xxii]
Idem
[xxiii]
ibidem
[xxiv]
Vincenzo Vinciguerra Ergastolo cit.,
p. 7.
[xxv]
Vincenzo Vinciguerra La strategia del
depistaggio, Il Fenicottero, 1993.
[xxvi]
Secondo Franco Ferraresi le iniziative assunte da alcuni settori della
magistratura e dei Servizi nei confronti di appartenenti al movimento fu
vissuta dai suoi militanti come un vero e proprio tradimento da parte dello
Stato e in questo quadro va letto la svolta strategica verso forme di lotta
armata.
[xxvii]
Sandro Forte I processi alle idee ,
2a ed., Edizioni Europa, Roma 1995, p. 64.
[xxviii]
Sentenza della corte d’Assise di Venezia, Presidente Renato Gavardini, 25
luglio 1987, p. 399.
[xxix]
Gianni Barbacetto Il Grande cit., pp.
196-197
[xxx]
idem, p. 101
[xxxi]
«Purtroppo – spiega Salvini - Vinciguerra
ha limitato la sua ricostruzione a fini di verità sulla strategia della
tensione ad alcune e nemmeno tutte le notizie di cui disponeva sulla strage di
piazza Fontana e ha fornito pochissimi dati sulle altre stragi affermando che
le condizioni per far emergere le verità sulle stragi non sono ancora
maturate».
[xxxii]
idem, p. 202
[xxxiii]
idem, p. 203.
[xxxiv] Con l'accusa di aver pagato le spese
dell’operazione alle corde vocali di Cicuttini, per impedirne l’identificazione
come autore della telefonata trappola ai carabinieri, il segretario del Msi fu
processato per favoreggiamento.
[xxxvii]
Gianni Barbacetto Il Grande cit., p.
110.
[xxxviii]
La Commissione stragi così riassume le principali conclusioni della
sentenza-ordinanza del giudice Grassi:
- le
imputazioni di concorso in strage per attentare alla sicurezza dello Stato,
omicidio plurimo, lesioni, detenzione di esplosivi, disastro ferroviario, in
relazione all'attentato al treno Italicus, nei confronti di Stefano Delle
Chiaie e Adriano Tilgher, con proscioglimento per non aver commesso il fatto;
-
l'imputazione di concorso in associazione sovversiva, in riferimento alla
costituzione e organizzazione del "Fronte Nazionale Rivoluzionario"
in Toscana, fino al 3 agosto 1974, nei confronti degli stessi Delle Chiaie e
Tilgher, con proscioglimento per non aver commesso il fatto;
- le
imputazioni di associazione sovversiva e banda armata operanti in Milano,
Ascoli e altre zone dell'Italia centrale sino all'agosto del 1974, nei
confronti di Piergiorgio Marini e Giuseppe Ortensi, dichiarandone l'improcedibilità
per l'esistenza di precedente giudicato sui medesimi fatti;
-
l'imputazione di favoreggiamento aggravato, a vantaggio di Luciano Franchi e
Pietro Malentacchi e nell'ambito delle indagini sulla strage dell'Italicus e
commesso quindi nell'agosto-settembre 1974, nei confronti del comandante del
Gruppo dei carabinieri di Arezzo, colonnello Domenico Tuminello, dichiarando
l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione;
-
l'imputazione di calunnia continuata, aggravata dalla finalità di eversione, in
relazione alle false accuse in danno di Valerio Viccei e Angelo Izzo, per aver
reso dichiarazioni calunnatorie, per aver predisposto un'evasione dal carcere
di Paliano unitamente a Raffaella Furiozzi e a Sergio Calore e per aver
detenuto stupefacenti unitamente alla sola Furiozzi, nei confronti di
Bongiovanni Ivano, dichiarando l'estinzione del reato per intervenuta
prescrizione;
-
l'imputazione di calunnia aggravata dalla finalità di eversione, in relazione
alle false accuse di omicidi tra i quali quelli di Silvani Fedi e Manrico
Bucceschi, nonché di più stragi, in danno di Licio Gelli, nei confronti di
Federigo Mannucci Benincasa e Umberto Nobili, ordinandone il rinvio a giudizio
innanzi alla Corte di Assise di Bologna;
- le
impostazioni di favoreggiamento e abuso continuati e aggravati dalle finalità
di eversione, minacce a pubblico ufficiale, tentata sottrazione di documenti
sottoposti a sequestro, in relazione alle attività illecite dispiegate nella
qualità di direttore del centro Sismi di Firenze per ostacolare le indagini
sulle attività eversive di Augusto Cauchi, nonché per ostacolare gli sviluppi
istruttori sulla propria posizione, nei confronti di Federigo Mannucci
Benincasa, ordinandone il rinvio a giudizio innanzi alla Corte di Assise di
Bologna. Pertanto la sentenza-ordinanza, sempre con riferimento agli ambiti
temporali considerati, trasmette agli atti:
- alla
procura di Bologna per l'ulteriore corso delle indagini contro gli ignoti
autori della strage dell'Italicus;
- alla
procura di Roma in ordine alle ipotesi di cospirazione politica e attentato
contro la Costituzione dello Stato delineabili nell'intero arco temporale
compreso tra il 1969 e il 1982 a carico di Gian Adelio Maletti, Antonio
Labruna, Giancarlo D'Ovidio, Federigo Mannucci Benincasa, Umberto Nobili,
Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte, Licio Gelli.
