21 novembre 1973. E Taviani ordinò: sciogliamo quello che resta di Ordine nuovo
Il 21 novembre 1973 veniva sciolto, in seguito alla condanna di primo grado al processo per ricostruzione del Partito fascista e per un forte atto di volontà politica del ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani (e opinione contraria di Aldo Moro), il Movimento politico Ordine nuovo, cioè l'organizzazione dei dissidenti che rifiutarono di rientrare nel Msi. E' una storia che è rimasta sullo sfondo delle rievocazioni dedicate a Pino Rauti e quindi mi sembra il caso di riaprire il file di "Naufraghi" e attingere al capitolo dedicato al Mpon "In piedi tra le rovine". L'aspetto paradossale della vicenda è che Taviani persegue il Mpon perché è convinto del suo ruolo nelle stragi ma in realtà gli ordinovisti coinvolti nelle indagini e poi processati (e assolti tutti tranne uno: l'amerikano Carlo Digilio) sono rientrati nel Msi con Rauti. Sugli effetti politici dello scioglimento del Mpon Gabriele Adinolfi offre oggi su Noreporter un'interessante riflessione
di Ugo Maria Tassinari
Alla vigilia della strage di piazza Fontana la maggioranza dei dirigenti ordinovisti rientra nel MSI, accettando l’invito di Almirante, rieletto segretario a giugno, alla morte di Michelini. La scelta è motivata [Bielli 2000] con esigenze difensive che impongono "una revisione globale della sua posizione nel quadro delle contingenze globali che indicano, senza alcun dubbio, una possibilità di rottura degli equilibri, di estrema pericolosità [...]. Ne consegue che è necessità vitale per la vita futura (prossimo futuro) di ORDINE NUOVO inserirsi dalla finestra nel sistema dal quale eravamo usciti dalla porta, per poter usufruire delle difese che il sistema offre attraverso il parlamento, con tutte le possibili voci propagandistiche che ne derivano [...]. Necessità contingente dunque, assoluta e drammatica".
Per Rauti che matura bruscamente la decisione, condizionato dalla radicalizzazione dello scontro e dalla consapevolezza del ruolo giocato da molti suoi militanti nelle manovre degli apparati atlantisti "una vera avanguardia rivoluzionaria non può stare a guardare, arroccata sulle sue posizioni […] La dispersione delle forze sarebbe un lusso letale […] E quale poteva essere lo strumento di quest’inserimento se non il MSI?"
La maggior parte della base rifiuta il ripiegamento proposto e si coagula intorno al carisma di Graziani che con i dirigenti veronesi Elio Massagrande e Roberto Besutti e il toscano Leone Mazzeo, indica in una “lettera aperta ai militanti” [Graziani 1969] una “strategia”, per dare vita a un movimento rivoluzionario "al di fuori degli schemi triti e vincolanti dei partiti, una formazione agile, adeguata alle esigenze della situazione politica attuale e strutturata secondo criteri propri delle minoranze rivoluzionarie".
I “continuisti” rivelano la natura mistificatoria del disegno di Rauti: "Camerati, ora che l’operazione del rientro di alcuni dirigenti nazionali e provinciali di ORDINE NUOVO nel MSI è un fatto compiuto, noi che abbiamo avversato questa iniziativa sentiamo la necessità e il dovere di fare conoscere a tutti la nostra posizione e il nostro programma di azione futura [...]. [Quelli che sono rientrati vedono] come ultima possibilità di azione e di salvezza la necessità di porre ORDINE NUOVO sotto l’ombrello protettivo del MSI [che] garantirebbe una copertura efficace a tutta la nostra azione, evitandoci di essere investiti per primi dalla “terapia” preventiva già annunziata dal ministero degli Interni [...]. Ci siamo sentiti rispondere da Rauti [...] che non
è affatto vero che ORDINE NUOVO verrebbe sciolto entrando nel MOVIMENTO SOCIALE; l’organizzazione manterrebbe la sua compattezza e la sua libertà d’azione anche all’interno del partito, mentre all’esterno rimarrebbero comunque aperti dei circoli di ORDINE NUOVO per dare ospitalità a chi non intenderebbe rientrare nel MSI [...].
La proposta di Rauti era questa: formare immediatamente un esecutivo di ORDINE NUOVO composto, praticamente, da dirigenti che rientravano nel MSI e da dirigenti che, invece, continuavano l’azione all’esterno. Le inchieste giudiziarie confermano che gli ordinovisti rientrati manterranno una notevole autonomia, un proprio circuito di solidarietà per i camerati in difficoltà mentre alcuni quadri saranno protagonisti di due dei più clamorosi episodi della strategia della tensione (la strage di Peteano e il fallito attentato al treno in Liguria). Graziani, a differenza di Rauti, non coltiva illusioni sulle potenzialità rivoluzionarie del MSI: "non ha per fine politico l’abbattimento del sistema, ma piuttosto il suo mantenimento e rafforzamento attraverso il correttivo dello Stato forte e autoritario; non è pertanto un movimento rivoluzionario, e non può pretendere di inglobare ON, l’unico movimento politico fautore di strategia globale nazional-rivoluzionaria, strategia espressa in un organico lavoro di rielaborazione delle idee e della dottrina e della scelta dei mezzi di lotta indicati nelle tecniche della guerra rivoluzionaria".
A liquidare le eventuali residue velleità rivoluzionarie di Rauti basteranno poche settimane di galera nell’inverno 1972 per l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana. Da allora il leader ordinovista non perderà occasione per prendere le distanze non solo dai progetti eversivi e dalle attività terroristiche ma anche da tutti i tentativi di radicalizzazione politica dei gruppi neofascisti.
Il MOVIMENTO POLITICO ORDINE NUOVO sceglie di fondarsi il giorno del solstizio di inverno per riaffermare la propria intransigente ispirazione evoliana e si dà una più complessa organizzazione, in occasione del primo congresso nazionale, tenuto a Lucca nell’ottobre 1970. Il rapporto di polizia che dà il via all’inchiesta giudiziaria per “ricostituzione del partito fascista” attribuisce una quarantina di episodi di violenza, una cifra irrisoria per quegli anni feroci, ma enfatizza le potenzialità eversive del movimento: "ORDINE NUOVO risultava già caratterizzato come un movimento semiclandestino, fortemente gerarchizzato, con una direzione politica centralizzata, orientato a muoversi in gruppi di pochissime persone che dovevano essere in grado di volta in volta di mobilitare un’area di simpatizzanti, ispirato a una concezione elitaria e mitica dello Stato, antidemocratica e antiborghese, in assoluta contrapposizione con la democrazia parlamentare e l’organizzazione del consenso attraverso i partiti, ma almeno in parte non antistituzionale. Il movimento è infatti caratterizzato da una «concezione antidemocratica, antisocialista, aristocratica ed eroica della vita». Così il senatore Pellegrino evidenzia la forzatura compiuta: "Gli elementi che col tempo sono emersi consentono oggi di dire che già all’epoca erano stati consumati fatti delittuosi di maggiore gravità e relativi a ipotesi associative di diverso rilievo, che solo molto tempo dopo sarebbe stato possibile ricondurre nell’ambito dell’organizzazione".
