La resistenza fascista nel Sud occupato
I gruppi neofascisti che si ribellarono agli angloamericani: processi e condanne
di Antonietta Zaccaro
Pubblicata dalle Edizioni la rondine la rievocazione di pagine poco note delle lotte nell’Italia postfascista
Un affresco della situazione italiana, e specialmente calabrese, all’indomani del Ventennio fascista, è quello che ci propone Nando Giardini – scrittore calabrese che ha vissuto in prima persona quel periodo di transizione – ci parla del periodo di carcerazione da lui stesso subito, dal 1944 al 1946, con l’accusa di essersi opposto alla liberazione/occupazione angloamericana. Il suo è il racconto della vita carceraria, di quella piccola comunità calabrese che passò alla storia per il maxi processo, definito “Processo degli Ottantotto”, svoltosi nelle aule del tribunale di Catanzaro e conclusosi con diverse condanne nei confronti di chi aveva trovato il coraggio di opporsi a quello che a loro sembrava un altro regime, quello del Cln. La stagione dell’ira. Vita vissuta (Edizioni la rondine, pp. 256, € 14,00) però non è un’esaltazione acritica dei protagonisti della vicenda.
Sia ben chiaro: gli “Ottantotto” erano dalla parte sbagliata. Eccome!
Avrebbero voluto ripristinare un regime dittatoriale complice e alleato di quanto peggio c’era all’epoca. Ma erano anche dei giovani idealisti che, educati all’ideologia totalizzante fascista, mal accettavano gli atteggiamenti di “voltagabbana” di una classe dirigente che il giorno prima si mostrava totalmente fascista e il giorno dopo si mostrava pienamente antifascista. Onore al merito a questi giovani che, negli anni successivi, in gran parte maturarono pian piano convinzioni democratiche. Ma che, in quel momento combattevamo una battaglia di coerenza e di (per quanto fortemente sbagliata) idealità.
Per fortuna (loro e di tutti) riuscirono a fare solo qualche attentato di piccola entità contro gli angloamericani e contro gli esponenti calabresi dei Cln. Ma furono quasi subito scoperti e arrestati.
È di questo processo, della sua, non breve, carcerazione, delle vicende storiche che vi ruotano intorno che Nando Giardini ci parla. Massimo Donato, nella Prefazione, inquadra il particolare momento storico di cui parla il nostro autore, definendo il volume «un’opera corale», con scopo didattico, destinata ai posteri: «potrebbe rappresentare un punto di riferimento ed un prezioso materiale didattico-documentario per studiosi che volessero compiere ulteriori approfondimenti storiografici su quel particolare periodo tumultuoso e controverso della vita del nostro paese e del tipo di società che ne stava per venir fuori, di cui tutti siamo testimoni non pentiti».
La vita in carcere
La vicenda viene scandita dai trasferimenti ai quali sono sottoposti i giovani detenuti politici, dal carcere di Cosenza, a Napoli, per poi passare a Potenza e infine a Catanzaro. Durante questi viaggi da un luogo all’altro, si viene a creare una sorta di microcosmo all’interno del gruppo, gestito da regole proprie, al di là delle norme sociali prestabilite: è una società carceraria che vive e si auto-organizza. Si intrecciano le vite delle persone care al di fuori della prigione, le lacrime di mogli e madri che attendono il rilascio dei propri cari: «quando ad un popolo si toglie ogni cosa, si prendono le donne per avviarle ai lupanari per truppe occupanti, si strappano i bambini alle loro ingenue monellerie affinché diventino ruffiani delle sorelle e delle madri (se fortunati, in contrabbandieri di sigarette e pessimi liquori fatti in casa, da rifilare ai soldati alleati), e questo popolo continua a inneggiare alla vita, vuol dire che saprà affrontare l’incerto domani». C’è donna Lilla, moglie di Luigi Filosa (fondatore del fascismo in Calabria ma che, per il suo essere repubblicano e rivoluzionario aveva subito il carcere dai vertici di quel movimento diventato monarchico e reazionario e che era ritornato a capeggiare nella sua fase finale, quando si manifestava nuovamente in una natura sociale), che pazientemente attende il rilascio del marito. E che, nelle sue visite, aggiorna i detenuti su ciò che accade al di fuori, su ciò che il mondo esterno pensa della loro carcerazione, su ciò che sono destinati ancora a subire, loro, reclusi dietro le sbarre per molto altro tempo: «ci riporteranno in Calabria per essere giudicati dal Tribunale straordinario di guerra. All’interno del carcere, oltre agli ottantotto detenuti politici, vi sono anche malviventi presenti lì per altri motivi: è il caso di un detenuto, nel carcere di Colle Triglio, a Cosenza, che affermava di essere discendente di Scarola, noto capobanda. Aveva una lunga cicatrice che gli deturpava il viso e parte del collo; questa gli valse il soprannome di “Scannato”.
È proprio qua che il nostro autore incontra l’Acciardi di persona, trovandosi a Colle Triglio di passaggio, per una testimonianza da rendere in tribunale; la curiosità è tanta e difficile da sedare. Il leggendario brigante, ormai vecchio, non era più reputato pericoloso, la vigilanza era diminuita con il passare del tempo e questo consentì al Giardini di avvicinarlo, seppur con paura mista a rispetto, per farsi raccontare la sua vita; per chiedere delle figure avvolte nel mistero che costellano la storia calabrese di quel periodo […]. Con la voce modulata di un nonno che racconta la favola della buonanotte al suo nipotino, il canuto brigante racconta la sua vita, e quelle vite che, per un motivo e per un altro, la attraversarono: «non è una fragilicchia la mia vita. Sa di sangue e di galera».
