Sofri: e così cacciai D'Amato di casa
Poiché la mia decisione unilaterale di considerare conclusa la polemica sul caso Campanile Italicus non ha avuto seguito e la discussione è continuata in coda al post precedente, ritengo opportuno offrire a tutti il racconto dell'incontro tra Adriano Sofri e Umberto Federico D'Amato, pubblicato tre anni fa su Il Foglio. A me era sfuggito e me lo ha trasmesso un altro degli amici tirati nella discussione da Emanuel Campanile. Del resto, Sofri conferma il fatto che fossero i Nap a essere male intenzionati nei suoi confronti e non viceversa. Mi è stato quindi utile e piacevole leggerlo e così immagino sarà per qualche altra persona e comunque repetita Juventus...
Un po’ più di cinque anni dopo il 12 dicembre 1969 di piazza Fontana, rinominato (e anestetizzato) ormai ufficialmente Strage di stato, Federico Umberto D’Amato, già responsabile dell’ufficio Affari riservati, il più noto e influente titolare dei servizi italiani nel dopoguerra, mi chiese un incontro, tramite un conoscente comune, accampando una ragione privata. Non avendo io, né allora né mai, motivo per rifiutare di vedere qualcuno, consentii: trattandosi di un colloquio privato, e chiesto da lui, si sarebbe svolto a casa mia. Una sera D’Amato venne a casa mia.
Era un vecchio appartamento in un vicolo del rione Monti, che definire modesto è già troppo benigno, in cui abitai dal 1973 al 1976 con Randi, cani, e un perenne viavai di persone, come usava. D’Amato salutò galantemente Randi, che si sbrigò a lasciarci soli, e lo stesso fece il suo accompagnatore. La conversazione si trastullò per un po’, con un certo impegno da parte sua, uomo che sapeva (fin troppo) stare al mondo, e che sapeva ancor meglio che cosa Lotta continua pensasse e scrivesse di lui.
Meno impegnato, io consideravo quel balzacchiano gastronomo dall’eloquio forbito, dalla faccia irreparabile e dal profumo di barbiere. Mi sembrò che per un po’, come succede in certe circostanze, volesse mostrarsi persona di cultura. Avendolo io interrotto su un anello che spiccava su una mano assai curata, così madornale da sembrare d’ordinanza, me ne spiegò il legame – se la memoria non m’inganna – con la morte di sua moglie, e il fresco dolore che ne provava.
Quando lo invitai a venire al suo proposito, mi disse, con la stessa amabile naturalezza, che si trattava dei Nap, i Nuclei armati proletari. Che tutti sapevano come alcuni fra i loro membri avessero rotto con Lc accusandola di non voler passare alla lotta armata. Che erano pochi, che avrebbero continuato a seguire la loro natura di criminali comuni, contro lo stato, ma anche nuocendo gravemente a noi e al movimento in cui ci riconoscevamo. Che la normale repressione ne sarebbe venuta a capo, ma chissà in quanto tempo e dopo quanti guasti.
Che era dunque interesse comune toglierli fisicamente di mezzo (“Fisicamente?” “Fisicamente!”), ciò che avrebbe potuto avvenire con una mutua collaborazione e la sicurezza dell’impunità. Prima che finisse gli avevo indicato la porta, e lui la prese senza battere ciglio. Dunque quel signore non mi propose di prender parte a un omicidio, ma, seppure in un linguaggio da dopobarba, e senza avere il tempo di entrare nel dettaglio, un mazzetto di omicidii.
Quel linguaggio, e la brusca fine dell’intrattenimento, mi impediscono ancora oggi di decidere a che cosa davvero mirasse, benché comunque la provocazione fosse spettacolosa. Ecco. Misi a parte dell’episodio poche persone, che fossero in grado di capire e rispondere se la cosa avesse avuto seguiti imprevedibili. Non ne parlai pubblicamente: non avevo prove del tema (io non avevo congegni spionistici, forse lui sì) e nella pubblicità poteva magari risiedere la provocazione. Soprattutto, a parte l’impudenza, non c’era niente che fosse capace di meravigliarci nell’operato di D’Amato e dei suoi uffici: e caso mai è grossa che qualcuno mostri di meravigliarsene oggi.
Ci fu, qualche tempo dopo, una circostanza tragicomica: un paio di persone, che erano state a me molto legate, avevano aderito ai Nap e mi rinfacciavano di non approvare e anzi di non capeggiare la loro guerra – si leggevano i “Cent’anni di solitudine” in carcere, e io ero stato l’Aureliano Buendia dei loro sogni – mi tesero una specie di agguato alle porte di casa, che si tramutò in un parapiglia e poi si accontentò di uno scambio di insulti e di accenni di rimpianto.
