Umberto Croppi e la scoperta della fantasia al potere
Il "tecnico" Umberto Croppi - l'unico assessore bravo della giunta Alemanno e appunto perciò "segato" nel rimpasto ultradoroteo - è un pezzo di storia della fascisteria romana negli anni di piombo. Dopo aver visto come la racconta lui, in occasione del trentennale della morte di Miki Mantakas, in una lettera a "Il Riformista", pubblichiamo quest'intervista a Cristiana Vivenzio rilasciata per l'uscita del film "Il signore degli anelli", in significativa coincidenza con il venticinquennale dei Campi Hobbit, di cui era stato uno dei protagonisti.
Campo Hobbit, quella festa a lungo attesa
intervista a Umberto Croppi di Cristiana Vivenzio
Alla metà degli anni Settanta i giovani della destra italiana scoprono Tolkien, ne subiscono il fascino e articolano attorno alle suggestioni nate dalla lettura de “Lo Hobbit” prima e del “Signore degli Anelli” poi un percorso reale di rilettura della propria dimensione, in termini non esclusivamente politici ma piuttosto generazionali. Tra i “fanatici” tolkieniani di quella generazione vi era Umberto Croppi, oggi quarantacinquenne direttore della Casa editrice Vallecchi, all’epoca dirigente giovanile del Msi che all’esperienza di quegli anni ha dovuto, forse, molto della sua attività di oggi. E che oggi, alla vigilia dell’uscita del “Signore degli anelli” sugli schermi cinematografici - mentre molti rievocano il significato di quella lettura giovanile e chi ha militato nelle fila della destra rivive l’esperienza tolkieniana come un momento assolutamente determinante del proprio vissuto personale - ricorda quel quinquennio hobbitiano degli anni Settanta al di fuori di ogni forma di nostalgia passatista.
Come avete scoperto Tolkien, autore allora quasi clandestino per l’Italia? E perché il riferimento a un autore del tutto al di fuori della dimensione politica?
In Italia Tolkien fu pubblicato per la prima volta da Rusconi nel 1970. Segnalato in quegli anni dalle riviste “L’italiano”, con un intervento di Gianfranco de Turris, e “Intervento”, con un articolo di Franco Cardini, l’autore del “Signore degli Anelli” venne presentato quasi per caso agli ambienti della destra giovanile. Alcune centinaia di noi lessero Tolkien e se ne innamorarono. Non che vi fosse un aperto e chiaro legame con la politica, ma il racconto di fantasia dello scrittore britannico significava richiamare un primato della dimensione creativa e fantastica e una rottura esistenziale con i modelli sociali piccolo-borghesi. Ne subimmo il fascino al punto che quella lettura creò in noi una sorta di autorappresentazione individuale. E va subito detto che nella nostra lettura e nella nostra passione non c’era nessuna ispirazione neo-pagana, come recentemente hanno scritto i giornali. A noi semplicemente piaceva quel mondo fantastico. E all’inizio leggere Tolkien significava esclusivamente un’esperienza individuale.
E poi che cosa accadde, che cosa produsse l’immedesimazione dei giovani di destra con Tolkien?
Fu la recensione del libro apparsa su “La Voce della Fogna” e firmata da Marco Tarchi che funzionò da collante per quanti di noi avevano scoperto la vitalità e la portata innovativa di quella letteratura. Per la prima volta veniva scoperto e “adottato” un autore che nulla aveva a che vedere con i testi sacri del fascismo, che non scriveva saggi politici, che non proponeva riletture storiografiche, ma era un narratore puro. Quella scoperta ci consentì per la prima volta di sentirci a tutti gli effetti parte della contemporaneità, di uscire dalla diversità cui eravamo stati relegati per la nostra appartenenza politica. Non ci sentivamo più diversi. Quando Tolkien scriveva “Le radici profonde non bruciano”, per noi il senso era evidente: riscoprivamo la possibilità di pensare un universo esistenziale alternativo al di fuori delle mitologie passatiste della nostra area politica. Da questa presa di coscienza collettiva cominciarono a prodursi effetti, altrettanto spontaneamente di quanto era successo nell’avvicinarsi di ognuno di noi agli scenari tolkieniani: nacquero gruppi musicali - come “La compagnia dell’Anello” a Padova - associazioni, circoli culturali - come la nostra “Taverna di Brea” a Palestrina. Nelle sedi giovanili cominciarono a circolare i poster di Hildebrandt con Galdalf al posto dei manifesti sulle rivolte anticomuniste. E da lì prese le mosse l’avventura dei campi.
Era il giugno del 1977: la destra giovanile italiana inaugura i campi Hobbit. Che cosa furono? E che significato ebbero per la vostra generazione?
I campi Hobbit furono un’idea di Generoso Simeone, un dirigente politico giovanile e operatore culturale di Benevento. Non so se realmente Simeone avesse letto “Il Signore degli Anelli”. Certo, la brillantezza dell’idea consistette comunque nell’averne intuito la portata innovativa per quei tempi. Siamo nel 1977, dicevamo. Il primo campo fu organizzato in un paesino del beneventano, con il divieto formale di Almirante e Fini. Praticamente blindato dalla polizia, per paura di scontri. Un’immagine, ripensandoci a distanza di anni, “raccapricciante”. Tre torridi giorni di fine giugno, 700-800 di noi accampati in un campo sportivo, improvvisando dibatti sui generis e giochi assurdi. Ricordo che in quel primo “raduno” si improvvisò addirittura un corteo interno, tanto la politica in quegli anni era concepita come scontro e a dimostrare quanto da quel clima di scontro fossimo lontani. Per noi che vivevamo quell’esperienza fu un’emozione straordinaria.
Come fu accolta l’organizzazione dei campi?
Qualche giornalista partecipò all’iniziativa. E in ogni caso, la grande rottura antropologica si era consumata. E l’esperienza del campo si ripeté appena tre mesi dopo. Una formula più aggiornata, un titolo “Programma domani” e un simbolo, un tubetto di dentifricio, che già diceva tutto delle intenzioni degli organizzatori. Volevamo superare ad ogni costo gli schemi precostituiti della comunicazione retorica. I temi più aggiornati, gli interventi qualitativamente più validi. Le cose però erano cambiate in seno al partito. La gestione unitaria del Msi trasformò il secondo campo in un fallimento. Quella visione unitaria aveva svuotato i contenuti di significato, annacquandone il valore innovativo. Sul piano emotivo l’esperienza del campo venne vissuto come una sorta di psicodramma.
Eppure quel fallimento non segnò la deriva di quell’esperimento…
Passarono tra anni prima di ritentare l’esperienza e fui io stesso ad assumermi l’incarico di organizzare il terzo campo Hobbit, quello che riuscì meglio. Fu concepito come una vera e propria presa di distanza dal passato, per superare il problema dell’isolamento cui ci sentivamo confinati, decisi di scegliere un centro urbano - non più centri disabitati, dunque - anche se non una città. La scelta ricadde su Castel Camponeschi, in Abruzzo. Partimmo con due mila lire e riuscimmo a mobilitare uomini e mezzi per 20 milioni, grazie alle sottoscrizioni di tutti quei volontari che contribuirono al successo dell’iniziativa. Pensammo ad una qualità dell’offerta che fosse fruibile da tutti e cercammo di realizzare tutto tenendo fede alle forme più spettacolari della comunicazione.
Qual era il motore portante?
La dimensione politica certamente era fortissima, ma era il progetto ad essere entusiasmante e l’esperienza fu tale da condizionare le iniziative successive di ciascuno di noi. L’elemento di maggior distanza dal passato si realizzò nel rapporto con i mezzi di comunicazione di massa. Accettammo la presenza dei giornalisti. Il giorno dopo su L’Europeo usciva un servizio dal titolo “Come Duce vogliamo il Signore degli Anelli”. Su questa scia appariva sulla prima pagina del Manifesto a firma di Pierluigi Sullo “Evoluzione della razza fascista in un paesino dell’Abruzzo”. E Giampiero Mughini per una trasmissione di Rai 1 intitolata “Nero è bello” fece per la prima volta nella nostra storia una trasmissione interamente dedicata a noi. Una ricognizione sulla destra che passava in rassegna case editrici, iniziative culturali, giornali, movimenti femministi.
E il mondo politico come reagì a tanta visibilità?
In quell’occasione sia Fini sia Almirante rifiutarono di rilasciare interviste. Ma in poco tempo tutto cambiò. Qualche giorno dopo ci fu la strage di Bologna, che impose una normalizzazione interna al partito rispetto alle aperture creative. Il gruppo di persone che si riunivano attorno alle iniziative dei campi Hobbit cominciò a disarticolarsi. Questo fu dovuto soprattutto al fatto che le nostre iniziative, riportando il confronto sul terreno delle idee e abbandonando quello della violenza e dello scontro fisico, di fatto sottraevano il movimento giovanile ad una strumentalizzazione, portando, anzi in luce gli elementi di similitudine, le analogie generazionali. Questo percorso di coesione generazionale ci portava a continuare a cogliere le contraddizioni interne del comunismo ma non portando la contrapposizione su posizioni oltranziste. L’esperienza dei campi Hobbit finì lì, molti di noi partirono da lì per occuparsi a tempo pieno di musica, comunicazione, giornalismo… Avevamo scoperto la metapolitica.
11 gennaio 2002
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