[xxxix]
Gian Pietro Testa Gladio, i servizi, i
fascisti. Leggete questo documento choc, Avvenimenti, 3 agosto 1994.
[xl]
La sigla fu usata per la prima volta nel ’66 da Freda e Ventura per diffondere
tra gli ufficiali delle Forze Armate materiale di propaganda golpista:
un’iniziativa ispirata secondo il centro di controspionaggio di Padova da Rauti
e Giulio Maceratini, allora numero due di ON, oggi capogruppo di Alleanza nazionale
al Senato)
[xli]
Vincenzo Vinciguerra, Ergastolo per la
libertà, Arnaud, Firenze, 1989 cit. in Manuel Negri L’agente “T” Franco Freda, in Avanguardia,
anno XVI, n.1, gennaio 1988.
[xlii]
Trento è uno degli avamposti per l’uso da parte di apparati dello Stato di
attentati terroristici, opera di agenti provocatori per reprimere la sinistra e
il movimento operaio e studentesco. Il 10 aprile 1969 Marco Pisetta, che sarà
il primo infiltrato nelle Brigate Rosse, colloca una bomba alla Regione, la
notte dopo fa il bis all'Inps di Trento. Scorda nella borsa una foto della
sorella ma l'ordigno non scoppia. Lui scompare dalla circolazione e si scatena
la repressione a sinistra. Nell'estate 1970 riparte in grande stile una campagna
terroristica. Quello al Palazzo di Giustizia del 18 gennaio 1971 è attribuito a
due collaboratori del Sid, Sergio Zani e Sergio Widmann ed è teso a provocare
una strage tra i “compagni” mobilitati per un processo attribuendone loro la
responsabilità. Ma il processo slitta e il progetto salta. Gli attentati
proseguono: l’8 febbraio un ordigno micidiale esplode al palazzo della Regione.
Gli ultimi attentati provocatori hanno luogo il 12 febbraio, contro due
monumenti ai caduti, considerati un tipico obiettivo di “sinistra”. Nonostante
il preavviso di un giorno uno degli ordigni non è rimosso a tempo ed esplode.
La copertura del segreto di Stato, data da Andreotti e Mariano Rumor nel novembre 1972,
non serve: una faida fra opposti segmenti dei servizi di sicurezza porterà alla
luce coperture e depistaggi dell’inchiesta e quindi all’ arresto nel 1977 del
vicequestore Saverio Molino, capo dell’ufficio politico a Padova e poi a Trento e i
colonnelli dei carabinieri Angelo Pignatelli e Santoro, tre protagonisti della
“strategia della tensione” (dalla strage di Peteano all’omicidio dell’agente
Marino alla copertura offerta alla Rosa di Venti). La vicenda giudiziaria è
abbastanza complessa. Un rapporto dei carabinieri accusa i corpi speciali della
Guardia di Finanza di aver organizzato l’attentato al tribunale utilizzando
come manovali due contrabbandieri sudtirolesi confidenti, Hofer e Gatscher.
Riunioni di vertice a Roma affossano la denuncia che è ripresa da Lotta continua. L’assoluzione del
direttore del quotidiano nel processo per diffamazione rilancia l'inchiesta.
Nel novembre sono arrestati Zani e Hofer mentre Gatscher scappa. A dicembre è
la volta del colonnello delle Fiamme Gialle Siragusa e del maresciallo Sajia.
Ma a gennaio ’77 i due sono scarcerati e scattano le manette per Molino,
Pignatelli e Santoro, accusati di falso e favoreggiamento per il depistaggio. I
tre ottengono la libertà provvisoria a febbraio. Il rinvio a giudizio conferma
la svolta processuale ma il dibattimento assolve gli imputati maggiori con formula
piena e gli autori materiali (Zani e Widmann che avrebbero fornito l'ordigno ai
contrabbandieri) con insufficienza di prove, e riapre la pista della Guardia
di Finanza.
[xliii]
Michele Gambino «Sapevano tutto».
Quindici anni fa un testimone , Avvenimenti,
26 aprile 1995.
[xliv]
Giorgio Cecchetti I pentiti parlano e
affiora la Gladio dei “legionari”, La
Repubblica, 4 aprile 1995.
[xlv]
In un troncone dell’inchiesta principale Salvini, oltre a registrare numerose
prescrizioni, ha rinviato a giudizio Rognoni, Azzi, Signorelli e Calore per un
traffico di bombe a mano, Carlo Digilio ed Ettore Malcagni per favoreggiamento e
inviato gli atti a Roma per procedere per cospirazione politica contro Licio
Gelli.
[xlvi]
In servizio negli anni Sessanta in Alto Adige, Michele Santoro è nel 1970-71 a
Trento (e sarà perciò arrestato nell’inchiesta sulla mancata strage al
Tribunale). Dopo essere stato sospettato di aver indirizzato le indagini sulla
strage di Peteano verso un’inesistente
pista rossa è trasferito a Milano dove si distingue per aver attirato in
trappola il responsabile dell’omicidio dell’agente Marino.
[xlvii]Il
capitano Antonio Labruna, napoletano, ufficiale del Sid, quando Maletti diviene
capo del reparto D entra nel nucleo operativo diretto da Sandro Romagnosi. È
specializzato in “operazioni sporche”: gestisce i rapporti con gli estremisti neri
che lo considerano un “amico”. Nel 1972 tramite Guido Paglia incontra in Spagna
Delle Chiaie chiedendogli aiuto per le evasioni di Freda e Ventura e per
l’ospitalità a latitanti neri. Nel novembre 1972 va a Padova da Fachini, che
considera superiore gerarchico di Vinciguerra, e lo avverte: «Ora basta fesserie ». Si riferiva alla
strage di Peteano (tre carabinieri morti) e al dirottamento di Ronchi (il
responsabile ucciso). Nell’inverno 1973 organizza l'espatrio di Pozzan e
Giannettini , non ancora ricercati per la strage di Piazza Fontana. Registra
le confidenze dei latitanti e le usa, su mandato di Andreotti, per smantellare
l’ala radicale del partito del golpe. La fonte principale è Remo Orlandini,
braccio destro di Borghese nel putsch del 1970, riparato in Svizzera:
all’inizio del processo per il golpe l’avvocato del latitante accuserà il
capitano del Sid di avergli fornito un passaporto. Sulla protezione accordata a
un suo confidente del Fronte Nazionale, Nicoli, si scontra col pm Violante. Ne
organizza l’espatrio in Svizzera ma quando il magistrato si precipita infuriato
a Roma e chiede conto della fuga, La Bruna informa il pm Vitalone che Nicoli è
un infiltrato, ricercato per un’attività in favore dello Stato. Nel 1976 si fa
un mese di carcere per la fuga di Pozzan e Giannettini: è scarcerato per le
“ineccepibili qualità morali” ma al processo sarà condannato a due anni. È
coinvolto nel regolamento di conti che si scatena tra le opposte fazioni dei
servizi. Rompe con Maletti e arriva allo scontro totale a colpi di dossier e di
denunce. È accusato dal colonnello Viezzer (un affiliato della P2 già
segretario di Maletti al Sid) e da Delle Chiaie di aver allestito con il
capitano D’Ovidio l’arsenale di Camerino per creare una falsa pista rossa. Un ruolo
fondamentale nell’operazione lo avrebbe avuto Paglia, che aveva “sparato” il
ritrovamento sui giornali del gruppo Monti (l’inchiesta sarà archiviata nel
gennaio 1989). È incriminato nell'aprile 1981 per la scomparsa del dossier Sid
sullo scandalo dei petroli, il cosiddetto Mi-fo-biali, sul finanziamento libico
al fondatore del NPP, Foligni tramite il capo del Sid, Miceli. Lui tenta di
scaricare la colpa su Maletti ma sarebbe stato lui a cedere il dossier a Pecorelli
che lo usa per attaccare l’ex numero due del Sid. In commissione P2 Spiazzi lo
accusa di aver orchestrato l'operazione Rosa dei venti per liquidarlo
politicamente, perché ambienti romani avevano deciso di scaricarlo dalla
struttura di sicurezza, non ritenendolo più affidabile. Rincuorati dalla sua
emarginazione e impotenza, molti trovano il coraggio di attaccare Labruna. Il
numero due del Mar, Gaetano Orlando lo accusa di aver ucciso il generale
Ciglieri, morto in un improbabile incidente stradale il 27 aprile 1969. Di
Biaggio, vittima del primo depistaggio sulla strage di Peteano, riferisce al
giudice Casson che Labruna era stato con il generale Mingarelli protagonista
delle pressioni per indurlo a confessare il falso. E' indagato per aver
organizzato con Miceli e Maletti una serie di attentati antimissini nel
1971-72 e per cospirazione politica per la P2. L’esplosione del caso Gladio
gli offre l’occasione di tornare alla ribalta da protagonista: “Tonino” rivendica
un anno di lavoro a manomettere le bobine Sifar prima di restituirle alla
commissione di inchiesta. A gestire l'operazione sarebbe stato il
sottosegretario alla Difesa, Cossiga. Gli omissis riguardano tre parti:
Gladio, la struttura dei Carabinieri in caso di guerra e fatti personali e
privati. Tolti nel 1991 gli omissis sul Piano Solo, non ricompaiono i materiali
sui primi due argomenti. Labruna sostiene di averli tagliati lui dalle bobine,
8 mila metri in tutto, dal settembre 1969 al 30 aprile 1970, lavorando su indicazione
di Alessi, presidente della commissione parlamentare, e di Henke, il capo del
Sid, che prima di indicare i testi dei tagli, ne avrebbero conferito con
Cossiga. Segnala ai periti i punti dove più evidenti sono le manomissioni:
qualche clic scappato, salti logici, rumori di fondo da ripassare con speciali
apparecchiature per mostrare linee di discontinuità. Le sue rivelazioni sono
usate per attaccare il presidente della Repubblica Cossiga. Rincuorato dal
successo, decide di collaborare con i magistrati che indagano sulle stragi
(Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus) mettendo a disposizione il suo
formidabile archivio e rinfrescando vecchie piste con la sua viva memoria. Le
sue disavventure giudiziarie non sono però concluse. Nell'inchiesta bis per i
depistaggi sulla strage di Bologna i suoi atti sono rinviati, nell’agosto
1994, a Roma, sede competente per l’attentato alla Costituzione. Per i tagli
effettuati sulle sue registrazioni sul golpe Borghese e dintorni, è invece
incriminato il suo diretto superiore, il generale Romagnosi.
[xlviii]
Cristano De Eccher è il responsabile triveneto di Avanguardia Nazionale.
Iscritto all’Università di Padova frequenta la libreria di Freda e ne diventa
amico. Lo invita a tenere conferenze a Trento, lo ospita nel castello di
famiglia di Collavino e partecipa al primo comitato pro-Freda. In seguito si
sparge la voce, sdegnosamente smentita dallo stesso Freda che era lui il
depositario dei timer per cui Freda è accusato della strage di Piazza Fontana.
La voce compare nel memoriale Pomar, un ingegnere nucleare, riparato in Spagna
dopo il mandato di cattura per il golpe Borghese, ed è rilanciata senza
successo dai pentiti Izzo e Calore nel processo di Bari per la strage di
Milano. Le nuove inchieste su piazza Fontana e gli attentati ai treni in Calabria
di AN ripropongono l’ipotesi che De Eccher e li avrebbe maliziosamente fatti
scomparire proprio per incastrare Freda su mandato di Delle Chiaie. Nel
memoriale Pomar (del 1977) De Eccher è indicato come componente di una rete di
potere occulta composta da Delle Chiaie, Merlino, Signorelli, Freda e Ventura,
la cellula veneta, e gli ufficiali dei carabinieri Santoro, Pignatelli e
Molino. È arrestato per il fallito attentato a Gardolo del giugno 1973 contro
l’ auto di uno studente di Lotta continua e scarcerato dopo un mese. Quando
durante una perquisizione gli agenti di polizia trovano quaranta pile
utilizzabili per confezionare ordigni a tempo, la madre li rassicura beffarda:
servono a fare giocare i figli del colonnello Santoro, amico di famiglia.
Arrestato come organizzatore di AN nel novembre 1975 De Eccher è condannato a
due anni.
[xlix]
Il veronese Marcello Soffiati, morto nel 1988, è al tempo stesso militante di
Ordine nuovo, collaboratore della Cia e massone. Denunciato nel 1966 con il
mantovano Roberto Besutti, il veronese Elio Massagrande e il veneziano Marco
Morin (un gladiatore poi apprezzatissimo perito balistico) per raccolta e
detenzione abusiva di armi da guerra riporta una condanna irrisoria (90 giorni)
perché passa la loro versione difensiva: erano collezionisti. (anche di candelotti
di dinamite). Nel 1972 accompagna in Spagna un camerata di Trieste, Gabriele
Forziati, coinvolto nell’inchiesta per la mancata strage alla scuola slovena.
Detenuto per la Rosa dei Venti, nel novembre 1975 Soffiati scrive al colonnello
Spiazzi, suo referente come informatore (fonte Eolo), minacciando che se i
giudici non si fossero decisi a scarcerarlo avrebbe sfilato il Rosario, accusando
il figlio di un giudice veronese di aver partecipato a una sparatoria ed altri
reati politici ma conferma il suo impegno d’onore agli organismi segreti
rappresentati da Spiazzi e per i quali Soffiati aveva lavorato “in funzione
antisovversiva”, frequentando tra l’altro “ambienti contrari” per raccogliere
informazioni. Nel corso di una perquisizione gli è sequestrata una mappa della
caserma americana di Camp Darby. Il pentito Digilio lo accusa di essere
inserito nella rete informativa americana nel Nord Est e di aver portato a
Brescia l’esplosivo per la strage.
[l]
Roberto Raho, nato a Treviso nel 1952, è considerato l’alter ego di Fachini sul
piano politico e militare. Organizza l’evasione di Freda dal soggiorno
obbligato di Catanzaro. Responsabile della struttura paramilitare veneta di
CLA partecipa anche all’attività pubblica: Aleandri lo accusa di avergli
fornito una borsa con dieci chili di esplosivo speciale e poi di aver procurato
l’esplosivo per l’attentato alla villa dell’onorevole Anselmi. Ospita per
nove mesi, dal marzo al dicembre 1978 a Treviso Gilberto Cavallini e lo accompagna
spesso a Roma . Sarebbe stato al corrente del progetto di attentato contro il
giudice Stiz, che aveva per primo portato alla luce le attività terroristiche
della cellula nera veneta e avrebbe anche partecipato ai pedinamenti. È
arrestato subito dopo la sparatoria di Padova nella quale viene ferito e
catturato Valerio Fioravanti. Imputato al processo ON bis e a quello per la
strage di Bologna per costituzione di banda armata e associazione sovversiva,
è latitante. A Bologna, dove il pm aveva chiesto una condanna a dieci anni, se
la cava con un’insufficienza di prove. Nell’estate 1997 è arrestato per favoreggiamento
di Delfo Zorzi nell’inchiesta per la strage di Piazza Fontana.
[li]
La strage Editori riuniti, p. 205
[lii]
Amico intimo di Vinciguerra, lavoravano nella stessa agenzia investigativa,
viene descritto dall’autore della strage di Peteano – in “Ergastolo per la
libertà” - come un esemplare tipico del doppiogiochismo neofascista: «Fu Cesare Turco a prestarmi 100mila lire per
recarmi in Sppagna e fu l'ultima volta che ebbi modo di parlarci, dopo non ci
saremmo più incontrati. Anche con lui ci conoscevamo da almeno dieci anni, nel
corso dei quali avevamo condiviso la quotidiana attività politica in Friuli.
Dopo era andato all' università di Roma e aveva cominciato a frequentare i PS,
gli Zorzi, i Fachini, aveva imparato a ingannare, a fingere e a diffamare. Era
andato in Spagna e aveva conosciuto Stefano Delle Chiaie, al quale aveva
chiesto di iscriversi ad AN, ma era tornato dicendone peste e corna. Ci
salutammo alla stazione Termini e mi disse che da quel giorno avrebbe accettato
solo i consigli di Fachini e di Zorzi, uno lavorava per il SID, l' altro per il
ministero degli Interni». Anche Cicuttini si era appoggiato a lui nel
tragitto di fuga verso la Spagna (e sarà perciò condannato per favoreggiamento
nel processo per la strage di Peteano). A suo modo fedele all’amico, nei primi
mesi del ‘73 aveva informato Vinciguerra che la Finanza aveva inviato una nota
al Sid e agli Affari riservati in cui gli era attribuita la responsabilità di
Peteano e di Ronchi. In altra occasione, nei primi mesu del ‘74 gli indica
Zorzi come persona legata ad un altissimo funzionario del Viminale. La sera
prima del blitz di via Sartorio si incontra con Fachini.
