Il piano Solo? Fu una sòla
Facebook uber alles. Ecco una recensione al volume I servizi segreti, il centro-sinistra e il “golpe” del 1964 di Mimmo Franzinelli, grande esperto di trame nere, che stavolta contesta la vulgata sulle manovre golpiste di De Lorenzo. Segue una breve nota di Giacomo Pacini, lo storico che ha scritto di Gladio e Ufficio Affari Riservati.
Piano Solo. Golpe o fabbrica del fango? di Massimiliano Griner
L’espressione “Piano Solo” fino a oggi aveva un significato univoco e sinistro. Era il nome del progetto eversivo che il comandante dell’Arma dei carabinieri, il generale de Lorenzo, aveva messo in cantiere nell’estate del 1964, sotto l’egida quirinalizia del presidente Segni.
“Solo”, perché a concretizzarlo sarebbe stata la sola Arma dei Carabinieri, di fresco dotata di una brigata corazzata e di un nuovo armamento, senza l’inutile peso dell’esercito che all’epoca era assai meno dinamico e moderno di quanto non sia oggi. A innescare il golpe, la paura che il controverso esperimento del centrosinistra, fortemente voluto da Moro in sintonia con Nenni, aprisse le porte al comunismo, e trascinasse il paese nel socialismo reale. Soprattutto a causa del “piano Giolitti”, che prevedeva di programmare la vita economica del paese neanche fossimo in Jugoslavia.
Il coup d’état non si concretizzò, perché, come si disse allora con felice espressione giornalistica, era stato sufficiente che i leader socialisti udissero il “tintinnar di sciabole” affilate da de Lorenzo, perché abbassassero le loro pretese, e appoggiassero un governo molto più centrista e moderato del previsto.
Questo almeno era quello che si pensava e si scriveva del piano Solo, che era dato per acquisito in letteratura, e guai a metterlo in discussione. Si rischiava di passare per reazionari, o peggio ancora, per cani da guardia di chissà quale partito del golpe.
Le prove del complotto, d’altronde c’erano tutte. Il piglio autoritario del presidente sardo, ossessionato dalla paura del comunismo, che costruiva relazioni dirette e fino ad allora inedite con i servizi segreti, quell’occhiuto SIFAR che aveva messo sotto osservazione un numero spropositato di politici, sindacalisti e intellettuali e si riprometteva di deportarli in Sardegna. E naturalmente l’ascesa irresistibile del suo capo, il generale col monocolo, che aveva usato il SIFAR come trampolino di lancio per l’assai più prestigiosa carica di primo carabiniere d’Italia.
Uomo temuto, de Lorenzo, più che rispettato. Per la sua ambizione personale, indubbiamente fortissima, la sua volontà di innovare e modernizzare, quel decisionismo che lo aveva messo in diretta rivalità con pezzi da 90 dell’esercito e dell’Arma stessa, per i rapporti che con grande abilità aveva saputo tessere con la classe politica democristiana, e in particolare con il presidente in persona. Facendo leva, si disse, sulla sua presunta fragilità senile. Il che aveva un sapore quasi di tradimento, perché de Lorenzo aveva preso parte alla resistenza militare, e agli inizi di carriera era pure gradito alle sinistre
E poi c’era appunto la creazione della brigata meccanizzata, da de Lorenzo fortemente voluta, dotata di carri armati che certamente non sarebbero serviti per dare la caccia ai malviventi. Non manca neppure la “pistola fumante”, in questa storia di una democrazia sotto ricatto: una riunione segreta in casa di un deputato DC minore, nel sonnolento quartiere romano della Balduina, dove i fautori del centrosinistra sono costretti, auspice il presidente, a incontrare de Lorenzo, perché ricordi loro che l’Arma vigila notte e giorno, e non accetterà avventure che compromettano l’ordine costituito.
Oggi finalmente un bel libro rompe questo quadretto che di storico non ha niente, e ricostruisce con usuale dovizia documentaria quello che realmente accadde nella lontana estate del 1964. Parliamo de Il piano Solo. I servizi segreti, il centro-sinistra e il “golpe” del 1964 di Mimmo Franzinelli (Mondadori, 2010, pp. 380, euro 20), che ha il pregio fin dal titolo di mettere la parola golpe tra virgolette.
Reduce da La sottile linea nera, uno studio sull’eversione e il neofascismo degli anni ‘70 che non aveva convinto chi scrive, perché sembrava ricalcare un’interpretazione obsoleta, in questa sua ultima fatica Franzinelli ci mette di fronte a una versione dei fatti che innovativa non è – Giano Accame, raccontando anni fa l’Italia dei colpi di stato aveva fatto giustizia da tempo del piano Solo –, ma è degna di grande interesse per la collocazione ideologica dello storico e perché ricca di documenti inediti.
Lo schema del saggio potrebbe ingannare, diviso com’è in tre parti, la prima tutta sul decadente SIFAR, impegnato in una sconsiderata attività di dossieraggio a danno di mezzo paese, il cosiddetto “scandalo dei dossier del SIFAR”, e la seconda a quello che accadde, giorno per giorno, in quella torbida estate del ‘64, una piêce di teatro dell’assurdo dove a muoversi sono alti papaveri della politica e generali, il “piano Solo”. Perché in effetti, a ben guardare, lo scandalo dei dossier del SIFAR e il piano Solo sono due episodi diversi, che hanno in comune solo una cosa. Il primo dei due scandali fu un prezioso lievito per far fermentare il secondo, e anzi, si può forse dire che senza la denuncia dell’attività impropria dei servizi segreti, questa davvero ignobile, nessuno avrebbe mai parlato di piano Solo.
Perché, come scopriamo nella parte più interessante del libro, la terza, il piano Solo non è mai stato un progetto di colpo di stato. Perché nell’estate del ’64 non si tentò nessun golpe, né intentona, né tintinnio di sciabole, e in definitiva la democrazia non fu affatto a rischio. Non almeno in quel periodo, e non certo a causa dell’ambizioso generale de Lorenzo.
Il Piano Solo fu semplicemente il protocollo che l’Arma avrebbe attuato se, come era avvenuto nell’estate del 1960 a Genova, la piazza fosse di nuovo insorta, sfuggendo di mano agli stessi capipopolo, e determinando una situazione questa sì di pericolo per la democrazia parlamentare. Fino all’elaborazione del piano Solo nessuno si era posto seriamente il problema di come contenere un’eventuale insurrezione di massa. Un evento tutt’altro che improbabile in un paese travagliato da una crisi politica senza precedenti e da un’economia che ormai si era lasciata alle spalle il boom e tornava a vedere nero, per tacere della situazione internazionale, dove la coesistenza pacifica tra le superpotenze sembrava essere dimenticata e i toni tornati quelli della guerra fredda. Il torto di de Lorenzo fu prendere atto del problema e tentare di darvi una risposta.
A convincere l’opinione pubblica che il protocollo fosse il primo passo di un processo eversivo fu una geniale e spregiudicata campagna giornalistica de «L’Espresso», voluta da Eugenio Scalfari, che ne comprese la spendibilità politica e attuata grazie alle abilissime doti di “segugio” di Lino Jannuzzi. Campagna subito rilanciata dalle colonne dell’«Astrolabio» dall’azionista Ferruccio Parri, incredulo di avere un argomento così ghiotto da agitare contro il “regime democristiano”.
Dipinto come golpista, progressivamente abbandonato dalla classe politica che pure aveva servito, de Lorenzo fu costretto a querelare i suoi detrattori, e il processo che lo opponeva al periodico di Scalfari divenne l’evento giudiziario della stagione ’67-’68.
Al processo si sommarono l’attività di molteplici commissioni di varia natura, una anche interna all’esercito, atte a far luce sui dossier del SIFAR e sugli accadimenti di quell’estate. Fu l’occasione perché antichi livori e rivalità della casta militare suscitati da de Lorenzo trovassero luogo d’espressione, con gran beneficio della pubblica opinione, che potè farsi un’idea del genere di individui che stavano ai piani alti delle forze armate e dei servizi di sicurezza. Di golpisti neppure l’ombra, in compenso abbondavano gli invidiosi, i mestatori, e soprattutto quelli che tenevano famiglia, e più che al sovvertimento delle istituzioni, miravano a scatti d’anzianità o illecite prebende.
In definitiva accadde quello che sempre succede con le nostre commissioni parlamentari d’inchiesta: i membri della maggioranza stilarono risultanze a favore delle strategie governative, quelli d’opposizione tirarono somme favorevoli agli obiettivi dell’opposizione, e la verità nella sua sintesi non si potè ottenere, in quella come in nessun’altra simile occasione.
De Lorenzo vinse la causa contro Scalfari e Jannuzzi – il tribunale sancì che i giornalisti avevano montato “una scandalosa e scandalistica campagna di stampa, ben conoscendo la falsità dell’assunto che intendevano accreditare presso l’opinione pubblica” – ma ormai il danno era fatto.
La campagna sul piano Solo aveva dimostrato che si poteva costruire un caso dal niente, a patto di saper combinare in modo creativo e ficcante una serie di elementi che circolavano, ma inerti, nel circuito massmediatico. Era una lezione destinata a attecchire, e a trasformare in modo decisivo quello che ancora oggi insiste a chiamarsi giornalismo d’inchiesta, ma che spesso è solo una forma di propaganda politica
E Nenni sponsorizzo De Lorenzo di Giacomo Pacini
Franzinelli ricorda un passaggio spesso ignorato; quando De Lorenzo fu "promosso" Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, proprio Nenni ne caldeggiò la nomina in virtù dei suoi meriti "resistenziali".
De Lorenzo fu certamente un personaggio ...autoritario ed accentratore (e che elevò all'ennesima potenza la pratica, "inaugurata" da Tambroni al ministero dell'Interno, della raccolta di dossier illegali su politici o semplici cittadini), ma non fu un golpista. Tra l'altro, fu proprio lui ad opporsi ai corsi di ardimento di Aloja ed a bloccare l'acquisto di 600 carri armati M-60A1 di fabbricazione americana già stabilito da Aloja.
I veri tintinni di sciabole erano da un'altra parte.....Mostra tutto
Se vai a vedere i nomi dei militari che nei primi anni sessanta proposero l'istituzione di una sorta di "Ispettorato" per la lotta anticomunista, vedi che erano tutti legati ad Aloja. In primis Magi Braschi. Sia chiaro; non parlo di golpismo..., ma di quell'area militare che avallò certe collaborazioni con settori (e sottolineo settori) dell'estremismo di destra. Le agenzie Oltremare ed i Giannettini, al Sid non ce li porta De Lorenzo....Mostra tutto
Piano Solo. Golpe o fabbrica del fango? di Massimiliano Griner
L’espressione “Piano Solo” fino a oggi aveva un significato univoco e sinistro. Era il nome del progetto eversivo che il comandante dell’Arma dei carabinieri, il generale de Lorenzo, aveva messo in cantiere nell’estate del 1964, sotto l’egida quirinalizia del presidente Segni.
“Solo”, perché a concretizzarlo sarebbe stata la sola Arma dei Carabinieri, di fresco dotata di una brigata corazzata e di un nuovo armamento, senza l’inutile peso dell’esercito che all’epoca era assai meno dinamico e moderno di quanto non sia oggi. A innescare il golpe, la paura che il controverso esperimento del centrosinistra, fortemente voluto da Moro in sintonia con Nenni, aprisse le porte al comunismo, e trascinasse il paese nel socialismo reale. Soprattutto a causa del “piano Giolitti”, che prevedeva di programmare la vita economica del paese neanche fossimo in Jugoslavia.
Il coup d’état non si concretizzò, perché, come si disse allora con felice espressione giornalistica, era stato sufficiente che i leader socialisti udissero il “tintinnar di sciabole” affilate da de Lorenzo, perché abbassassero le loro pretese, e appoggiassero un governo molto più centrista e moderato del previsto.
Questo almeno era quello che si pensava e si scriveva del piano Solo, che era dato per acquisito in letteratura, e guai a metterlo in discussione. Si rischiava di passare per reazionari, o peggio ancora, per cani da guardia di chissà quale partito del golpe.
Le prove del complotto, d’altronde c’erano tutte. Il piglio autoritario del presidente sardo, ossessionato dalla paura del comunismo, che costruiva relazioni dirette e fino ad allora inedite con i servizi segreti, quell’occhiuto SIFAR che aveva messo sotto osservazione un numero spropositato di politici, sindacalisti e intellettuali e si riprometteva di deportarli in Sardegna. E naturalmente l’ascesa irresistibile del suo capo, il generale col monocolo, che aveva usato il SIFAR come trampolino di lancio per l’assai più prestigiosa carica di primo carabiniere d’Italia.
Uomo temuto, de Lorenzo, più che rispettato. Per la sua ambizione personale, indubbiamente fortissima, la sua volontà di innovare e modernizzare, quel decisionismo che lo aveva messo in diretta rivalità con pezzi da 90 dell’esercito e dell’Arma stessa, per i rapporti che con grande abilità aveva saputo tessere con la classe politica democristiana, e in particolare con il presidente in persona. Facendo leva, si disse, sulla sua presunta fragilità senile. Il che aveva un sapore quasi di tradimento, perché de Lorenzo aveva preso parte alla resistenza militare, e agli inizi di carriera era pure gradito alle sinistre
E poi c’era appunto la creazione della brigata meccanizzata, da de Lorenzo fortemente voluta, dotata di carri armati che certamente non sarebbero serviti per dare la caccia ai malviventi. Non manca neppure la “pistola fumante”, in questa storia di una democrazia sotto ricatto: una riunione segreta in casa di un deputato DC minore, nel sonnolento quartiere romano della Balduina, dove i fautori del centrosinistra sono costretti, auspice il presidente, a incontrare de Lorenzo, perché ricordi loro che l’Arma vigila notte e giorno, e non accetterà avventure che compromettano l’ordine costituito.
Oggi finalmente un bel libro rompe questo quadretto che di storico non ha niente, e ricostruisce con usuale dovizia documentaria quello che realmente accadde nella lontana estate del 1964. Parliamo de Il piano Solo. I servizi segreti, il centro-sinistra e il “golpe” del 1964 di Mimmo Franzinelli (Mondadori, 2010, pp. 380, euro 20), che ha il pregio fin dal titolo di mettere la parola golpe tra virgolette.
Reduce da La sottile linea nera, uno studio sull’eversione e il neofascismo degli anni ‘70 che non aveva convinto chi scrive, perché sembrava ricalcare un’interpretazione obsoleta, in questa sua ultima fatica Franzinelli ci mette di fronte a una versione dei fatti che innovativa non è – Giano Accame, raccontando anni fa l’Italia dei colpi di stato aveva fatto giustizia da tempo del piano Solo –, ma è degna di grande interesse per la collocazione ideologica dello storico e perché ricca di documenti inediti.
Lo schema del saggio potrebbe ingannare, diviso com’è in tre parti, la prima tutta sul decadente SIFAR, impegnato in una sconsiderata attività di dossieraggio a danno di mezzo paese, il cosiddetto “scandalo dei dossier del SIFAR”, e la seconda a quello che accadde, giorno per giorno, in quella torbida estate del ‘64, una piêce di teatro dell’assurdo dove a muoversi sono alti papaveri della politica e generali, il “piano Solo”. Perché in effetti, a ben guardare, lo scandalo dei dossier del SIFAR e il piano Solo sono due episodi diversi, che hanno in comune solo una cosa. Il primo dei due scandali fu un prezioso lievito per far fermentare il secondo, e anzi, si può forse dire che senza la denuncia dell’attività impropria dei servizi segreti, questa davvero ignobile, nessuno avrebbe mai parlato di piano Solo.
Perché, come scopriamo nella parte più interessante del libro, la terza, il piano Solo non è mai stato un progetto di colpo di stato. Perché nell’estate del ’64 non si tentò nessun golpe, né intentona, né tintinnio di sciabole, e in definitiva la democrazia non fu affatto a rischio. Non almeno in quel periodo, e non certo a causa dell’ambizioso generale de Lorenzo.
Il Piano Solo fu semplicemente il protocollo che l’Arma avrebbe attuato se, come era avvenuto nell’estate del 1960 a Genova, la piazza fosse di nuovo insorta, sfuggendo di mano agli stessi capipopolo, e determinando una situazione questa sì di pericolo per la democrazia parlamentare. Fino all’elaborazione del piano Solo nessuno si era posto seriamente il problema di come contenere un’eventuale insurrezione di massa. Un evento tutt’altro che improbabile in un paese travagliato da una crisi politica senza precedenti e da un’economia che ormai si era lasciata alle spalle il boom e tornava a vedere nero, per tacere della situazione internazionale, dove la coesistenza pacifica tra le superpotenze sembrava essere dimenticata e i toni tornati quelli della guerra fredda. Il torto di de Lorenzo fu prendere atto del problema e tentare di darvi una risposta.
A convincere l’opinione pubblica che il protocollo fosse il primo passo di un processo eversivo fu una geniale e spregiudicata campagna giornalistica de «L’Espresso», voluta da Eugenio Scalfari, che ne comprese la spendibilità politica e attuata grazie alle abilissime doti di “segugio” di Lino Jannuzzi. Campagna subito rilanciata dalle colonne dell’«Astrolabio» dall’azionista Ferruccio Parri, incredulo di avere un argomento così ghiotto da agitare contro il “regime democristiano”.
Dipinto come golpista, progressivamente abbandonato dalla classe politica che pure aveva servito, de Lorenzo fu costretto a querelare i suoi detrattori, e il processo che lo opponeva al periodico di Scalfari divenne l’evento giudiziario della stagione ’67-’68.
Al processo si sommarono l’attività di molteplici commissioni di varia natura, una anche interna all’esercito, atte a far luce sui dossier del SIFAR e sugli accadimenti di quell’estate. Fu l’occasione perché antichi livori e rivalità della casta militare suscitati da de Lorenzo trovassero luogo d’espressione, con gran beneficio della pubblica opinione, che potè farsi un’idea del genere di individui che stavano ai piani alti delle forze armate e dei servizi di sicurezza. Di golpisti neppure l’ombra, in compenso abbondavano gli invidiosi, i mestatori, e soprattutto quelli che tenevano famiglia, e più che al sovvertimento delle istituzioni, miravano a scatti d’anzianità o illecite prebende.
In definitiva accadde quello che sempre succede con le nostre commissioni parlamentari d’inchiesta: i membri della maggioranza stilarono risultanze a favore delle strategie governative, quelli d’opposizione tirarono somme favorevoli agli obiettivi dell’opposizione, e la verità nella sua sintesi non si potè ottenere, in quella come in nessun’altra simile occasione.
De Lorenzo vinse la causa contro Scalfari e Jannuzzi – il tribunale sancì che i giornalisti avevano montato “una scandalosa e scandalistica campagna di stampa, ben conoscendo la falsità dell’assunto che intendevano accreditare presso l’opinione pubblica” – ma ormai il danno era fatto.
La campagna sul piano Solo aveva dimostrato che si poteva costruire un caso dal niente, a patto di saper combinare in modo creativo e ficcante una serie di elementi che circolavano, ma inerti, nel circuito massmediatico. Era una lezione destinata a attecchire, e a trasformare in modo decisivo quello che ancora oggi insiste a chiamarsi giornalismo d’inchiesta, ma che spesso è solo una forma di propaganda politica
E Nenni sponsorizzo De Lorenzo di Giacomo Pacini
Franzinelli ricorda un passaggio spesso ignorato; quando De Lorenzo fu "promosso" Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, proprio Nenni ne caldeggiò la nomina in virtù dei suoi meriti "resistenziali".
De Lorenzo fu certamente un personaggio ...autoritario ed accentratore (e che elevò all'ennesima potenza la pratica, "inaugurata" da Tambroni al ministero dell'Interno, della raccolta di dossier illegali su politici o semplici cittadini), ma non fu un golpista. Tra l'altro, fu proprio lui ad opporsi ai corsi di ardimento di Aloja ed a bloccare l'acquisto di 600 carri armati M-60A1 di fabbricazione americana già stabilito da Aloja.
I veri tintinni di sciabole erano da un'altra parte.....Mostra tutto
Se vai a vedere i nomi dei militari che nei primi anni sessanta proposero l'istituzione di una sorta di "Ispettorato" per la lotta anticomunista, vedi che erano tutti legati ad Aloja. In primis Magi Braschi. Sia chiaro; non parlo di golpismo..., ma di quell'area militare che avallò certe collaborazioni con settori (e sottolineo settori) dell'estremismo di destra. Le agenzie Oltremare ed i Giannettini, al Sid non ce li porta De Lorenzo....Mostra tutto
Nessun commento: