Ludwig, una storia finita e mai chiarita/2
E' dell'altro giorno la notizia che si sta per concludere la vicenda giudiziaria di Ludwig, la banda di squilibrati che ha insanguinato il Nord-est tra fine anni 70 e primi anni 80, inseguendo un sogno precoce di pulizia etnica che si è poi ampiamente diffuso seppure in forme meno virulente. Uno dei due condannati, Marco Furlan, chiede che sia dichiarato concluso il periodo di libertà vigilata e gli sia restituita la piena libertà dopo una condanna a 27 anni di carcere. E', dal punto di vista concreto, una notizia di scarso rilievo ma ha avuto ampio risalto di stampa. Perché la vicenda della prima e unica banda che in Italia ha praticato forme esplicite di terrorismo rituale ha lasciato ampie zone d'ombra, a partire dalla mancata identificazione del terzo uomo (ma ce ne dovrebbe essere almeno un quarto). E quindi raccontiamolo questa storia, usando come al solito, il testo della prima edizione di Fascisteria. Qui c'è la prima parte del testo
I due si giustificano: le discoteche sono un “luogo di perdizione e di peccato per i giovani”. I coltelli da cucina da ventuno centimetri che portano con sé sono una traccia importante per i precedenti delitti di Ludwig. Abel tenta inutilmente di nasconderne in cella la custodia. La linea difensiva è di negare sistematicamente tutto, anche l’evidenza. Dalla loro parte la totale mancanza di precedenti politici e di episodi di violenza, la rispettabilità delle famiglie e le brillanti carriere universitarie: Furlan è laureando in fisica e figlio di un noto chirurgo, Abel – il padre è un ricchissimo assicuratore – è laureato a pieni voti in matematica. Contro, una marea montante di indizi. E finalmente, grazie all’uso di tecnologie particolarmente avanzate, la prima prova. Una perizia su fogli di carta trovati a casa di Abel afferma che su fogli sovrapposti a quelli sequestrati è stata scritta con caratteri runici la rivendicazione del rogo di Monaco e del duplice omicidio di Monte Berico (mentre a casa Furlan emergeranno tracce del volantino sul rogo di Milano). Abel nega disperatamente: non ha mai scritto con caratteri runici. Nei lunghi interrogatori riconosce solo di essere un bacchettone: “Nella vita – dichiara – l’unica cosa che conta sono gli affetti e le discoteche bordello sono la loro negazione. Non ce l’ho con i giovani che le frequentano. La colpa è dei gestori. A Lazise, sul Lago di Garda distribuiscono l’eroina come se fosse Coca cola”. Nega di essere psicotico ma ammette di aver avuto problemi di carattere nervoso. Per il pm ha una personalità disturbata: “è sostenitore di un giudizio assoluto di intransigenza morale che impediva una normale convivenza sociale”. La sua posizione si fa sempre più grave: i Ray–bain con lenti graduate Zeiss trovati sul luogo dell’omicidio del tossicomane di Venezia sono dello stesso tipo e grado di quelle di Abel. La polizia di Monaco sequestra nella casa tedesca della famiglia un jeans Ufo uguale a quello trovato nella borsa incendiaria usata in discoteca. Il testo della rivendicazione decrittata a casa Abel è brutale: “Alla discoteca Liverpool non si scopa più: ferro e fuoco sono la punizione nazista. Sul luogo è stata lasciata una sveglia di marca Peter”. La signora Abel ammette che il figlio aveva una sveglia identica. Furlan, contraddicendosi, finisce per ammettere la sua presenza in Germania nel periodo della strage.
I due giovani in carcere tentano ripetutamente il suicidio. Nell’inverno 1986, durante il processo di primo grado, Furlan è per un mese in rianimazione. I periti escludono la sua subornazione. Per Augusto Bellone, docente di criminologia all’università di Bologna, i due si sono influenzati a vicenda anche se per un altro perito, Roberto Reggiani, è “difficile superare Abel come preparazione intellettuale e acutezza cerebrale”. Per il pm è una “follia collettiva a due senza un leader carismatico”, un caso di amicizia patologica. Nessuna incertezza invece sulle rivendicazioni, le dinamiche degli omicidi, l’unicità della matrice, l’ossessiva ritualità. Nonostante l’evidente vizio parziale di mente il pubblico ministero chiede l’ergastolo, ritenendoli colpevoli di otto dei dieci attentati, riconoscendo l’insufficienza di prove solo per il rogo di S. Giorgio e per l’omicidio dell’omosessuale. La condanna in primo grado è a trent’anni di carcere per gli ultimi cinque delitti: gli omicidi dei religiosi, i roghi nei locali pubblici. La sentenza registra in qualche misura un’effettiva cesura nella vicenda della setta – anche se le confessioni “greche” di Furlan finiscono per ridurre a semplici illazioni quelle che a prima evidenza sembrano le manifestazioni di diverse fasi di Ludwig. Fino al rogo di Verona – in cui per altro non è dimostrata l’intenzione omicida – è evidente la pulsione “epuratrice” della banda. Nel mirino dei giovani nazisti della Verona bene sono tutte figure della marginalità sociale: uno zingaro, una prostituta, un omosessuale, un tossicomane, un barbone. La sequenza sembra il prodotto di una selezione cosciente. Anche la scansione temporale e la distribuzione territoriale degli attentati sono omogenei: cinque azioni nell’arco di quattro anni, dall’agosto ’77 al maggio ’81, tre delle quali a dicembre, due volte a ridosso del solstizio di inverno, una nel decimo anniversario della strage di Piazza Fontana. La prima e l’ultima volta Ludwig colpisce a Verona, col fuoco, le altre tre uccide con armi bianche nei principali centri del Veneto (Padova, Venezia e Vicenza). La seconda fase di Ludwig si concentra in un anno: al ritmo più intenso si accompagna l’allargamento del raggio di azione (nell’ordine Vicenza, Trento, Milano, Monaco di Baviera, Castiglione dello Stiviere) e uno stravolgimento degli obiettivi e delle modalità operative. All’originario furore da “pulizia etnica” subentra una rapidissima, feroce campagna contro la Chiesa e poi per colpire il dilagante permissivismo la ricerca della strage nei santuari del divertimento di massa: il cinema a luci rosse, la discoteca, il veglione di Carnevale. Un’escalation in cui agli elementi lucidamente terroristici si accompagna un puritanesimo parossistico e pervertito. Anche accettando l’esistenza di un gruppetto di fanatici collaboratori intorno a Furlan e Abel – che trova numerosissimi riscontri nella vicenda processuale – genera dubbi sulla natura dell’amicizia tra i due e sul loro rapporto con la “normalità” la scelta del nome: una delle ultime opere cinematografiche di Visconti, negli anni ’70, è dedicata all’omonimo re di Baviera, sessualmente ambiguo e morto in manicomio, inseguendo il suo delirio di ricostruire la civiltà medievale. Anche dopo il loro arresto, Ludwig ha dato cenni di vita, rivendicando lo strangolamento di una ballerina del Ghana, Florende Adobea Addo (uccisa il 14 febbraio 1985) e di Giorgio Boninsegna, omosessuale trentaduenne, entrambi trovati cadaveri lungo la Serenissima. Nelle lettere è descritto il nodo Savoia usato, ma anche altri particolari ignoti sui precedenti delitti della banda. Il 9 maggio 1987 è arrestato a Verona un telefonista, Alberto Paterni, ventidue anni. Studente del quarto anno del Policlinico di Borgo Roma, figlio di un ufficiale dell’Esercito, Paterni è stato sorpreso mentre minacciava via telefono Salvatore De Marco, il perito grafologico che aveva incastrato Abel e Furlan. A casa sua è trovata una mascherina per disegnare le aquile e le svastiche di Ludwig. L’accusa è di minacce gravi e di procurato allarme. Le indagini sono estese inutilmente alla rivendicazione del rogo del cinema Statuto di Torino (64 morti). I due sono scarcerati per decorrenza termini il 16 giugno del 1988 e inviati al soggiorno obbligato, Abel a Mestrino, Furlan a Casale Scodosia. Alla vigilia della sentenza di Cassazione Furlan scappa in bicicletta, Abel si lascia catturare. Come tutti i grandi fenomeni criminali, Ludwig ha prodotto rischi di errore giudiziario e casi di emulazione. Le indagini avevano inizialmente coinvolto il professore Romano, uno statistico di Padova, che elaborando al computer i comportamenti criminali di Ludwig aveva ipotizzato un imminente attentato antiebraico. Il professore segnala il risultato delle sue ricerche al rabbino di Padova che, insospettito da tanta premura, lo denuncia alla polizia. È arrestato subito ma, in assenza di riscontri, è ben presto prosciolto. (2-fine)
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