[liii]
Ordinovista triestino, aiuta Gabriele Forziati, ricercato dal giudice Stiz, a
scappare in Spagna. E’ a sua volta indagato e prosciolto per la bomba alla
scuola slovena. Nel settembre 1982 è arrestato con Maggi per l’inchiesta su
ordine nuovo veneto e un traffico di armi
[liv]
Manlio Portolan è il responsabile di ON a Trieste ma risulterà poi anche
candidato a Gladio. Nel marzo 1970 è invitato alla prima riunione di bilancio
dei rautiani sul rientro nel Msi. Avrebbe partecipato all'organizzazione di
attentati ai treni contro la visita di Tito in Italia nel marzo 1971:
Vinciguerra riferisce che, alcuni giorni dopo la campagna, nella sede mestrina
di On, gli avrebbe illustrato le modalità di preparazione e di posizionamento
degli ordigni per procurare il taglio delle traversine e la rottura dei binari.
Da una sua confidenza a Gabriele Forziati, un altro ordinovista coinvolto nelle
trame nere, nasce la voce sulla responsabilità di Zorzi e Siciliano per la
bomba alla scuola slovena di Trieste, dove lavorava l' ex moglie di Forziati, un
attentato minore che ora è ritenuto preparatorio della strage di Milano.
[lv]
Ordinovista mestrino, è tra i quadri rautiani convocato al primo attivo
nazionale dopo la confluenza nel Msi. Con i giudici ammette di aver mantenuto
contatti con gli ambienti ordinovisti veneziani ma anche con alte gerarchie
militari.
[lvi]
Aldo Trinco era ancora minorenne all’epoca di piazza Fontana. Componente del gruppo di AR, è impiegato nella
libreria Ezzelino. Arrestato il 13 aprile 1971 per associazione sovversiva con
Freda e Ventura e colpito a maggio da un nuovo mandato di cattura ma a luglio
escono tutti e tre in libertà
provvisoria. Nell'aprile ‘73 è arrestato
per il lancio di molotov alla sinagoga di Padova. L’assalto segue di pochi
giorni l'assemblea nella sede del Fronte monarchico giovanile di Padova con
esponenti di An, On, Olp per lanciare iniziative in difesa di Freda.
Vinciguerra lo accusa di aver funzionato da agente di collegamento con Fachini
per la fuga in Spagna di Carlo Ciccutini e di avergli perciò confidato le
proprie responsabilità per Peteano pochi mesi dopo il fatto (e lui ne avrebbe
informato il Sid). Trinco a sua volta
gli avrebbe rivelato il ruolo del gruppo padovano per la strage di
Milano. In un interrogatorio dell’85 Trinco ammette i rapporti con Vinciguerra
ma smentisce le confidenze compromettenti: lo aveva anzi richiamato alla
priorità di un'azione metapolitica, riferendosi espressamente al pensiero di
Evola e di Guenon.
[lvii]
Gianadelio Maletti, già numero 2 del Sid, protagonista di innumerevoli misteri
di Italia, è passato alla storia come capo del famigerato ufficio D – difesa
interna del Sid – in pratica il numero due del servizio segreto, protagonista
di un durissimo scontro di potere con il suo diretto superiore, il generale
Vito Micelli. Figlio di un eroe della guerra d’Africa, Maletti è addetto
militare in Grecia all’epoca del golpe. Entra al Sid dopo la strage di piazza
Fontana ma si impegnerà ad assicurare assistenza a molti degli indagati, da
Pozzan a Giannettini. Lo stretto rapporto con il capitano Labruna (vedi nota n.
39) gli sarà fatale: dall’arretso nel ‘76 per il favoreggiamento per la strage
di Milano alla condanna, nel marzo 1996,
a 14 anni di carcere per il dossier “Mi.fo.biali”. E’ rifugiato da
quindici anni in Sudafrica, dove ha assunto la cittadinanza.
Nessun commento: