E' un precario lucano il situazionista del Pigneto
E' un artista precario del Pigneto l'autore della scritta "neonazista". Da destra a sinistra tutti condannano il gesto. La Digos indaga, ma il ragazzo ha deciso che oggi andrà di sua volontà dai carabinieri per raccontare tutto
“Ma quale apologia di Olocausto? Non scherziamo. Se c’è uno che odia il nazismo sono io. Ho deciso di parlare per questo. Sono un artista che ha voluto aprire un dibattito, non posso e non voglio essere confuso con teppisti o fanatici”. L’uomo che ha costruito il cancello di ferro che ha fatto esplodere la paura di un rigurgito neonazista (e gridare allo scandalo i politici di ogni segno e colore) è seduto di fronte noi. Ha 32 anni, è lucano, è un precario: insegna Grafica e fa corsi di formazione ai disoccupati. È insieme alla sua fidanzata (anche lei storica dell’arte, anche lei precaria). Ha lavorato una notte, sulla ferrovia del Pigneto, per montare la sua installazione. In quelle stesse ore, poco distante dal luogo incriminato, è stato persino fermato dai carabinieri (che però non hanno collegato la sua presenza al cancello). Lo chiameremo “Domenico”, ma la sua identità, almeno per oggi, non si può rivelare. Ha appena deciso, infatti, che oggi andrà di sua volontà presso una stazione dei carabinieri per raccontare la sua versione dei fatti.Domenico, ti rendi conto che questa tua installazione ha ferito tutti coloro che sono stati colpiti dall’Olocausto?
Sapevo che si trattava di un gesto duro, una provocazione. Ma non volevo minimamente che l’effetto fosse questo, anzi, se ho colpito le vittime o i loro familiari sono mortificato.
Sapevi benissimo che l’effetto sarebbe stato questo.
Per nulla. Io volevo che guardando questo cancello, installato in una periferia, abitata da giovani precari ed extracomunitari oggi diventati clandestini, tutti riflettessero sul fatto che un pezzo di lager è nelle nostre città, mentre noi ce ne passeggiamo spensierati.
C’era bisogno del cancello di Auschwitz, per dirlo?
Intanto vi voglio dire che il mio richiamo è innegabile. Ma che, volutamente la mia installazione è diversa: ho studiato la storia di quel terribile manufatto, commissionato dalle SS e costruito da un fabbro ebreo internato nel campo…
E questo che c’entra?
Il materiale che ho usato è diverso: quello era ferro battuto, questi sono tubi industriali.
E poi?
I caratteri delle lettere sono diversi! Questo è un font moderno, sia chiama Sugo. Anche la scritta l’ho fatta in inglese, perché doveva essere compresa dagli immigrati. Ho voluto dare corpo a un pezzo di sterminio e deportazione che esiste nelle nostre città, anche se non si vede. Quello dei diritti.
Volevi farti pubblicità?
Scherzate? Io lavoro da anni nelle periferie, vado e installo le mie creazioni senza rivelarmi. Per decine di volte nessuno si è accorto di nulla.
Sapevi che se ne sarebbe discusso!
A dire il vero, se non fossi stato inseguito da un sospetto così infamante, non avrei mai parlato: ho un sito in cui non metto nemmeno la mia foto, lavoro nei luoghi dimenticati dalla città, figuratevi se cercavo notorietà.
La denuncia contro la precarietà non è un alibi?
Al contrario. Vivo in questo quartiere. L’idea mi è venuta passeggiando su quel ponticello, un anno fa. Ho pensato che l’ironia sprezzante e oscena delle SS si prestava bene per raccontare anche un frammento dei tempi che stiamo vivendo.
La scritta era la stessa.
Ma in un’altra lingua, e per di più rielaborata: costruendo questo arco avevo in mente le insegne dei luna park anni Sessanta. Era una contaminazione.
Chi l’ha costruito?
Io, con le mie mani, in un laboratorio di amici.
Che impressione ti ha fatto il coro dei politici?
Non vorrei commentarlo, tranne che per questo paradosso. Il sindaco che ha deportato i romeni, e ha diviso i padri dai figli, è lo stesso che rilascia dichiarazioni indignate contro il neonazismo e mette al primo posto le politiche per la famiglia. Chi sbaglia, io o lui?
L’Olocausto è un orrore difficilmente comparabile alle parole di un sindaco.
Adorno ha detto che dopo Auschwitz fare arte è diventato impossibile. Volevo esprimere questo sentimento di ironia amara e disperata, anche estrema, per far riflettere sulle condizioni di schiavitù e privazione dei diritti che abbiamo accettato come inevitabili.
Sapevi che avresti potuto offendere qualcuno, però.
L’arte, per come la penso io, ha il dovere di sollevare problemi e suscitare dibattiti. Volevo questo, senza offendere nessuno. Se l’ho fatto, mi scuso.
di Luca Telese, David Perluigi e Rosita Rosa
Fonte: Il Fatto quotidiano
Che giornalisti acuti, ripetono all'infinito sempre lo stesso paio di domande.
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