Un testo dal carcere di Signorelli: la stampa è complice della magistratura
Questo è il nostro modo di ricordare Paolo Signorelli: citare l’apertura del libro “Paolo Signorelli. Il Teorema, il Mostro, il Caso” ad Onore della Sua battaglia politico-culturale. THULE ITALIA
di Paolo Signorelli
“L’Uomo non chiede grazia: tutto il potere, tutte le leggi dello Stato crollano di fronte alla libertà dello spirito umano. Possono mettermi a morte, ma non riusciranno a togliermi la libertà, la tranquilla coscienza della mia anima immortale”.
Enzesberger ha recentemente affermato che “l’Italia è l’unico paese del mondo in cui la giustizia è amministrata dall’opinione pubblica”. La generalizzazione può, ad un primo approccio, apparire eccessiva. Ma se si va ad osservare in profondità e si usa la lucidità dell’osservatore che non si lascia ingannare dalle apparenze, ci si deve rendere conto che l’affermazione di Enzesberger, ben lungi da essere una boutade, riflette la realtà giudiziaria italiana.
Non voglio qui parlare genericamente dei rapporti intercorrenti tra Palazzo e Stampa, rapporti che notoriamente hanno visto e vedono la subordinazione – vera e proprio sudditanza – della stampa a fronte del potere. Notoriamente “il giornalismo è in assoluto la libera professione meno libera da pressioni politiche e da ricatti economici”; la dipendenza di quasi tutte le grandi testate – parlo di quelle “indipendenti” -dai gruppi editoriali che hanno nomi quali Rizzoli, Mondadori, Rusconi, costituisce la misura di quanto l’informazione italiana sia orientata nella direzione voluta dai gruppi di potere politico – finanziari. Non m’interessa neanche, parlare dello scandalismo e della ricerca dello scoop che in fondo costitutiscono i naturali ingredienti del giornalismo.
Intendo invece, appuntare le mie osservazioni – che hanno il significato pregnante della denuncia e dell’accusa – sul cosidetto giornalismo “giudiziario” che usa della libertà di stampa quasi sempre “come libertà di scrivere come viene viene, di non distinguere tra sospetto e certezza, tra una voce ed una notizia controllata, tra un accusato e un colpevole”.
E’ questo il giornalismo cui si riferisce Enzesberger, quello che crea opinione pubblica in ordine ai fatti ed ai personaggi oggetto di inchieste giudiziarie, opinione pubblica che condiziona, poi, la giustizia fino al punto di “amministrarla”. Perchè è noto come – al di là di certo protagonismo di molti magistrati, al di là di certi scontri fittizzi tra taluni magistrati e taluni giornalisti giudiziari che vedono questi ultimi apparentemente soccombere – gli opinion makers hanno l’enorme potere di creare il personaggio, di costruire il “mostro”, di porre così le premesse per la sua criminalizzazione e per la sua condanna. Né vale certo “garantismo”, sospetto perchè intellettuale e di maniera, a ristabilire un equilibrio irrimediabilmente compromesso.
Io non parlo per sentito dire, non disquisisco per il gusto dialettico della polemica, non mi riferisco a fattispecie astratte o comunque teorizzate. Io parlo per me e per quanti – come me – hanno subito e vanno subendo gli effetti devastanti prodotti dal “libero” uso dell’informazione giornalistica. Se esiste – ed esiste – un’interazione tra stampa e potere, esiste ancor più una piena interazione tra settori della stampa e settori della magistratura. Inquirente e giudicante.
La colpevolezza – specie se di un “sovversivo” – viene pianificata dalla stampa, che è in grado di trasformare il sospetto in certezza e di offrire al magistrato la copertura di “opinione” dinanzi alla più illegittima delle incriminazioni e delle condanne.
In Italia si è poi – con l’introduzione della “legge sui pentiti” – stabilito oggi un particolare menage nell’ambito dell’amministrazione della “giustizia politica”. Un ménage à trois o, se più piace, un andamento triadico che vede giornalisti, pentiti e magistrati operare nel pieno rispetto delle loro reciproche funzioni, in una sorta di “naturale osmosi funzionale” che ha come obiettivo l’incriminazione e la condanna dell”‘eretico”, del “ribelle”.
Il giornalista costruisce il “mostro”, il pentito fornisce le prove della sua “mostruosità”, il magistrato lo incrimina e lo condanna. E così i giuochi sono fatti con buona pace della società civile e con piena soddisfazione dell’ “opinione pubblica”. E dice bene Livia Pomodoro – magistrato in Milano – quando sostiene di essere convinta che “il potere giudiziario non deve rispondere a nessuno se non al controllo dell’opinione pubblica attraverso i mass media”. Dice bene, perché fotografa impudentemente quella realtà che ha condotto Agostino Viviani a sostenere in una nota intervista (L’ingiustizia e l’illegalità di Stato oggi in Italia) come basti oggi un’ipotesi di reato – opportunamente pubblicizzata – per sbattere in carcere un cittadino e per tenervelo a lungo, molto a lungo. Comunque l’affermazione di Livia Pomodoro si riferisce non tanto alla constatazione dell’attuale situazione che è parcellizzata ed estremamente variegata quanto ad una teorizzazione di ciò che, a suo avviso, dovrebbe avvenire per consentire il superamento della crisi della “giustizia” nel nostro paese
In Italia si è poi – con l’introduzione della “legge sui pentiti” – stabilito oggi un particolare menage nell’ambito dell’amministrazione della “giustizia politica”. Un ménage à trois o, se più piace, un andamento triadico che vede giornalisti, pentiti e magistrati operare nel pieno rispetto delle loro reciproche funzioni, in una sorta di “naturale osmosi funzionale” che ha come obiettivo l’incriminazione e la condanna dell”‘eretico”, del “ribelle”.
Il giornalista costruisce il “mostro”, il pentito fornisce le prove della sua “mostruosità”, il magistrato lo incrimina e lo condanna. E così i giuochi sono fatti con buona pace della società civile e con piena soddisfazione dell’ “opinione pubblica”. E dice bene Livia Pomodoro – magistrato in Milano – quando sostiene di essere convinta che “il potere giudiziario non deve rispondere a nessuno se non al controllo dell’opinione pubblica attraverso i mass media”. Dice bene, perché fotografa impudentemente quella realtà che ha condotto Agostino Viviani a sostenere in una nota intervista (L’ingiustizia e l’illegalità di Stato oggi in Italia) come basti oggi un’ipotesi di reato – opportunamente pubblicizzata – per sbattere in carcere un cittadino e per tenervelo a lungo, molto a lungo. Comunque l’affermazione di Livia Pomodoro si riferisce non tanto alla constatazione dell’attuale situazione che è parcellizzata ed estremamente variegata quanto ad una teorizzazione di ciò che, a suo avviso, dovrebbe avvenire per consentire il superamento della crisi della “giustizia” nel nostro paese
Dunque la crisi – dilagante e da tutti riconosciuta esistente – non si supera cessando di violare impunemente la legge, con la rimozione delle leggi speciali, con la riduzione dei termini della carcerazione preventiva, con l’eliminazione della “violenza, degli arbitri, dei soprusi, dell’arroganza”. Secondo il magistrato milanese la politica giudiziaria si risolve in un’assolutizzazione del potere giudiziario e grazie al controllo dell’opinione pubblica e quindi dei mass media! Il che – tradotto in moneta sonante – vorrebbe significare il definitivo svincolamento del “terzo potere” dagli altri poteri fatta eccezione -ovviamente – per il “quarto potere” che verrebbe così ad assumere una totalizzante posizione di controllo.
Siamo alla razionalizzazione del rapporto tra stampa e magistratura sino ad oggi, nonostante tutto, limitato alla interazione funzionale tra alcuni settori della stampa ed alcuni settori della magistratura.
Sarebbe, infatti, erroneo parlando della magistratura ritenere che questa rappresenti un tutto omogeneo, una struttura monolitica capace di amministrare la giustizia nel rispetto rigido ed uniforme delle leggi, immune da sollecitazioni di potere, da suggestioni ideologiche, da spirito di parte.
Le “Toghe di paglia” – come le definisce il giornalista parlamentare Antonio Loprete – costituiscono una realtà ben diversa, tutta italiana, calata nella crisi che investe profondamente tutte le istituzioni.
Sarebbe, infatti, erroneo parlando della magistratura ritenere che questa rappresenti un tutto omogeneo, una struttura monolitica capace di amministrare la giustizia nel rispetto rigido ed uniforme delle leggi, immune da sollecitazioni di potere, da suggestioni ideologiche, da spirito di parte.
Le “Toghe di paglia” – come le definisce il giornalista parlamentare Antonio Loprete – costituiscono una realtà ben diversa, tutta italiana, calata nella crisi che investe profondamente tutte le istituzioni.
Esistono quindi, magistrati politicizzanti e faziosi; ne esistono molti malati di protagonismo; molti altri ancora affetti da carrierismo. Vi sono magistrati – pochi – che credono fedeisticamente nella loro missione e che ritengono di essere i soli depositari della norma, i dispensatori equanimi di “giustizia”. E vi sono ancora i pavidi – che sono legione – preoccupati di non contraddire i potenti, di non risultare sgraditi all’opinione pubblica, vale a dire ai facitori di opinione. In questa composita realtà vi è spazio per ogni sorta di operazione, per ogni tipo di giuoco. I togati tornano ad essere “casta” quando si attenta alle loro prebende o quando si minaccia la “libertà” del loro potere. E quando ancora si osa, dall’esterno, giudicare il magistrato sottraendolo all’organo di autocontrollo e di autogoverno, per la bisogna previsto dalla Costituzione Repubblicana. Ma struttura monolitica o realtà polverizzata, la magistratura è detentrice del solo potere reale esistente oggi in Italia, potere che esercita senza controlli, senza limitazioni, senza pericoli ne preoccupazioni di alcun tipo, irresponsabilmente perchè non esiste per essa il principio della responsabilità “soggettiva”, perchè T’errore giudiziario” non vede pagante l’errante in quanto un’incriminazione od una condanna senza prove può ben essere sostituita dall’ipotesi di reato suffragata dal “libero convincimento del giudice”.
In questa situazione è lecito arrestare e condannare, distruggere la vita del cittadino, privarlo della sua libertà. Gruppi di magistrati o singoli giudici incriminano, arrestano , condannano o per esibizionismo o per convincimento o per odio politico o – fatto sempre più ricorrente -per vendette trasversali, per rappresaglie compiute in nome o per conto di gruppi di potere politici e finanziari che si son visti a loro volta colpire da altri giudici rispondenti alla logica – ed agli interessi – di altri gruppi di potere.
Vilipendio? No, signori miei, rappresentazione plastica di una realtà che non può sfuggire se non a chi non vuole avere occhi per vedere o a chi é costretto a non vedere – o a vedere male – per colpa delle lenti opache o deformate fornite dagli opinion makers.
Vilipendio? No, signori miei, rappresentazione plastica di una realtà che non può sfuggire se non a chi non vuole avere occhi per vedere o a chi é costretto a non vedere – o a vedere male – per colpa delle lenti opache o deformate fornite dagli opinion makers.
Tornando, quindi, all’amministrazione della “giustizia politica” ed all’andamento “triadico” nel suo ambito stabilitosi, c’è da considerare come venga trattato “secondo legge’ il “sovversivo” ed in particolare il “sovversivo di destra”. E’, questa, una puntualizzazione doverosa vista la difformità dei comportamenti tenuti dalla stampa che, mentre (il caso più eclatante è quello del “7 Aprile”) in una certa misura ha cercato di contrastare le teorizzazioni inquisitorie intese a colpire militanti ed ideologi di sinistra, mai ha levato una sola voce “garantista” nei confronti di quanti tra gli antagonisti di “destra” sono stati colpiti da una spieiata reazione spesso indirizzata contro le idee ancorché contro le attività “eversive”.
Contro la “destra rivoluzionaria” si è sempre sviluppato l’attacco concentrico dei vari settori della stampa – conformista o non, “indipendente” o politicizzata – attacco tendente a demonizzare, a criminalizzare, a giudicare “a priori” ed far condannare. Sulla “destra rivoluzionaria” (usiamo questa etichetta in termini distintivi, che nessuna distinzione reale può ormai essere accettata dagli autentici antagonisti) nella più favorevole delle ipotesi si è fatta dell’informazione acritica…
Contro la “destra rivoluzionaria” si è sempre sviluppato l’attacco concentrico dei vari settori della stampa – conformista o non, “indipendente” o politicizzata – attacco tendente a demonizzare, a criminalizzare, a giudicare “a priori” ed far condannare. Sulla “destra rivoluzionaria” (usiamo questa etichetta in termini distintivi, che nessuna distinzione reale può ormai essere accettata dagli autentici antagonisti) nella più favorevole delle ipotesi si è fatta dell’informazione acritica…
Che le mie affermazioni non abbiano il sapore dell’illazione è dimostrato dai comportamenti tenuti da certo giornalismo giudiziario operante al servizio di taluni inquirenti (sia funzionari di polizia giudiziaria che magistrati) comportamenti di cui io, sulla mia pelle, ho constatato e vado constatando gli effetti. E voglio dire, a tal proposito, che spesso è difficile distinguere se è l’inquirente ad usare del giornalista quale “cassa di risonanza” delle sue inchieste od è l’inquirente a far propri gli argomenti – le voci! – del giornalista.
Cito a mo' di esempio due casi, laddove potrei citarne a centinaia.
- Nei primi gionri di gennaio del 1979 comparve su “Panorama” un articolo a firma Michele Concina in cui si forniva l’identikit del capo dei NAR.
Cito a mo' di esempio due casi, laddove potrei citarne a centinaia.
- Nei primi gionri di gennaio del 1979 comparve su “Panorama” un articolo a firma Michele Concina in cui si forniva l’identikit del capo dei NAR.
Il mio identikit.
Sul numero dell’I 1 GENNAIO 1979 del quotidiano “Lotta Continua” si fece esplicitamente il mio nome come capo dei NAR. Io fui informato da un redattore dell’ANSA di quanto andava verificandosi e fui invitato a rilasciare una dichiarazione.
Immediatamente – nella notte tra il 10 e l’11 – fu effettuata dalla DIGOS romana una perquisizione in casa mia ed io, “per chiarimenti”, fui condotto in Questura. Nel pomeriggio dell’11 (dopo che per ore ed ore avevo inutilmente chiesto di poter parlare con un qualche funzionario, non essendomi nulla stato contestato) si decise inopinatamente di tradurmi presso il carcere di “Regina Coeli”: nel cortile interno di S. Vitale fui letteralmente assalito da turbe di giornalisti e di fotografi “opportunamente” informati dall’ufficio stampa della Questura. Le mie foto campeggiarono sulle prime pagine dei quotidiani sotto le diciture più fantasiose (la più ricorrente: “arrestato il capo dei NAR”) e comparvero per giorni sui vari canali televisivi. Poi venni scarcerato: il fatto di cui mi si era imputato (il rinvenimento di un souvenir di Toledo nella mia abitazione!) non costituiva reato.
La fabbrica del “mostro” era comunque iniziata
- Il 17 maggio 1980 il quotidiano “Lotta Continua” riferisce di una cena tenutasi presso la mia abitazione ed indica me ed il Prof. Semerari quali mandanti del mancato omicidio dell’avv. Arcangeli.
Il 23 giugno viene assassinato il giudice Mario Amato; LOTTA CONTINUA, nei giorni immediatamente successivi al delitto, pubblica una serie di articoli “sui retroscena ed i mandanti” dell’omicidio Leandri (ucciso per errore in luogo di Arcangeli) ed ipotizza il collegamento tra questo omicidio e quello del dott. Amato.
Dopo qualche tempo il CSM, in una relazione al Parlamento, riprende la tesi di “Lotta Continua” e dà il via alla “rappresaglia giudiziaria” nei miei confronti (è sintomatico notare la sintonia e la sincronia degli atteggiamenti assunti rispettivamente dal CSM e da “Lotta Continua”. Persino il linguaggio è identico nelle espressioni usate. A questo punto è del tutto accessorio stabilire se fu Lotta Continua a fungere da “cassa di risonanza” del CSM o se fu questo a far propri gli argomenti del quotidiano).
Io venni incriminato e rinviato a giudizio per l’omicidio Leandri e per l’omicidio Amato: senza una prova, senza un indizio.
Io sono stato condannato dalla Corte d’Assise di Roma (22 febbraio 1983) e dalla Corte d’Assise di Bologna ( 5 aprile 1984) all’ergastolo per i due omicidi: senza una prova, senza un indizio. Siamo all’ipotesi di reato della “necessaria” concorrenza morale. Necessaria, perché “l’opinione pubblica ” ha voluto che così fosse. Lo ha voluto ad ogni costo perchè f “ideologo nero” non può essere innocente: non é egli forse “il mostro ” sapientemente costruito dai gazzettieri che dell’opinione pubblica – cara Livia Pomodoro! – sono i facitori ed i garanti?
Nessun organismo di stampa ha usato (pur essendo tutti consapevoli della mia estraneità ai fatti imputatitimi) commentare negativamente le sentenze di Roma e Bologna.
Unica eccezione “Il Manifesto”. Enzo Chioini ha, infatti, sostenuto che ” si é ripresentato dunque il reato di “concorso morale” che ….ha portato anche al quarto ergastolo, quello , senz’altro più discutibile, di Paolo Signorelli , coinvolto nell’attentato solo da alcuni pentiti. Il prof, romano si è sempre dichiarato estraneo all’uccisione di Amato. Estraneità ribadita dagli altri imputati e dallo stesso Calore che, testimone imprevisto ma richiesto dal difensore di Fioravanti, aveva ricordato: “L’ allontanamento di Signorelli dai gruppi neri è avvenuo sin dal 1976. Pensammo anche alla possibilitàdi una rottura dei rapporti con il professore”.
Immediatamente – nella notte tra il 10 e l’11 – fu effettuata dalla DIGOS romana una perquisizione in casa mia ed io, “per chiarimenti”, fui condotto in Questura. Nel pomeriggio dell’11 (dopo che per ore ed ore avevo inutilmente chiesto di poter parlare con un qualche funzionario, non essendomi nulla stato contestato) si decise inopinatamente di tradurmi presso il carcere di “Regina Coeli”: nel cortile interno di S. Vitale fui letteralmente assalito da turbe di giornalisti e di fotografi “opportunamente” informati dall’ufficio stampa della Questura. Le mie foto campeggiarono sulle prime pagine dei quotidiani sotto le diciture più fantasiose (la più ricorrente: “arrestato il capo dei NAR”) e comparvero per giorni sui vari canali televisivi. Poi venni scarcerato: il fatto di cui mi si era imputato (il rinvenimento di un souvenir di Toledo nella mia abitazione!) non costituiva reato.
La fabbrica del “mostro” era comunque iniziata
- Il 17 maggio 1980 il quotidiano “Lotta Continua” riferisce di una cena tenutasi presso la mia abitazione ed indica me ed il Prof. Semerari quali mandanti del mancato omicidio dell’avv. Arcangeli.
Il 23 giugno viene assassinato il giudice Mario Amato; LOTTA CONTINUA, nei giorni immediatamente successivi al delitto, pubblica una serie di articoli “sui retroscena ed i mandanti” dell’omicidio Leandri (ucciso per errore in luogo di Arcangeli) ed ipotizza il collegamento tra questo omicidio e quello del dott. Amato.
Dopo qualche tempo il CSM, in una relazione al Parlamento, riprende la tesi di “Lotta Continua” e dà il via alla “rappresaglia giudiziaria” nei miei confronti (è sintomatico notare la sintonia e la sincronia degli atteggiamenti assunti rispettivamente dal CSM e da “Lotta Continua”. Persino il linguaggio è identico nelle espressioni usate. A questo punto è del tutto accessorio stabilire se fu Lotta Continua a fungere da “cassa di risonanza” del CSM o se fu questo a far propri gli argomenti del quotidiano).
Io venni incriminato e rinviato a giudizio per l’omicidio Leandri e per l’omicidio Amato: senza una prova, senza un indizio.
Io sono stato condannato dalla Corte d’Assise di Roma (22 febbraio 1983) e dalla Corte d’Assise di Bologna ( 5 aprile 1984) all’ergastolo per i due omicidi: senza una prova, senza un indizio. Siamo all’ipotesi di reato della “necessaria” concorrenza morale. Necessaria, perché “l’opinione pubblica ” ha voluto che così fosse. Lo ha voluto ad ogni costo perchè f “ideologo nero” non può essere innocente: non é egli forse “il mostro ” sapientemente costruito dai gazzettieri che dell’opinione pubblica – cara Livia Pomodoro! – sono i facitori ed i garanti?
Nessun organismo di stampa ha usato (pur essendo tutti consapevoli della mia estraneità ai fatti imputatitimi) commentare negativamente le sentenze di Roma e Bologna.
Unica eccezione “Il Manifesto”. Enzo Chioini ha, infatti, sostenuto che ” si é ripresentato dunque il reato di “concorso morale” che ….ha portato anche al quarto ergastolo, quello , senz’altro più discutibile, di Paolo Signorelli , coinvolto nell’attentato solo da alcuni pentiti. Il prof, romano si è sempre dichiarato estraneo all’uccisione di Amato. Estraneità ribadita dagli altri imputati e dallo stesso Calore che, testimone imprevisto ma richiesto dal difensore di Fioravanti, aveva ricordato: “L’ allontanamento di Signorelli dai gruppi neri è avvenuo sin dal 1976. Pensammo anche alla possibilitàdi una rottura dei rapporti con il professore”.
Io non mi considero vittima di questo”sistema”perché contro questo sistema di potere (recentemente definito “cleptocrazia!”) io mi batto da sempre: con la trasgressività delle idee, lontano quindi da ogni conformismo sclerotizzante e da ogni antistorico comportamento operativo.
Io non credo al “garantismo” anche perché esso si è sempre espresso a senso unico.
Io denuncio ed accuso la stampa quale ispiratrice, istigatrice e complice delle “esecuzioni sommarie” che vengono attuate dal potere giudiziario “in nome della libertà, della democrazia, del diritto”.
APRILE 1984
Nessun commento: