Antolini e Sansonetti a CasaPound
E' in corso la presentazione di "Fuori dal cerchio" a CasaPound, a Roma. Solo stasera ho scovato in Rete questa bella intervista di Frency Giovannini e Francesco Naio a Nicola Antolini, che vi ripropongo
da Occidentale, ottobre 2010
Nicola, come nasce l’idea di scrivere questo libro e più in generale di intraprendere un “viaggio nella destra radicale italiana”, anche alla luce del tuo percorso politico?
L’idea originale non è mia, ma di un mio amico giornalista, che però non poteva occuparsene direttamente, ed ha ritenuto che potessi farlo io. La mia idea è stata quella dell’approccio: tentare di esplorare un mondo “a viso aperto”, raccogliendo alcune voci significative e cercando di metterle a confronto tra loro: mi sembrava più interessante cercare di raccontare l’immagine e l’auto-rappresentazione di una “destra” (uso la categoria in senso lato) in crescita di consensi, piuttosto che cercare di ricostruire la dietrologia delle “reti neofasciste”.
Per tua stessa affermazione “Fuori dal Cerchio” è improntato alla logica del work in progress: evolvendosi dall’idea originaria è divenuto, nel tempo, qualcosa di difforme e più ampio, forse radicalmente diverso da ciò che ti eri prefissato all’inizio dell’opera. Ci spieghi il suo sviluppo e in che modo il percorso ha inciso sull’idea originaria, nonché sul risultato finale?
Cercando di costruire il progetto del libro, abbiamo vagliato varie ipotesi. Una prima ipotesi di lavoro, considerava la possibilità di confrontarci con la maggior parte delle realtà organizzative presenti sul territorio: una possibilità che abbiamo scartato, per ragioni di sintesi, e per evitare di proporre un “inventario della destra”, un “album delle figurine” che ci sembrava sterile, e poco interessante.
Abbiamo allora ipotizzato una seconda strada, consistente nel confronto dialettico, incentrato sul tema dell’“identità”, tra due realtà che ci sembravano per certi versi antitetiche e significative di modi diversi di intendere la politica e la militanza: da una parte, CasaPound, intesa come associazione radicata sul territorio, caratterizzata in senso identitario e generazionale, che rifiuta la forma-partito e gli steccati della contrapposizione bipolare; dall’altra, la componente cosiddetta “sociale” di An, una realtà fortemente istituzionalizzata, apparentemente legata al passato, e saldamente ancorata alla forma partito ed agli attuali equilibri politico-parlamentari. Abbiamo compreso, da subito, quanto la componente identitaria fosse a dir poco sfumata in questa seconda entità, ed abbiamo optato per un confronto meno ancorato agli schemi, e incentrato su alcune aree tematiche, che ci sembravano rilevanti: il conflitto tra destra e sinistra, gli anni Settanta, la cultura, la Storia, la letteratura, la musica e così via. Questo, ha portato al coinvolgimento di personaggi anche diversi, non riconducibili alla dialettica Cpi-An, che però ci sembravano interessanti ed assolutamente pertinenti rispetto ai temi trattati. Direi però che il tema principale del libro, quello che tiene legato tutto il progetto, è quello del cambiamento culturale: un tentativo di fotografare una fase di transizione in cui alcuni vecchi parametri entrano in crisi, e la cosiddetta “egemonia culturale” diventa territorio di conquista anche per soggetti e culture che non ci aspettavamo. Da questo punto di vista, le voci raccolte in questo volume partecipano tutte ad un processo dinamico, sia pure con modalità e intensità diverse, contribuendo a modificare i confini del dibattito culturale del paese.
Tanto nel libro quanto in rete hai affermato che il titolo, “Fuori dal Cerchio”, è frutto del confronto dialettico con Ugo Maria Tassinari. Cerchiamo di far luce sul concept: perché questo titolo ed a chi o cosa ti riferisci con esso?
Il concetto di fondo è abbastanza semplice, ma è un titolo al quale possono essere dati più significati. Il “cerchio”, in un certo senso è il pregiudizio, è il contenitore nel quale racchiudi il militante di destra in base ai tuoi riferimenti politici e culturali, è “l’immagine metafisica del fascista”, come ha scritto qualcuno in modo polemico. Dando per assunto cha la mia immagine mentale del fascista non sia necessariamente vera, ma neppure necessariamente metafisica, nel libro credo di avere raccontato storie e realtà che mi hanno stupito, che escono, almeno in parte, dallo stereotipo delle mie aspettative su cosa debbano fare o dire o pensare i fascisti del secondo o del terzo millennio. In questo senso, il mio è anche un viaggio personale, all’interno di una destra, come ha scritto qualcuno, “immaginata”, personale, rapportata ai parametri delle mie idee e della mia cultura. Il “cerchio” è quello che mi aspetto, “Fuori dal cerchio” c’è quello che mi spiazza: un percorso che porta fuori dalla “mia” destra immaginata, e che mi impone il confronto con realtà più variegate e complesse di quanto immaginassi.
Ma “il cerchio” può anche essere inteso come “il recinto”, “il ghetto”, “la riserva indiana” che è stata costruita in Italia negli anni. In questo senso, “fuori dal cerchio” sono i tentativi di spezzare i confini imposti dalla ghettizzazione, le storie e le rivendicazioni che secondo me possono superare i muri ed abbattere i tabù.
In un certo senso il sottotitolo, “Viaggio nella destra radicale italiana”, non sembra collimare alla perfezione col risultato finale, posto che alcune delle realtà e delle persone che hai intervistato non si riconoscono appieno nell’etichetta “destra radicale” (o non vi si riconoscono tout-court). Nella tua personale riflessione politica, quale valenza assume questa delimitazione concettuale? Inoltre, al termine del viaggio che cosa resta della tua originaria concezione di “destra radicale”?
Diciamo che la mia “originaria concezione”, che io chiamo “pregiudizio”, si è arricchita di nuove consapevolezze, o nuove impressioni, fino a cambiare in modo sostanziale. Quello che mi ha colpito di più, è la proposta culturale, che mi è sembrata assolutamente ricca e variegata, sempre che sia lecito cercare di separare “politica” e “cultura” parlando di realtà militanti come CasaPound, o di persone che da anni uniscono militanza a proposta culturale.
Il concetto di “destra radicale”, utilizzato nel sottotitolo, non è mio, ma è un’idea dell’editore. È una semplificazione, evidentemente. Mi rendo conto che esiste un significato preciso del concetto, sedimentato da tempo. Però l’aggettivo “radicale”, quasi sempre associato a “sinistra”, ha anche un significato discorsivo, ed è riferito a tutto ciò che tende ad uscire dal “palazzo” e dalle convenzioni del “sistema” liberale. Da questo punto di vista, il concetto di “destra radicale” è utilizzato in modo dialettico, e speculare a quello di “sinistra radicale”. Che poi vi siano delle ascendenze tra le realtà che ho esplorato, e la “destra radicale” intesa nella sua evoluzione storica, di cui peraltro quasi tutti propongono il superamento, è un altro discorso, e probabilmente è un dato di fatto. Direi che il concetto è usato in modo generico e non del tutto corretto, ma più che un’associazione sbagliata, mi sembra un’associazione che rende l’idea dei contenuti del libro in modo sicuramente incompleto e approssimativo. Credo che sia più che altro il tentativo di costruire una bussola che permetta di orientarsi all’ipotetico lettore di sinistra, non troppo avvezzo ai temi e alle vicende della parte opposta.
Sappiamo che hai “sfrondato” di molto il materiale raccolto: con quale criterio sono state selezionate le interviste da pubblicare e, di converso, sono state “depennate” le altre, in particolare quelle scartate per tua scelta, relativa all’economia generale dell’opera, e non per volontà dell’editor della Elliot?
Beh, potrei dire, senza forzature, che i “tagli” che hanno sfrondato il libro io non li ho proposti, e li ho tutti subiti mio malgrado, nessuno escluso. Non voglio dire che non si dovessero fare: la preoccupazione dell’editor è stata quella di togliere parti che potevano sembrare ripetitive, o interviste che non si potevano inserire negli ambiti tematici ai quali volevamo dare rilevanza. Si è seguito un criterio di “economia del testo”, di chiarezza, e si è cercato di togliere parti che potevano risultare oggettivamente confusive o dispersive. Però il lavoro di editing è stato fatto molto in fretta, a libro appena concluso e con tempo molto ristretti: non ho certamente avuto il tempo di sedimentare il lavoro fatto e di valutare con serenità. Quando abbiamo lavorato “di forbici” ero ancora troppo “dentro” al lavoro che avevo fatto, e avrei tenuto tutto. Alcune esclusioni mi sono dispiaciute in modo particolare, e l’ho scritto nelle conclusioni.
Ugo Maria Tassinari, con una buona dose di ironia, usa parlare di “fascinazione” nei confronti di quella che simpaticamente chiama la “fascisteria”, due termini con cui ha intitolato un libro di un certo successo e, più di recente, un blog di estremo interesse. Leggendo le tue introduzioni ad alcune delle interviste presenti in “Fuori dal Cerchio” abbiamo avuto l’impressione che manifestassi, sia pure con distacco ed evidenti capacità critiche, un certo “indice di gradimento” nei confronti di una fetta del mondo della “destra radicale” italiana; sembra provarlo anche il fatto che all’esperienza di CasaPound Italia è dedicato quasi tutto il testo. Se la sensazione è corretta, quali sono i potenziali punti di raccordo tra il nostro ed il tuo modo di concepire la politica?
È l’idea di militanza, soprattutto, legata ai modi di partecipazione delle giovani generazioni. Come è scritto nelle note di copertina, ho fatto le mie esperienze quando ero molto giovane, iniziando a militare nella Fgci, poi nella Sinistra Giovanile. Si parlava molto, si facevano molte riunioni, e si scimmiottavano molto gli adulti. Probabilmente, ho attraversato un’epoca di passaggio, in cui i dibattiti non erano facili, e in cui eravamo chiamati a schierarci su questioni che avevano a che fare con i “massimi sistemi”, la trasformazione del partito, l’eredità dei paesi dell’Est, “il comunismo” e la “socialdemocrazia”: erano temi impegnativi, che non lasciavano grande spazio alla creatività, e che credo abbiano contribuito a formare una generazione molto orientata all’astratto, e poco ancorata ai problemi reali. La capacità di portare temi concreti, anche attraverso la provocazione, la rottura – le tecniche cosiddette dello “shock mediatico”–, è una cosa che invidio a CasaPound, e che nella mia esperienza politica probabilmente è mancata. Allo stesso tempo, vivo con qualche disagio la fase attuale, che considero ingessata da troppe regole assurde e da una serie di conformismi esasperati, malgrado l’irruzione apparentemente frequente dell’invettiva e del “politicamente scorretto”. L’irriverenza di CasaPound, in questo scenario paludato, mi sembra comunque un valore, e la provocazione culturale credo che possa servire ad avviare qualche dibattito e a dare qualche scossone salutare. Credo che la mia, quando c’è stata, sia stata soprattutto una forma di adesione culturale ed emotiva alle “forme”, più che ai contenuti, un’adesione all’idea stessa di “rottura”, che mi sembra qualcosa di cui il paese avrebbe bisogno in questo momento. Non amo molto il conformismo, e questo mi porta a guardare con qualche interesse chi sembra rompere gli schemi: è una mia debolezza.
L’ordine delle interviste non sembra casuale, a cominciare da quella fatta al Blocco Studentesco sui fatti di piazza Navona prima ancora di quella a Gianluca Iannone, Presidente di CasaPound Italia. Successivamente si passa dalla responsabile CPI Emilia-Romagna, all’ex-brigatista rosso e scrittore Valerio Morucci… Quale criterio hai seguito nell’ordine delle interviste? Esiste un filo rosso che le collega, svolgendosi attraverso un percorso più o meno predefinito?
Sì, l’idea era quella di alternare descrizioni e confronti più legati alla cronaca – alle pagine dei giornali –, a parti più analitiche in cui le “notizie” portate con emotività erano approfondite attraverso la descrizione dei mondi che, apparentemente, le avevano prodotte. Nel capitolo che citi, quello su CasaPound, si parte da Piazza Navona –la cronaca–, per poi arrivare ad una descrizione più approfondita della realtà di CasaPound, attraverso le interviste di Gianluca Iannone e di Francesca Giovannini, e attraverso il racconto dei primi anni di vita dell’associazione, che mi ha fatto Simone Di Stefano, e che ho provato a riportare in modo narrativo. Il capitolo si conclude con l’intervista a Morucci, che per me è molto interessante, anche se mi rendo conto che dice alcune cose, su CasaPound, che sono discutibili, e che possono risultare fuorvianti. Ma la presenza di Morucci a CasaPound è stata un fatto di cronaca, oltre che un pezzo di dibattito culturale sugli anni Settanta e sul conflitto etnico tra mondi diversi: la sua intervista era il “pezzo ideale” per creare un ponte tra l’attualità di CasaPound, e il dibattito sugli anni Settanta che si affronta con le interviste del capitolo successivo. La conclusione, affidata al Turbodinamismo, serve proprio a questo: riportare il cammino dove era iniziato, e cioè al futuro e all’attualità.
E’ netta l’impressione che la prima parte del libro ruoti essenzialmente su due cardini: le interviste già citate al Blocco Studentesco e a Valerio Morucci, ovvero a chi ha tenuto la piazza durante gli scontri del 29 ottobre 2008 e alla persona che ha voluto, in un certo senso ed a seguito di una sua personale riflessione, decretare la fine dell’antifascismo militante nel corso di una affollatissima conferenza in via Napoleone III. È possibile che questi due episodi abbiano influito sulla tua decisione di dar vita a “Fuori dal Cerchio” affrontando un mondo a te sconosciuto e se sì, che cosa ti ha fatto “scattare la molla” in maniera definitiva, piazza Navona o la presenza di Morucci a CasaPound?
In realtà, quello che mi ha colpito di più, non sono stati né gli scontri, né il dibattito con Morucci, che per me è stato un richiamo comunque fortissimo. Quello che mi ha colpito di più, è stato il dibattito politico seguito agli scontri, lo scenario rappresentato dagli adulti, di fronte ad uno scenario conflittuale che vedeva la piazza piena di ragazzi e ragazzini: un marasma di voci sovrapposte, in cui molti urlavano forte la colpa dell’altro, e in cui nessuno sembrava volersi prendere le sue responsabilità. Mi sembrava che ci fosse il bisogno di fare un po’ di chiarezza, partendo proprio dalla piazza e da chi era stato protagonista di quella giornata e di quelle precedenti. Morucci è stata una molla che mi ha fatto arrivare fino a Roma, e la conferma, più o meno diretta, che le cose potevano essere più complesse di come ci venivano rappresentate. Intervistarlo, e intervistare i ragazzi del Blocco, mi è sembrato doveroso. La parte centrale del capitolo, con l’intervista a Iannone, mi sembra essenziale a mettere tutto in una prospettiva più ampia, e spiega la presenza di Morucci molto più di quanto potrebbero fare i fatti di Piazza Navona, presi in modo isolato. Quanto meno, serve a riportare in modo compiuto l’auto-rappresentazione del mondo che volevamo indagare, in questo caso CasaPound.
Che cosa hai pensato la prima volta che hai visto le immagini degli scontri a margine dei cortei contro la riforma Gelmini e che opinione ne hai oggi, dopo aver conosciuto e fatto parlare a ruota libera i protagonisti di quella giornata?
Quando ho visto le immagini non ho pensato che stessero tornando gli anni Settanta, se è quello che vuoi sapere, con buona pace delle dichiarazioni di Cossiga. Quello che mi ha colpito di più è stato il dibattito successivo, come ti ho già detto. Nel libro ho cercato di spiegare che i fatti di Piazza Navona, a mio parere, richiamano responsabilità diverse: le responsabilità del Blocco, che ha deciso di far valere il proprio diritto a manifestare ad ogni costo, le responsabilità di chi ha deciso che i fascisti dovessero essere sbattuti fuori a spallate, e le responsabilità di chi ha permesso che i gruppi contrapposti venissero a contatto. La differenza, è che mi sembra che ci sia chi le sue responsabilità se le prende, e chi no.
A monte di tutto, come mi è già capitato di spiegare, credo ci sia la responsabilità di chi ha deciso di imporre alla manifestazione e al movimento studentesco un colore ed un carattere che non gli appartenevano, la logica del “fascista non può passare”, e della divisione tra blocchi e identità contrapposte, là dove si erano costruiti spazi di confronto e di unità generazionale. “Mazzieri” di sinistra, che fanno da contro-canto ai mazzieri di Caradonna e Almirante intervenuti a separare i neri dai rossi nel Sessantotto. L’unità generazionale si potrà anche discutere, ma non credo ci siano più ragioni per cercare di sprangarla, o di sfaldarla a spallate.
Il 2 ottobre scorso a Perugia, in una sala comunale, hai subito un’aggressione immediatamente prima della presentazione del tuo libro organizzata da CasaPound. Ci ha colpito l’ironia micidiale con cui hai affrontato la questione, incluso un sms, inviato dal pronto soccorso, in cui scrivevi che “l’antifascismo è vivo e lotta insieme a noi!” A prescindere da un altrettanto ironico “benvenuto nel club” da parte nostra, vuoi dire qualcosa in merito a questo episodio ed alle logiche che l’hanno provocato?
L’ironia è nelle mie corde, stoicismo a basso prezzo che mi è servito a sdrammatizzare e a ricomporre un po’ di dignità… Sull’aggressione, non sento il bisogno di aggiungere altro al poco che si è già scritto e che è già stato detto. Anche se le botte le ho prese io, è un dato oggettivo, non credo che se ci fosse stato un ragazzino simpatizzante di CasaPound avrebbe fatto differenza, e questa è una delle cose che mi fanno più arrabbiare, e che mi preoccupano di più. Era una manifestazione di destra, eravamo in due, e tanto è bastato. Credo che si sia trattato di uno dei tanti episodi di “antifascismo militante”, un passaggio all’atto da parte di chi crede che i valori dell’antifascismo debbano essere accompagnati dalla contrapposizione fisica, tesa a contrastare l’agibilità politica e il diritto di parola del nemico di sempre, fascista o filo-fascista che sia. Credo che si tratti di una lotta residuale, che in prospettiva può indebolire soltanto chi la porta avanti in questo modo. Sono episodi di cui si parla poco, ma che sono abbastanza frequenti, e chi fa militanza sul territorio credo li conosca bene. Posso anche aver scritto un libro bruttissimo, o profondamente sbagliato: se me lo dici e lo dimostri con gli argomenti, anche aspri, vinci. Se i tuoi argomenti sono le sedie tirate addosso, rischi di perdere in modo drammatico, e non solo la faccia. Uso delle categorie generiche: se la sinistra non si accorge che la destra si legittima da sola attraverso l’azione politica e il consenso culturale e sociale, e pensa di contrapporre soltanto il rifiuto a priori e, in qualche caso il conflitto, rischia di svegliarsi in modo brusco, e di ricevere amare sorprese, indipendentemente dal fatto che i fascisti di ieri e di oggi vengano legittimati dagli articoli e dai libri di “merde filo-fasciste” o da “utili idioti” come me.
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