Armi in pugno: il Veneto di Casamassima tra rossi neri e nera
E' in libreria Armi in pugno, la storia del Nordest tra terrorismo, politica e criminalità, l'ultima fatica editoriale di Pino Casamassima (che è già al lavoro per sfornare un altro libro caldo, dedicato all'omicidio di Elisa Claps, la giovane uccisa 17 anni fa nel sottotetto della chiesa più "prestigiosa" di Potenza e il cui cadavere è stato ritrovato lo scorso mese di marzo). Il volume è edito da Stampa Alternativa, nella collana Senza finzione (coordinata da Simona Mammano e Antonella Beccaria):
Le Brigate Rosse, la prima volta che uccisero, lo fecero a Padova, la città che assisteva alla nascita dell’Autonomia organizzata e ai teoremi giudiziari che portarono al processo 7 aprile. Ma il Veneto fu anche la culla dell’eversione neofascista, quella di Ordine nuovo, che metteva le bombe sui treni e che inaugurò gli anni di piombo con la strage di piazza Fontana. E sempre nel Nord Est nacquero e si svilupparono fenomeni criminali autoctoni, come la mafia del Brenta di Felice Maniero. Un’area, raccontata in questo libro, che passò dalla miseria e dall’emigrazione alla prosperità economica coltivando alcuni dei fenomeni che hanno fatto la storia dell’intera nazione.Per l'occasione, aspettando di leggere il libro, ho posto qualche domanda a Pino Casamassina.
Il tuo libro è il primo testo che esplora a 360 ° l’universo della violenza in una regione italiana: terrorismo rosso e nero, criminalità organizzata, superviolenza. Ci sono a tuo giudizio ragioni specifiche che permettono di parlare di un caso Veneto, un’area territoriale passata in pochi decenni dal sottosviluppo all’opulenza e ora di nuovo attraversato dai venti della crisi e degli effetti della globalizzazione?
«Prima dell’unità d’Italia, il Veneto era la regione più ricca della penisola dopo il Regno delle due Sicilie. Nell’arco di un secolo, fra il 1870 e il 1970, è stata quella che ha subito il maggiore spopolamento, con 3 dei 5 milioni di veneti costretti a emigrare. Dagli anni ottanta il volano del Nord Est ha ripreso a girare grazie anche a un’economia fatta di microimprese impegnate soprattutto nel tessile e spesso sfuggenti alle maglie del fisco. La ritrovata prosperità economica su basi manifatturiere/industriali strideva però con un tessuto sociale sagomato su un’economia e una socialità prevalentemente agricola, facendo implodere alla lunga tutte le contraddizioni di una regione che stava inventandosi una storia tanto nuova quanto veloce e priva di memoria comune e accomunante. Alla fine, la regionalità veneta (con la sua cultura, le sue tradizioni) è scomparsa al grido di “liberi tutti”: liberi di agire (arricchirsi) come meglio si poteva. La società civile veneta si è quindi disgregata, favorendo lo sviluppo del polipo di una metastasi i cui tentacoli si nutrivano sovversione, eversione, criminalità. Il mondo contadino – nucleo centrale di quella regione, contrariamente ad altre regioni “ricche” del Nord, in primis Lombardia e Piemonte – non è stato sostituito dal mondo operaio, se non nella cattedrale chimica nel deserto di Marghera, e ciò ha favorito individualità senza riferimenti, senza “memoria”, senza “progetti” che non fossero legati a un perenne presente vissuto all’insegna del lusso: fase eccentrica del benessere: quel ben-essere riconquistato dopo il suddetto e devastante secolo».
Nell’intreccio e nel dispiegamento del terrorismo rosso e nero quanto hanno pesato il ruolo di marca di confine tra Est e Ovest e quanto invece dinamiche interne agli apparati di sicurezza italiani?
«Credo che tutti questi elementi ci siano, anche se bisogna fare delle distinzioni, riconoscendo ad esempio il ruolo dei servizi come attivo nel terrorismo stragista e passivo nella cosiddetta lotta armata. Gli ambienti della destra estrema ed eversiva veneta, oltre a essere stati pesantemente infiltrati dai servizi (come del resto quelli dell’ultrasinistra), sono stati di fatto “diretti” nelle loro azioni. (Basti pensare a quanto accadeva a Verona, dove in un appartamento di via Quattro spade si compiva l’addestramento per terroristi, fra cui il sedicente anarchico Bertoli, mentre in qualche caserma si catechizzavano reclute idonee al colpo di Stato). Sul fronte opposto, i servizi hanno fatto in modo che «le cose accadessero»: non c’era bisogno di un loro intervento, perché l’ideologia comunista armata aveva tutte le carte in regola per creare un serio problema allo Stato. Così come Dozier era stato liberato (perché non si poteva proprio farne a meno, a causa della preoccupante incazzatura del gigante americano: “Come è possibile – aveva tuonato Reagan – che quattro straccioni possano sequestrare un generale americano?”) grazie alla delazione di un brigatista da tempo intercettato e che aveva guidato il pullmino sul quale era stato caricato James Lee, si potevano anche evitare tutti i disastri precedenti e successivi compiuti dalle Br-Pcc. Lo stesso movimento dell’autonomia padovana poteva essere messo per tempo in grado di non nuocere, invece si preferì lasciare la briglia sciolta fino al 1979, consegnando i panni sporchi a Calogero, che nulla aveva capito. Per quanto riguarda poi la posizione strategicamente particolarissima del Triveneto nel contesto internazionale, la sola questione triestina è stata per decenni generatrice di tensioni declinati in attentati».
La guerra in Yugoslavia ha esportato armi e delinquenti soltanto o ha aperto anche nuovi mercati per la criminalità organizzata veneta (casinò, investimenti turistici)?
«Certamente c’è stato un incremento nello “scambio di criminalità”: dico scambio perché la dissoluzione della Jugoslavia ha fatto emergere dai singoli territori interni peculiarità specifiche. La Slovenia, ad esempio, è diventata la Las Vegas balcanica, con tutto quel che ne consegue relativamente al torbido mondo che ruota attorno ai casinò, hotel superlusso, bordelli più o meno mascherati, per non parlare dei cambiavalute: veri e propri squali del denaro prestato ad usura, come sa bene Felice Maniero, che aveva iniziato la sua attività criminale organizzata con la sua banda, taglieggiando quelli che pascolavano attorno al Casinò di Venezia. La Croazia ha invece puntato sul turismo, con quel che ne consegue sul piano della disinvolta circolazione di denaro sporco. Dulcis in fundo, dopo la fine della guerra, una quantità enorme di armi è stata riciclata sul mercato criminale passando, ovviamente, per il Veneto».
Si può parlare della banda del Brenta come espressione di un gangsterismo metropolitano sia pure espresso su un territorio diffuso e non con un unico grande polo urbano?
«È assolutamente così. Ma non solo. È appurato infatti il giro internazionale che Felice Maniero aveva messo in piedi attorno alla sua cosiddetta banda, facendola diventare di fatto un preciso punto di riferimento per una serie di “affari” che andavano dallo smercio della droga al controllo delle case da gioco, della prostituzione e quant’altro. Proprio per la sua posizione strategica (in Veneto), la banda del Brenta ha gestito in proprio i suoi loschi affari sul piano internazionale, contrariamente, ad esempio, alla banda della Magliana, la cui traffici extraromani venivano gestiti da Cosa nostra.
Ludwig: piccola setta, nazismo magico o semplicemente follia?
«Ho studiato il caso Abel e Furlan, e mi sono convinto che si trattava di due squilibrati le cui azioni sono state la tragica conseguenza di letture pericolose per chi, come loro, non era sufficientemente preparato sul piano storico/culturale. Prova ne sia, che non hanno mai avuto nessun collegamento con altre organizzazioni della destra eversiva veneta».
«Prima dell’unità d’Italia, il Veneto era la regione più ricca della penisola dopo il Regno delle due Sicilie. Nell’arco di un secolo, fra il 1870 e il 1970, è stata quella che ha subito il maggiore spopolamento, con 3 dei 5 milioni di veneti costretti a emigrare. Dagli anni ottanta il volano del Nord Est ha ripreso a girare grazie anche a un’economia fatta di microimprese impegnate soprattutto nel tessile e spesso sfuggenti alle maglie del fisco. La ritrovata prosperità economica su basi manifatturiere/industriali strideva però con un tessuto sociale sagomato su un’economia e una socialità prevalentemente agricola, facendo implodere alla lunga tutte le contraddizioni di una regione che stava inventandosi una storia tanto nuova quanto veloce e priva di memoria comune e accomunante. Alla fine, la regionalità veneta (con la sua cultura, le sue tradizioni) è scomparsa al grido di “liberi tutti”: liberi di agire (arricchirsi) come meglio si poteva. La società civile veneta si è quindi disgregata, favorendo lo sviluppo del polipo di una metastasi i cui tentacoli si nutrivano sovversione, eversione, criminalità. Il mondo contadino – nucleo centrale di quella regione, contrariamente ad altre regioni “ricche” del Nord, in primis Lombardia e Piemonte – non è stato sostituito dal mondo operaio, se non nella cattedrale chimica nel deserto di Marghera, e ciò ha favorito individualità senza riferimenti, senza “memoria”, senza “progetti” che non fossero legati a un perenne presente vissuto all’insegna del lusso: fase eccentrica del benessere: quel ben-essere riconquistato dopo il suddetto e devastante secolo».
Nell’intreccio e nel dispiegamento del terrorismo rosso e nero quanto hanno pesato il ruolo di marca di confine tra Est e Ovest e quanto invece dinamiche interne agli apparati di sicurezza italiani?
«Credo che tutti questi elementi ci siano, anche se bisogna fare delle distinzioni, riconoscendo ad esempio il ruolo dei servizi come attivo nel terrorismo stragista e passivo nella cosiddetta lotta armata. Gli ambienti della destra estrema ed eversiva veneta, oltre a essere stati pesantemente infiltrati dai servizi (come del resto quelli dell’ultrasinistra), sono stati di fatto “diretti” nelle loro azioni. (Basti pensare a quanto accadeva a Verona, dove in un appartamento di via Quattro spade si compiva l’addestramento per terroristi, fra cui il sedicente anarchico Bertoli, mentre in qualche caserma si catechizzavano reclute idonee al colpo di Stato). Sul fronte opposto, i servizi hanno fatto in modo che «le cose accadessero»: non c’era bisogno di un loro intervento, perché l’ideologia comunista armata aveva tutte le carte in regola per creare un serio problema allo Stato. Così come Dozier era stato liberato (perché non si poteva proprio farne a meno, a causa della preoccupante incazzatura del gigante americano: “Come è possibile – aveva tuonato Reagan – che quattro straccioni possano sequestrare un generale americano?”) grazie alla delazione di un brigatista da tempo intercettato e che aveva guidato il pullmino sul quale era stato caricato James Lee, si potevano anche evitare tutti i disastri precedenti e successivi compiuti dalle Br-Pcc. Lo stesso movimento dell’autonomia padovana poteva essere messo per tempo in grado di non nuocere, invece si preferì lasciare la briglia sciolta fino al 1979, consegnando i panni sporchi a Calogero, che nulla aveva capito. Per quanto riguarda poi la posizione strategicamente particolarissima del Triveneto nel contesto internazionale, la sola questione triestina è stata per decenni generatrice di tensioni declinati in attentati».
La guerra in Yugoslavia ha esportato armi e delinquenti soltanto o ha aperto anche nuovi mercati per la criminalità organizzata veneta (casinò, investimenti turistici)?
«Certamente c’è stato un incremento nello “scambio di criminalità”: dico scambio perché la dissoluzione della Jugoslavia ha fatto emergere dai singoli territori interni peculiarità specifiche. La Slovenia, ad esempio, è diventata la Las Vegas balcanica, con tutto quel che ne consegue relativamente al torbido mondo che ruota attorno ai casinò, hotel superlusso, bordelli più o meno mascherati, per non parlare dei cambiavalute: veri e propri squali del denaro prestato ad usura, come sa bene Felice Maniero, che aveva iniziato la sua attività criminale organizzata con la sua banda, taglieggiando quelli che pascolavano attorno al Casinò di Venezia. La Croazia ha invece puntato sul turismo, con quel che ne consegue sul piano della disinvolta circolazione di denaro sporco. Dulcis in fundo, dopo la fine della guerra, una quantità enorme di armi è stata riciclata sul mercato criminale passando, ovviamente, per il Veneto».
Si può parlare della banda del Brenta come espressione di un gangsterismo metropolitano sia pure espresso su un territorio diffuso e non con un unico grande polo urbano?
«È assolutamente così. Ma non solo. È appurato infatti il giro internazionale che Felice Maniero aveva messo in piedi attorno alla sua cosiddetta banda, facendola diventare di fatto un preciso punto di riferimento per una serie di “affari” che andavano dallo smercio della droga al controllo delle case da gioco, della prostituzione e quant’altro. Proprio per la sua posizione strategica (in Veneto), la banda del Brenta ha gestito in proprio i suoi loschi affari sul piano internazionale, contrariamente, ad esempio, alla banda della Magliana, la cui traffici extraromani venivano gestiti da Cosa nostra.
Ludwig: piccola setta, nazismo magico o semplicemente follia?
«Ho studiato il caso Abel e Furlan, e mi sono convinto che si trattava di due squilibrati le cui azioni sono state la tragica conseguenza di letture pericolose per chi, come loro, non era sufficientemente preparato sul piano storico/culturale. Prova ne sia, che non hanno mai avuto nessun collegamento con altre organizzazioni della destra eversiva veneta».
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