Il soggiorno in carcere, nonostante i piccoli espedienti che si improvvisano per allietarlo, è fatto di solitudine, angoscia e abbandono: «i giorni passavano, interminabili, monotoni. Oltre a leggere i pochi libri personali (la biblioteca del carcere non funzionava) si giocava a scacchi e a carte, opere certosine di Francesco Fatica, lo studente in ingegneria del gruppo catanzarese. Uno degli intellettuali ci negò i suoi libri. Inatteso, sorprendente comportamento, da biasimare». Per far passare quei giorni interminabili, gli ottantotto decisero di dare alle stampe un giornale carcerario: «Accaundici. Primo foglio galeotto. Napoli, Poggioreale, settembre 1944 – Sveglia: ore 8,30. Silenzio: ore 20,30. Conta: ore 4 – 12 – 20 – 24. Quanto fervore negli scritti e nelle raffigurazioni a matita (non copiativa) sui fogli di vetusti registri ingialliti. Scritti e vignette cosparsi, per proteggerli dall’inesorabile ingiuria del tempo, da una trasparente patina di latte». A questo si aggiunsero altre pubblicazioni, anche a colori: Evasione, l’Abate Faria, Libertà provvisoria, Il Cospiratore.
Accanto a questi momenti di ovattata normalità, si aggiungevano quelli di protesta, di ribellione contro chi deteneva il potere nella prigione, contro il loro status stesso di carcerati, di uomini e non di bestie: «il vitto era diventato immangiabile. Per protesta, seguì, nella nostra stanza, la decisione di rifiutare il pane e il latte in polvere. Il direttore, preceduto dal comandante e da sei agenti, venne a chiederci di non mettere in atto la grave scelta. Non seguimmo i sensati consigli. Gli agenti di custodia piantonarono la camerata per tre giorni e dodici amici furono isolati». In concomitanza con questa protesta, scoppiò una epidemia di vaiolo: «ci vaccinarono mentre gli infetti, alcune decine, furono trasferiti in un lazzaretto fuori città. Teo, al rientro dal colloquio con sua madre, ci informò d’aver notato un gruppo d’infermieri che trasferivano dei corpi nel vicino cimitero». È lo stesso Teo a dar voce al sentire comune del carcere: la protesta per il vitto aveva salvaguardato i detenuti dalla grave epidemia, non aveva sortito altro effetto che questo.
Il processo
Nell’aprile 1945, quasi contemporaneamente all’uccisione di Mussolini, a Catanzaro iniziò il processo presso il Tribunale straordinario militare di guerra. Le sentenze si susseguirono una dietro l’altra, le persone da giudicare erano tante e il tempo poco: le notizie iniziavano ad arrivare febbrili nelle celle dei detenuti politici. A loro si unirono, poi, gli insorti della Repubblica rossa di Caulonia, capeggiati da Pasquale Cavallaro, che volevano eliminare le ingiustizie sociali e dare più dignità ai contadini, e nonostante il diverso credo politico (i protagonisti del processo erano, come accennavamo, fascisti insorti contro gli angloamericani; quest’ultimi invece erano comunisti oppostisi al giogo del latifondo) trovarono, nella vita carceraria, il loro punto d’unione: il carcere diventa livella, che rende tutti gli uomini uguali, nonostante le diversità. Per i comunisti la sentenza arrivò il 23 agosto 1947: quasi tutti, benché condannati, usufruirono dell’amnistia. Infine prese avvio il maxiprocesso, si susseguirono le testimonianze dall’una e dall’altra parte, finché i giudici, una volta ascoltati tutti gli imputati, si ritirarono in camera di consiglio per quindici ore consecutive, trascorse le quali furono pronti a dettare le sentenze che furono assolutorie per insufficienza di prove per alcuni, di condanna dai 2 ai 6 anni di reclusione per altri. I condannati furono trasferiti a Melfi per scontare la pena: «parte degli ottantotto presunti evasori sono stati impallinati. Non avrebbero più volato. Avvertii, pesante, il peso il piombo sulle ali. Cercammo, riuscendovi, di non farci prendere dalla commozione. Non c’era spazio per i rimpianti. […] Un gruppo di familiari attendeva all’uscita. […] L’autobus ci riportò al Forte. Il maresciallo Putortì attendeva, i gomiti sull’inferriata del primo piano, la testa fra le mani, per augurarci buona fortuna».
È un racconto – quello del Giardini – su un mondo carcerario che colpisce profondamente nello scorrere le pagine di questo libro; ci si sofferma a riflettere su ciò che queste persone hanno dovuto subire, colpevoli unicamente di aver avuto il coraggio di esprimere le proprie idee, in ossequio o meno al potere costituito. Leggendo le vicende di questi carcerati ci si chiede se effettivamente, oggi, le cose siano cambiate, o se ancora si rischia la galera se si vuole esprimere il proprio pensiero… e la domanda resta in sospeso, senza poter trovare una risposta esaustiva.
Antonietta Zaccaro
(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 43, marzo 2011)
Ciao Ugo. Anche questa è una delle tante pagine di storia della RSI poco note. Ne parla anche il tuo collega Nicola Rao nel libro LA FIAMMA E LA CELTICA, a proposito del piano segreto denominato "Pdl". Tranquillo niente a che vedere con la politica attuale. Pdl è la sigla di Puccio Pucci e Aniceto Del Massa. Questo piano prevedeva infatti di inviare in segreto fascisti nel sud d'Italia per ostacolare il Regno del Sud e i liberatori che stavano avanzando. Sappiamo bene quale fu l'epilogo. Una piccola nota a margine, se mi permetti su Aniceto Del Massa. Fu uno studioso anche di esoterismo e collaborò per la cultura con il Secolo d'Italia.
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