In morte di Peppe D'Avanzo
Peppe D' Avanzo nel 1997 a Tirana. Il secondo da sinistra è Carlo Bonini, che negli ultimi dieci anni è stato il suo più stretto sodale in tante campagne giornalistiche e scoop (foto La Stampa) |
I nostri licei erano a cento metri di distanza. Il suo, il Vittorio Emanuele, aveva un'ubicazione particolarmente infelice: giusto alle spalle della federazione del Msi. Lui con pochi altri (tra cui il suo mediano d'apertura, Corrado, un altro tipo straordinario) teneva testa alle preponderanti forze nemiche. Al di là del temperamento focoso, era su posizioni politiche abbastanza moderate: non so se militasse propriamente, ma era vicino al giro dei compagni del Manifesto, tra cui emergeva come tristissimo leader Raffaele Tecce, destinato a una carriera politica abbastanza brillante (da assessore bassoliniano al Comune a senatore di Rifondazione). Ma forse il ricordo mi si confonde perché, con la sua vitalità contagiosa, mi sembrava irriducibile a quel giro di giovanissimi, pallosissimi intellettuali (tra i quali c'era anche un fidanzatino di mia sorella...). Ancora studente universitario, entrò all'ultima grande scuola del giornalismo napoletano, quella di Ennio Simeone, che tra Unità, Paese sera e Voce della Campania ha sfornato una nidiata di inviati speciali spettacolari, da D'Avanzo a Fulvio Milone, da Enzo D'Errico a Geremicca jr. L'unico deskista serio, Matteo Cosenza, oggi fa il direttore del Quotidiano di Calabria. Qualcun altro me lo dimentico ma quello che era considerato il più ciuccio, no: Michele Santoro. Poi anche lui ha trovato il modo di farsi strada ...
Direttori no, quelli li formava il democristiano Orazio Mazzoni: da Mario Orfeo a Roberto Napoletano. Negli anni del movimento ero una delle sue tante fonti: nonostante le evidenti divergenze di fondo era però sempre acutamente rispettoso delle mie competenze. Consuetudine che abbiamo mantenuto anche da colleghi, quando tornava a Napoli da inviato e si fidava della mia maniacale conoscenza degli schieramenti dei clan (ma anche degli intrecci con il sottobosco politico affaristico). Ma la frequentazione era ormai diradata, grazie a PierLuigi Vigna. Il pm fiorentino lo fece arrestare per un suo scoop in condominio con Franco Di Mare (anche se era opinione diffusa tra i colleghi che il grosso del lavoro fosse suo e che avesse socializzato per una sorta di "ricopertura" assicurativa): i due, entrambi corrispondenti precari da Napoli delle due testate di sinistra, La Repubblica non ancora così forte, L'Unità non tanto scrausa come adesso, gli avevano bruciato l'inchiesta sulla pista napoletana per la strage del rapido 904. Si fecero un po' di giorni di galera, sicuramente Natale, non ricordo se anche Capodanno [Daniela mi conferma che no, fu solo Natale, ndb]. Ma per lui fu la svolta: la Repubblica, giornale ineguagliabile nella gestione del patrimonio umano, seppe valorizzarne il talento e il coraggio.
Poco importa che il processo smontò lo scoop, assolvendo Misso e i suoi per la strage e condannandoli solo per gli esplosivi. Anche perché, nella grottesca circolarità di certe vicende giudiziarie italiane, Totò Riina ha ricevuto un ordine di custodia per quel delitto pochi mesi fa. E l'ordinanza rilancia in pieno quella ricostruzione dei fatti ...
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