Ripetei loro ancora una volta, e a ragion più veduta, quello che mi ero sforzato di dire dall’inizio della loro impazienza: che andavano allo sbaraglio, che lo stato giocava con loro come il gatto col topo, che avrebbero fatto male alla loro causa e perduto se stessi. Le stesse cose che si leggono sulle pagine del nostro giornale di allora. Fu quello che si consumò nella breve stagione dei Nap, autori di azioni sanguinose, e manovrati e trucidati senza scampo.
Fra loro persone specialmente generose, trascinate oltre e contro le proprie convinzioni da una solidarietà invincibile di compagni di galera e di lotta. Così, già nel 1974, il giovane Sergio Romeo e Luca Mantini in una rapina fiorentina seguita, se non promossa, dalle forze dell’ordine, e lasciata svolgere fino all’uccisione dei suoi autori. Così nella tragedia della sorella di Mantini. Così nell’attentato romano culminato nel “fuoco amico” che uccide Martino Zicchitella nel 1976. Così nell’esecuzione di Antonio Lo Muscio nel 1977. Questo dunque l’episodio cui avevo fatto cenno. “Perché ora?” Perché ora ho scritto a proposito di una memoria che, avendo lodevolmente cura di rendere giustizia a persone ed eventi trascurati o offesi o calunniati, inclina a una opposta deformazione.
Ho ricordato, benché non ce ne fosse bisogno, che lo stato di quegli anni Sessanta e Settanta aveva uomini e organi capaci di ogni illegalità e di veri crimini. Io non sono attaccato alle formule sistematrici, e piuttosto ne diffido: non sono affar mio né il “doppio stato”, né le “deviazioni”, né altre semplificazioni di una gran porcheria durata troppo a lungo. La mia “rivelazione” non rivela niente di più di quello che è evidente per mille prove: per me, fu un personale saggio di quello che sapevo.
D’Amato è morto, da dieci anni. Come succede, molti – troppi – lo protessero e ne furono protetti, a destra (soprattutto) ma anche a sinistra, e probabilmente strada facendo dimenticarono, come conviene, a chi convenisse. Ebbe anche lui parecchie vite, e molti lo frequentarono, anche persone degnissime, e trovarono delle buone e piacevoli ragioni per farlo: il mio carissimo amico Federico Bugno, per esempio, collega suo all’Espresso e compagno di gusti letterari e culinari. Resta che se con ogni uomo che muore è un’intera biblioteca che scompare, con D’Amato se n’è andato un intero archivio: e anzi, siccome non ci stava tutto, sepolto lui furono lasciati alla rinfusa nella via Appia 150 mila fascicoli non catalogati.
Adriano Sofri Il foglio, 29 maggio 2007
Un po’ più di cinque anni dopo il 12 dicembre 1969 di piazza Fontana, rinominato (e anestetizzato) ormai ufficialmente Strage di stato, Federico Umberto D’Amato, già responsabile dell’ufficio Affari riservati, il più noto e influente titolare dei servizi italiani nel dopoguerra, mi chiese un incontro, tramite un conoscente comune, accampando una ragione privata. Non avendo io, né allora né mai, motivo per rifiutare di vedere qualcuno, consentii: trattandosi di un colloquio privato, e chiesto da lui, si sarebbe svolto a casa mia. Una sera D’Amato venne a casa mia.
Era un vecchio appartamento in un vicolo del rione Monti, che definire modesto è già troppo benigno, in cui abitai dal 1973 al 1976 con Randi, cani, e un perenne viavai di persone, come usava. D’Amato salutò galantemente Randi, che si sbrigò a lasciarci soli, e lo stesso fece il suo accompagnatore. La conversazione si trastullò per un po’, con un certo impegno da parte sua, uomo che sapeva (fin troppo) stare al mondo, e che sapeva ancor meglio che cosa Lotta continua pensasse e scrivesse di lui.
Meno impegnato, io consideravo quel balzacchiano gastronomo dall’eloquio forbito, dalla faccia irreparabile e dal profumo di barbiere. Mi sembrò che per un po’, come succede in certe circostanze, volesse mostrarsi persona di cultura. Avendolo io interrotto su un anello che spiccava su una mano assai curata, così madornale da sembrare d’ordinanza, me ne spiegò il legame – se la memoria non m’inganna – con la morte di sua moglie, e il fresco dolore che ne provava.
Quando lo invitai a venire al suo proposito, mi disse, con la stessa amabile naturalezza, che si trattava dei Nap, i Nuclei armati proletari. Che tutti sapevano come alcuni fra i loro membri avessero rotto con Lc accusandola di non voler passare alla lotta armata. Che erano pochi, che avrebbero continuato a seguire la loro natura di criminali comuni, contro lo stato, ma anche nuocendo gravemente a noi e al movimento in cui ci riconoscevamo. Che la normale repressione ne sarebbe venuta a capo, ma chissà in quanto tempo e dopo quanti guasti.
