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Il golpe Borghese tra storia e leggenda: 3. dalla strage al flop giudiziario

Il golpe Borghese è un tema che ho più volte affrontato nella mia produzione saggistica, inserendolo sempre in un contesto più ampio, delle manovre del cosiddetto "partito americano". Il recente volume sul "Golpe inglese", di cui abbiamo cominciato a occuparci nei giorni scorsi, confuta sostanzialmente questa vulgata, che è anche la "narrazione" che ha ispirato l'ultima tornata di inchieste giudiziarie sulle stragi del quinquennio nero (1969-74). In attesa di entrare nel merito delle questioni sollevate da Fasanella e Cereghino, vi ripropongo, in tre parti, il capitolo sul Fronte nazionale e il golpe Borghese pubblicato nel mio libro "Naufraghi. Da Mussolini alla Mussolini. 60 anni di storia della destra radicale" (Immaginapoli, 2005). Qui potete leggere la prima parteQui la seconda .

La manifestazione convocata a Roma per il 14 dicembre (e disdetta all’ultimo minuto) dal MSI e dagli ordinovisti appena rientrati nel partito avrebbe dovuto, secondo Vinciguerra, innestare un “pronunciamento”. La straordinaria mobilitazione operaia dopo la strage a Milano blocca il piano. Una reazione non calcolata che dissuade il presidente del Consiglio, Mariano Rumor, dal proclamare lo stato di emergenza. Così Saragat deve rinunciare alla prova di forza. Il tentativo di scaricare sugli anarchici la responsabilità degli attentati fallisce grazie alla campagna di controinformazione scatenata dall’estrema sinistra, a partire dal volume La strage di Stato che, con le sue 500mila copie vendute in sette anni rappresenterà un caso da manuale di “eterogenesi dei fini”. Gran parte delle notizie pubblicate erano false, impertinenti, approssimative o di dubbia provenienza eppure sarà raggiunto l’obiettivo di fondo, grazie anche al sostegno del nascente movimento dei giornalisti democratici, di fondare un nuovo senso comune: la strage è di Stato, la manovalanza è fascista. Così, dopo poco più di un anno, gli inquirenti cominciano a mettere sotto tiro gli ufficiali intermedi (i Freda, i Delle Chiaie), sfiorando Rauti (che sarà brevemente arrestato) e senza coinvolgere le centrali operative che riconducono immediatamente agli apparati di sicurezza impegnati nella guerra a bassa intensità “contro il comunismo” e ai referenti politici del ‘partito americano’.
Intanto, il 4 luglio 1970, festa nazionale USA, sono conferiti i pieni poteri alla giunta del FRONTE per preparare un golpe che punta all’azione congiunta di gruppi irregolari e Forze armate. Segue un sopralluogo al Viminale e, nel mese di agosto, un campo paramilitare nei pressi di Bardonecchia, per addestrare i quaranta capigruppo piemontesi, che comandano 510 uomini dotati di armamento individuale.
La notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, Borghese è bruciato: a operazioni avviate – quando già gli avanguardisti hanno rastrellato l’armeria del Viminale e gli uomini della Forestale di Rieti, comandati dal colonnello Berti, sono giunti a Roma – gli sono negati gli interventi promessi. Pochi giorni dopo, nell’anniversario della strage, il “Comandante” è vittima di un attentato incendiario contro il suo studio, rivendicato dalle BRIGATE ROSSE DI ROMA. In questo caso (uno dei pochi) veramente sedicenti, perché è un lavoro sporco dei “servizi”, con un duplice obiettivo: da una parte avvalorare la tesi di una estrema sinistra violenta e terroristica, dall’altro “avvertire” Borghese.
La conclusione processuale, clamorosa, è che non c’è stato nessun tentativo golpista: in realtà autorevoli fonti storiche, giudiziarie e parlamentari concordano sul fatto che quella notte ci fu una mobilitazione di neofascisti, criminali e militari – controllati da uomini chiave della rete di sicurezza atlantica – e che le operazioni
furono bruscamente interrotte da un improvviso contrordine, che taluni attribuiscono a Licio Gelli. In prospettiva storica – visto il ruolo giocato dai quadri del SID, fedelissimi di Andreotti, il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna, che registrano decine di ore di conversazioni con dirigenti del FRONTE, ma poi forniscono alla magistratura bobine ripulite per non compromettere
elementi di punta delle Forze armate – si può affermare che il leader DC, consapevole della svolta internazionale degli USA – che nel 1973-74 mollano i regimi autoritari mediterranei: anche in Italia il segretario di Stato Kissinger punta sulla nuova destra dei giovani tecnocrati dc, reazionari ma di provata fede democratica – sacrifica gli amici compromessi per ricostruirsi una verginità politica e gestire in prima persona la nascente solidarietà nazionale. Alle accuse esplicite e alle illazioni ripetute nel tempo sulla sua responsabilità come “grande burattinaio” delle manovre golpiste, il leader democristiano può opporre la documentata ostilità alla sua designazione come premier nell’estate 1970 da parte di forze politiche (i socialdemocratici) e di personalità istituzionali (il generale Miceli) ben più coinvolte nella strategia della tensione. Un veto che il capo del SID aveva confermato al presidente Leone dopo le elezioni politiche del 1972 invocando imprecisate «superiori ragioni di sicurezza nazionale».
Il primo terrorista “nero” a denunciare la connection è Vinciguerra che riferisce di «4mila uomini messi a disposizione in Calabria da Giuseppe Nirta». Il coinvolgimento delle cosche è confermato da due “pentiti” di ’ndrangheta. L’ex avanguardista Carmine Dominici e il boss Giacomo Lauro ricostruiscono i rapporti tra mala e neofascisti durante la rivolta di Reggio Calabria del 1970, che provoca in pochi mesi sei morti e centinaia di feriti tra dimostranti e forze dell’ordine. A questa macabra contabilità probabilmente dovrebbero essere aggiunti il pensionato ucciso e i quattro feriti a Catanzaro, nel febbraio 1971, per un corteo antifascista assaltato con il lancio di bombe a mano. I due pentiti sostengono che a provocare la strage di Gioia Tauro (6 morti e 57 feriti per il deragliamento della “Freccia del Sud”, il 22 luglio 1970, otto giorni dopo l’inizio dei moti) è stato un sabotaggio dei binari, fatti saltare con il tritolo da tre fascio-criminali, tutti già deceduti per cause naturali. Quanto alla mafia, sarà Luciano Liggio a rivelare le richieste di collaborazione descritte da Tommaso Buscetta (uomini d’onore impegnati in compiti di ordine pubblico in cambio di un’amnistia), attribuendosi il merito di aver scongiurato il golpe. Un’ammissione inquietante, se si considera il radicato culto dell’omertà: ma spiega la violazione della ferrea regola il fatto che (siamo nel 1986) il processo Borghese si è appena concluso con assoluzioni generalizzate mentre la repressione infuria contro l’organizzazione. Siamo quindi di fronte a uno dei tanti messaggi in codice lanciati dai “corleonesi” per arrivare a una “soluzione politica”. Solo sei anni dopo, di fronte all’evidente fallimento dei tentativi di ‘pacificazione’ COSA NOSTRA scatenerà una seconda ondata di terrorismo antiistituzionale. (3-fine)

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