La pista rossa su Brescia, Cutonilli ribadisce i suoi dubbi e il diritto al dubbio
La discussione sulla pista rossa che lega Brescia e Bologna passando per Quarto Oggiaro (il quartiere di Arnaldo Lintrami e Francesco Marra) si è sviluppata appassionatamente nella mia pagina facebook dopo la pubblicazione su Fascinazione delle obiezioni di Giacomo Pacini alllo "scoop" del Giornale. Tra i sostenitori della legittimità dei dubbi sulla condotta del brigatista Lintrami si è distinto, con il consueto garbo e onestà intellettuale, Valerio Cutonilli, che ha finito con il riconoscere che alcuni degli elementi proposti sono palesemente infondati ma ha riproposto alcune domande. Io gli ho chiesto di mettere a fuoco le sue obiezioni per renderle note in forma sistematica anche ai lettori dell blog. Tra l'altro nel corso del dibattito sono emerse due "chicche":
l'identikit fornito al giudice Caselli e attribuito a Renato Curcio è lo stesso diffuso a caldo dopo la strage di Brescia per identificare Giancarlo Esposti eppure (vedi foto) i due si somigliano decisamente poco);
il brigadiere che nel febbraio 1975 sostenne di aver riconosciuto in una foto segnaletica di Curcio pubblicata sul Giorno l’immagine di un uomo che aveva visto in Piazza della Loggia è lo stesso che aveva fornito le caratteristiche del “famoso” identikit di Esposti.
Ecco comunque il contributo di Valerio Cutonilli
Caro Ugo,
rispondo volentieri
al tuo invito fornendo il mio modestissimo contributo al dibattito in corso.
Ritengo opportuna però una premessa di stile non proprio trascurabile.
E’ legittima e
finanche doverosa la confutazione anche impietosa delle opinioni altrui, ogni
qual volta esse si ritengano non
condivisibili. Ciò a condizione però che il pensiero degli altri venga
rappresentato fedelmente, senza travisamenti utili alla propria causa. Questo principio
vale per tutti e ancora di più per il sottoscritto.
Ovviamente, la
rappresentazione del ragionamento altrui può restare conforme anche quando
viene condita da impressioni soggettive. Ad esempio, nell’offrire alcune
considerazioni personali sulla questione Di Vittorio ho tenuto a evidenziare la
mia ottima considerazione per gli organizzatori del sito Insorgenze,
riconoscendo loro l’apprezzabile abitudine di sostenere con argomenti intelligenti
le proprie tesi. Questo mio atteggiamento,
a dire il vero, è stato poi qualificato come uno stile dimesso. Dalle
mie parti si chiama rispetto. Ma ci può stare.
Le distorsioni infatti
sono altra cosa. E qui torniamo al caso Di Vittorio. Ho commentato la querelle tra l’onorevole Raisi e gli
animatori del predetto sito Insorgenze sostenendo con estrema chiarezza di non disporre
di elementi sufficienti per prendere posizione. Mi sono quindi premurato di
elencare analiticamente una serie di punti irrisolti sulla vicenda Di Vittorio
il cui chiarimento potrebbe consentire a quelli come me, che oggi sanno e ammettono
di non sapere, di condividere le perplessità dell’uno oppure lo stroncamento
degli altri. Questo è quello che pensavo prima e credo tuttora, piaccia o meno.
Classificarmi come l’accusatore implicito di un defunto, perché ritengo
legittimo porre delle domande, non sarebbe esatto.
Trattamento ben peggiore
è stato riservato a Gabriele Paradisi e alla cosiddetta banda dei quattro.
Costoro da tempo hanno formulato un’ipotesi ricostruttiva sulla strage di
Bologna molto chiara e non suscettibile
di equivoci. Si trattò, a loro avviso, di un attentato deliberato e
perfettamente riuscito che provocò 85 vittime. Per loro, non residua alcun
aspetto oscuro nella dinamica dell’esplosione. Ovviamente ciascuno di noi è
libero di contestare questa opinione se lo ritiene. Ma non è corretto
trascinare i quattro ricercatori suddetti nella querelle Di Vittorio, da cui sono visibilmente infastiditi, e ciò perché
secondo la loro ben delineata tesi ciascuna delle 85 vittime dell’attentato
transitò per puro caso all’interno della stazione di Bologna. A meno che,
perdonatemi l’orribile metafora, non si voglia mettere insieme l’uno e l’altro
filo per mandare in corto circuito un intero sistema elettrico.
Motivato l’auspicio
di vedere rappresentate con esattezza le mie pur dilettantesche opinioni, arrivo
al dunque.
Il dibattito in
corso con l’amico Giacomo Pacini è sorto all’indomani della pubblicazione - nell’edizione
dell’11 novembre de Il Giornale - di
un lungo articolo a firma di Gian Marco Chiocci. Quest’ultimo, già a settembre,
aveva rivelato la presenza di Francesco (Franco) Marra a Bologna, la mattina
dell’attentato alla stazione ferroviaria. Per me si trattò di un autentico scoop perché avevo “bucato” l’unica
menzione precedente sulla circostanza in questione, pur riferita dall’ottimo
Roberto Bartali all’interno di una nota a margine di un suo scritto.
Sino a quel momento
del fu brigatista rosso Arialdo Lintrami conoscevo ben poco. Sapevo che egli era
entrato nelle primissime BR provenendo dal gruppo di Franco Troiano.
Quest’ultimo, come noto, aderì invece a quell’entità che taluni hanno poi
denominato Superclan. Ricordavo altresì la vicenda, effettivamente grottesca (su
questo, così come sulla fotografia di
Renato Curcio, concordo da sempre e pienamente con Pacini), della menzione
nell’agendina di Ermanno Buzzi di un numero telefonico, riconducibile
all’appartamento di via Inganni a Milano di proprietà della famiglia Lintrami.
Un numero presente nell’elenco pubblico delle utenze telefoniche e quindi agevolmente
reperibile da chiunque.
All’agendina gravida
di numeri di Buzzi non ho mai attribuito la benché minima rilevanza
investigativa, anche se da quando è
cominciato il dibattito su Lintrami viene puntualmente inserita in ogni replica
alle mie considerazioni.
Le ragioni per cui
sono andato ad approfondire la figura di Lintrami sono molto semplici e
prescindono dall’agendina progressiva di Buzzi. Come ha evidenziato Chiocci
nell’articolo suddetto, Lintrami e Marra nei primi anni settanta erano uniti da
un vincolo di solidarietà politica e di amicizia personale, coltivato nel
quartiere milanese di Quarto Oggiaro. Di Marra sono a riuscito a capire che
Franceschini e altri brigatisti della prima ora lo indicarono come il militante
delle BR – uscito dall’organizzazione però nel 1975 – che avrebbe materialmente
sequestrato il giudice Sossi. Secondo Franceschini ed altri, inoltre, Marra
sarebbe stato in realtà un infiltrato dell’UAR di Federico Umberto D’Amato
nelle Brigate Rosse. Verificando però le sentenze del processo Flamigni, in una
con il verbale dell’interrogatorio reso ai ROS da Marra nell’ambito delle
indagini sulla strage di Brescia, ho appurato che la pretesa infiltrazione di
quest’ultimo non risulta affatto dimostrata. Mai fidarsi sulla parola, regola
basilare per coloro che non hanno di timore di porsi le domande. E infatti,
dalla lettura suddetta è emerso sostanzialmente che Marra a inizio anni
settanta segnalava le targhe dei suoi avversari politici - i neofascisti
milanesi - ad alcuni poliziotti di Quarto Oggiaro. Questo, a mio modesto
avviso, non è certo un elemento sufficiente per ritenerlo un infiltrato
dell’UAR nelle Brigate Rosse. Se esiste dell’altro qualcuno me ne dia notizia.
Certo è che la
presenza di Marra a Bologna, la mattina dell’esplosione, può costituire
benissimo una circostanza del tutto casuale. Le coincidenze, del resto, non
mancano mai nelle grandi inchieste italiane. Il fatto però che il suo amico e
compagno di Quarto Oggiaro, Lintrami, fosse a sua volta a Brescia il giorno
della strage, m’interessò inevitabilmente. La curiosità nell’attività di
ricerca dovrebbe costituire virtù e non peccato. Anche quando il caso le
assegna in sorte il colore rosso e non quello nero. Per tale ragione ho cercato
di capire le ragioni della presenza di Lintrami a Brescia. E non sono ancora arrivato,
come si vedrà tra poco, ad alcuna conclusione. Di questo esito però spero non
mi venga mosso rimprovero. Anche perché ho la buona abitudine di colmare le mie
lacune anche ascoltando gli altri. E di dare loro ragione quando li ritengo
convincenti, come è accaduto proprio con Pacini nel caso della grottesca
vicenda della fotografia di Curcio. Ma anche di fare le mie riflessioni, quando
invece gli argomenti offertimi in ragionamento non stringono per nulla.
Dunque, non sono
riuscito a capire le ragioni della presenza del brigatista rosso Lintrami a
Brescia martedì 28 maggio, giorno della strage. Lintrami sostenne di essersi
recato a Brescia insieme alla moglie per far visita ai parenti di quest’ultima.
Appresa la notizia dell’esplosione mentre era ancora a letto, Lintrami corse a
Piazza della Loggia per verificare di persona l’accaduto. La moglie e il
cognato asserirono invece di ricordare che la visita a Brescia di Lintrami
avvenne il 29 maggio, a strage già avvenuta. Non mi sembrano versioni compatibili. Non sono
riuscito a capire le ragioni che indussero Lintrami a ottenere un permesso
dalla Breda, fabbrica presso cui lavorava, per il predetto 28 maggio, giorno
della strage. Il permesso venne richiesto per sostenere un colloquio di lavoro
a Brescia. Tale colloquio in realtà non è mai avvenuto, come nota argutamente
Chiocci nell’articolo sunnominato. La causale effettiva del permesso,
evidentemente, sarà stata altra. Non sono riuscito a capire per quale precisa
ragione Lintrami, anziché tornare alla Breda all’indomani del colloquio mai
sostenuto, si diede malato sul posto di lavoro dal 29 maggio sino all’8 giugno.
Anche qui una ragione dell’assenza prolungata ci sarà sicuramente stata. Non
sono riuscito a capire, infine, perché il 20 giugno successivo Lintrami passò
in clandestinità e non fu più reperibile sino alla data del suo arresto. Non so tutto questo e ammetto spudoratamente
di non saperlo. Può essere però che l’amico Pacini, così come altri, conoscano
invece le risposte che io non ho trovato. In tal caso, come spesso è accaduto in
passato, sarei ben lieto di dare loro ragione. Non mi piacciono i capri
espiatori. Che siano neri, rossi o a pois.
Intendiamoci, è più
che legittimo ritenere le mie domande su Lintrami molto poco intelligenti.
Ciascuno del resto dispone dei mezzi cerebrali assegnatigli. Ma non è corretto qualificare la mia esplicita
ammissione di non conoscenza come la perpetuazione di un vecchio depistaggio. Oppure come un atto d’accusa implicito nei
riguardi del brigatista scomparso. O addirittura una mancanza di rispetto verso
persone come Cesare Ferri o Mario Tuti che, se mi sembra, non sono state
oggetto di domande socratiche formulate su web
bensì di processi ingiusti durati decenni e per i quali nessuno, dopo
l’assoluzione, ha sentito il bisogno di chiedere loro scusa. Per formazione
culturale e giuridica, ritengo disonorevole muovere accuse o insinuazioni nei
confronti di una persona, soprattutto se defunta, e a maggior ragione se
distante politicamente, in assenza di ben precisi elementi che lo giustifichino.
Anche in tal caso, la condotta di Lintrami dinnanzi ricordata potrebbe trovare
benissimo spiegazioni plausibili che nulla hanno a che fare con la strage di
Brescia. Neppure in via indiretta. Può certo essersi trattato d’un compagno che,
al pari dell’amico Marra sei anni dopo, si trovò nella città sbagliata la mattina sbagliata.
E’ quello, in fondo, che credo sostenga la magistratura italiana da diversi
decenni a tutt’oggi.
In ogni caso, per
poter assumere una posizione su vicende di siffatta gravità bisognerebbe
disporre di una mole di elementi conoscitivi che a me sfugge ancora. Come
esordiente della ricerca storica, ma anche da ultimo avvocato della Repubblica
italiana, ho affinato negli anni un metodo bizzarro. Oltre alle montagne di
atti processuali, peculiari degli eventi più tragici, andrebbero inseguiti
elementi che in genere poco interessano alle menti più attrezzate. O a quelli
che varcano la fatidica soglia della certezza morale con ammirevoli velocità
olimpioniche. Ad esempio m’incuriosiscono molto i colloqui avvenuti fuori
verbale, come quelli che Chiocci ha richiamato nell’articolo. Ad esempio quello
occorso tra il Capitano dei Ros Giraudo e l’ex brigatista rosso Lintrami.
Oppure come quello telefonico, avvenuto tra il Ministro dell’Interno Taviani, storico
comandante partigiano, e il giudice istruttore Arcai. Ovviamente, prima di
trarre conclusioni, bisognerebbe verificare con accuratezza se tali colloqui
siano occorsi effettivamente. Ritengo piuttosto utile anche, se non soprattutto,
conoscere tutti gli atti investigativi compiuti nelle fasi immediatamente
successive a una strage. Magari quegli atti che, per economia di lavoro o per mera
dimenticanza, poi non vengono neppure scaricati nei voluminosi fascicoli delle
istruttorie. Oppure quegli atti che sono scivolati per errore nel fascicolo
sbagliato, proprio quello che non interessa a nessuno. E’ molto difficile ma
può accadere, se ci pensate. Potrebbe persino succedere, anche se in via del
tutto ipotetica e piuttosto remota, che i misteri secolari di questo paese
disgraziato in alcuni casi fossero suscettibili di soluzione già a pochi minuti
dopo l’accaduto.
Molto interessanti Keoma le cose e gli intrecci che sveli:se come affermi Verbano e il "compagno-coatto" Ginestra erano insieme quando fu accoltellato Nanni de Angelis nel 1979, cosa avrebbe pensato Verbano se avesse saputo che Ginestra frequentava "fascisti" come Giuliani e Colantoni?
RispondiEliminaSe fai controinformazione le notizie le devi attingere a qualche fonte
RispondiEliminaScusami il commento era al post su Guerriglia comunista.Puoi spostarlo?
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