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60 anni e li dimostra - La destra radicale secondo Tassinari/2

E' stato presentato sabato a Salerno "Fuori dal cerchio-Viaggio nella destra radicale italiana", il bellissimo libro-intervista di Nicola Antolini di cui ho già abbondantemente parlato. Poiché, come mi faceva notare Miro Renzaglia, è poco elegante recensire i libri in cui sei tra gli intervistati (e l'osservazione, in questo caso, vale vieppiù per chi si vede riconosciuto dall'autore un particolare tributo, a partire dallo stesso nome dell'opera) ho deciso di fare il contrario. Sarò cioè io a far parlare Antolini di me, pubblicando la parte introduttiva del capitolo che mi riguarda. Perché ci sono tutte le qualità che fanno di Nicola un grande intervistatore: la curiosità, la pazienza velata di ironia, il piacere di ascoltare, lo sguardo laterale. Poiché il testo è proporzionato al fiume di parole con cui l'ho sommerso, e lui è stato bravissimo a non perdersi, l'ho diviso in due parti.  Qui potete leggere la prima
Un’analisi spietata, rispetto alla quale certe apparenti provocazioni di Tassinari, sembrano fare da corollario ideologico e culturale: il razzismo? Non ha bisogno dei fascisti, è diffuso. La destra di cui avere paura? È la destra di governo, che parla alla pancia del paese, conquista l’egemonia culturale e detta l’agenda politica. 
Una doppia lettura che affranca i fascisti di oggi dalla categoria del male assoluto e che nobilita le frange radicali che non si acconciano alla mini-rappresentanza identitaria (e alla spartizione dei contributi elettorali), che non si perdono nel macabro rito della caccia al diverso, e che basano il loro attivismo sulla quotidianità della presenza sul territorio. Un’analisi che mette la sinistra di fronte al dilemma di una crisi profonda: rimanere aggrappati a ciò che resta del baluardo dell’antifascismo, o (ri)cominciare a misurarsi con i problemi complessi dell’egemonia politica e culturale di questo paese?
Mi è sembrato interessante, parlare con Tassinari, per alcune ragioni specifiche:
la prima è che la sua attività di ricercatore e di autore, e l’archivio sterminato in cui raccoglie i nodi delle reti della ”fascisteria” passata e futura, fanno di lui, tecnicamente parlando, un esperto, un profondo conoscitore della materia e delle sue forme.
La seconda ragione è proprio questa sua condizione di frequentatore di fascisti, che fa di lui un’avanguardia operaista in terra straniera. Un’avanguardia, va detto, spesso rinnegata dai suoi stessi compagni, che lo accusano di intesa con il nemico o di esserne l’ostaggio inconsapevole che sconta la sua dannazione alla sindrome di Stoccolma. Accuse che l’autore mette sul conto e rimanda al mittente.
La terza, ma è un bluff perché l’ho scoperto solo durante l’intervista, è la sua capacità di spiazzare i problemi offrendo letture originali e per nulla scontate. Capacità di analisi che l’autore ritiene derivi dalla sua solida formazione marxista e materialista, che gli ha permesso di avvicinare il tema cercando di liberarsi dalle zavorre ideologiche per guardare alla sostanza delle vicende storiche e delle istanze politiche alle quali ha rivolto l’attenzione. 
Ho incontrato Tassinari due volte. La prima, a Bologna, a margine del dibattito sulla destra radicale e terminale che ha tenuto con Adinolfi. La seconda, a Pozzuoli, dove sono andato appositamente per stanarlo, e cercare di fargli concludere le considerazioni che aveva lasciato in sospeso la prima volta. Abbiamo parlato seduti al tavolino di bambu di un bar vicino al mare, dopo un’ora passata in macchina a scorazzare per la costa. “Ho scoperto che per fare bene un’intervista, bisogna cercare di rilassare l’interlocutore”, mi ha detto. E così mi ha portato un po’ in giro, tra chiacchiere e panorami esagerati, in una sorta di  bizzarro rovesciamento di ruoli tra intervistato ed intervistatore, durante i quale l’intervistatore si è molto rilassato, l’intervistato non so, ma mi è sempre sembrato a suo agio.
Quando, per riprendere il filo, gli ho rifatto l’ultima domanda che gli avevo fatto la volta precedente, a mesi di distanza, lui mi ha risposto allo stesso identico modo, quasi con le stesse parole. Ho capito che era sul pezzo. E che, come dice lui, ha una memoria prodigiosa (“maniacale e patologica”), e delle teorie di riferimento che lo orientano indifferentemente dallo spazio-luogo-tempo in cui si trova. Forse, è proprio la formazione marxista, che un tempo si faceva, ed oggi non si fa più.
(2-fine)

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