Come infatti ha raccontato Taviani, la sua determinazione a sciogliere il MPON con un decreto, subito dopo la condanna del tribunale, è rafforzata dal convincimento che la strage di piazza Fontana era stata opera di ordinovisti collegati agli apparati di sicurezza. Ma ancor’oggi questa ipotesi non ha riscontro giudiziario. Del resto proprio gli apparati del Viminale giocavano un ruolo centrale nella costruzione delle strutture miste civili-militari. E nei confronti dei suoi uomini (che è eufemistico definire “apprendisti stregoni”) il ministro ben si guardò dall’applicare il pugno di ferro. Anzi, il “superpoliziotto” Umberto Federico D’Amato ha continuato a mantenere, pur cambiando talvolta mansione, fino alla pensione, e oltre, il ruolo di garante degli apparati di sicurezza atlantici in Italia. Il 6 giugno 1973 inizia a Roma il processo. Tra i 42 imputati alla sbarra alcuni non hanno mai aderito al MOVIMENTO POLITICO, altri sono rientrati nel MSI, i “puteolani” sono stati protagonisti di una grottesca scissione, qualcuno, infine, ha abiurato. I militanti del MPON, invece, confermeranno l’adesione con un gesto forte, che anticipa, senza l’esasperata ritualità violenta, la successiva tattica delle BRIGATE ROSSE: non si difenderanno in un “processo alle idee”.
L’unico abilitato a parlare è il capo. Nell’ultimo discorso pubblico come leader del MPON, l’autodifesa collettiva, Graziani enfatizza la discontinuità con il fascismo. La sua successiva elaborazione, che si svilupperà intorno all’idea del “partito aristocratico” e alle intuizioni jungheriane, confermerà che non si trattava solo di una esigenza difensiva: "Alcuni dei valori espressi dal fascismo […] si dissolsero come nebbia al sole, una volta sottoposti a una critica che faceva propri i principi di una visione del mondo aristocratico e tradizionale. Così il nazionalismo, il culto naturalistico della patria risultarono dei non valori: la nostra patria è là dove si combatte per l’Idea! Al concetto di Stato totalitario fu sovrapposto il concetto di Stato Organico; all’esigenza del capo […] l’esigenza dell’élite Rivoluzionaria".
Il processo si conclude con 30 condanne a pene variabili da 5 anni e 3 mesi a 6 mesi. Il gruppo è sciolto per decreto e i tentativi di ridare vita a un’aggregazione rigorosamente tradizionalista saranno repressi sistematicamente, con due successivi maxiprocessi, il primo con 119 imputati per la sola ricostruzione del partito fascista, il secondo con circa 150, tra cui numerosi accusati di crimini “comuni”, variamente e vagamente connessi con le attività dei militanti impegnati nella rifondazione del movimento. In realtà, nonostante i forti enunciati, il MPON non era per nulla attrezzato a sostenere il passaggio alla clandestinità e, di fatto, nei successivi tentativi di rigenerazione avrà un ruolo marginale o nullo il gruppo dirigente storico. La circostanza fortuita che una copia della rivista Anno zero, fondata dopo lo scioglimento, è trovata addosso a un giovane bresciano che salta in aria mentre si sta recando a compiere un attentato, trascina la leadership nelle inchieste sul terrorismo stragista e lo costringe a una più severa latitanza all’estero e alla perdita del controllo del movimento in Italia. Nonostante la breve vita e l’esito drammatico (Graziani e Massagrande saranno prosciolti molti anni dopo ma non rimetteranno più piede in Italia e moriranno in esilio) il MPON resterà nell’immaginario collettivo delle successive generazioni della destra radicale un riferimento mitologico.
Trenta anni dopo, nel quadro delle indagini sulla stagione delle stragi impunite, che vedono imputati (per piazza Fontana) i proconsoli veneto e milanese di Rauti come organizzatori, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, e un giovane ordinovista mestrino come autore, Delfo Zorzi, alcuni “pentiti” confermano che il disegno rautiano, contestato nella Lettera aperta di Graziani e camerati, si era concretizzato: effettivamente, attraverso la costituzione di gruppi autonomi presenti in molte realtà territoriali (Triveneto, Milano, Genova, Castelli romani) militanti confluiti nel partito avevano continuato ad animare iniziative politiche indipendenti. In due casi è accertato (da sentenze definitive) che queste realtà misero capo ad azioni terroristiche di diversa natura: la strage di Peteano, organizzata dalla cellula di Udine e l’attentato al treno Torino-Roma, fallito dai milanesi della FENICE. (...)
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