Che era dunque interesse comune toglierli fisicamente di mezzo (“Fisicamente?” “Fisicamente!”), ciò che avrebbe potuto avvenire con una mutua collaborazione e la sicurezza dell’impunità. Prima che finisse gli avevo indicato la porta, e lui la prese senza battere ciglio. Dunque quel signore non mi propose di prender parte a un omicidio, ma, seppure in un linguaggio da dopobarba, e senza avere il tempo di entrare nel dettaglio, un mazzetto di omicidii.
Quel linguaggio, e la brusca fine dell’intrattenimento, mi impediscono ancora oggi di decidere a che cosa davvero mirasse, benché comunque la provocazione fosse spettacolosa. Ecco. Misi a parte dell’episodio poche persone, che fossero in grado di capire e rispondere se la cosa avesse avuto seguiti imprevedibili. Non ne parlai pubblicamente: non avevo prove del tema (io non avevo congegni spionistici, forse lui sì) e nella pubblicità poteva magari risiedere la provocazione. Soprattutto, a parte l’impudenza, non c’era niente che fosse capace di meravigliarci nell’operato di D’Amato e dei suoi uffici: e caso mai è grossa che qualcuno mostri di meravigliarsene oggi.
Ci fu, qualche tempo dopo, una circostanza tragicomica: un paio di persone, che erano state a me molto legate, avevano aderito ai Nap e mi rinfacciavano di non approvare e anzi di non capeggiare la loro guerra – si leggevano i “Cent’anni di solitudine” in carcere, e io ero stato l’Aureliano Buendia dei loro sogni – mi tesero una specie di agguato alle porte di casa, che si tramutò in un parapiglia e poi si accontentò di uno scambio di insulti e di accenni di rimpianto.
Ripetei loro ancora una volta, e a ragion più veduta, quello che mi ero sforzato di dire dall’inizio della loro impazienza: che andavano allo sbaraglio, che lo stato giocava con loro come il gatto col topo, che avrebbero fatto male alla loro causa e perduto se stessi. Le stesse cose che si leggono sulle pagine del nostro giornale di allora. Fu quello che si consumò nella breve stagione dei Nap, autori di azioni sanguinose, e manovrati e trucidati senza scampo.
Fra loro persone specialmente generose, trascinate oltre e contro le proprie convinzioni da una solidarietà invincibile di compagni di galera e di lotta. Così, già nel 1974, il giovane Sergio Romeo e Luca Mantini in una rapina fiorentina seguita, se non promossa, dalle forze dell’ordine, e lasciata svolgere fino all’uccisione dei suoi autori. Così nella tragedia della sorella di Mantini. Così nell’attentato romano culminato nel “fuoco amico” che uccide Martino Zicchitella nel 1976. Così nell’esecuzione di Antonio Lo Muscio nel 1977. Questo dunque l’episodio cui avevo fatto cenno. “Perché ora?” Perché ora ho scritto a proposito di una memoria che, avendo lodevolmente cura di rendere giustizia a persone ed eventi trascurati o offesi o calunniati, inclina a una opposta deformazione.
Ho ricordato, benché non ce ne fosse bisogno, che lo stato di quegli anni Sessanta e Settanta aveva uomini e organi capaci di ogni illegalità e di veri crimini. Io non sono attaccato alle formule sistematrici, e piuttosto ne diffido: non sono affar mio né il “doppio stato”, né le “deviazioni”, né altre semplificazioni di una gran porcheria durata troppo a lungo. La mia “rivelazione” non rivela niente di più di quello che è evidente per mille prove: per me, fu un personale saggio di quello che sapevo.
D’Amato è morto, da dieci anni. Come succede, molti – troppi – lo protessero e ne furono protetti, a destra (soprattutto) ma anche a sinistra, e probabilmente strada facendo dimenticarono, come conviene, a chi convenisse. Ebbe anche lui parecchie vite, e molti lo frequentarono, anche persone degnissime, e trovarono delle buone e piacevoli ragioni per farlo: il mio carissimo amico Federico Bugno, per esempio, collega suo all’Espresso e compagno di gusti letterari e culinari. Resta che se con ogni uomo che muore è un’intera biblioteca che scompare, con D’Amato se n’è andato un intero archivio: e anzi, siccome non ci stava tutto, sepolto lui furono lasciati alla rinfusa nella via Appia 150 mila fascicoli non catalogati.
Adriano Sofri Il foglio, 29 maggio 2007
Ma che bravo Sofri, che bravo compagno, lindo pulito e rosso...
RispondiElimina23 novembre 2009
Il giallo di Lotta Continua «made in Usa»
di Antonio Selvatici
Torna l’attenzione sul terrorismo degli anni Settanta: su quegli anni, «formidabili» per qualcuno, ma in realtà tragici, ancora oggi, vi sono degli aspetti non ancora chiari. O meglio, su cui probabilmente si è preferito non indagare a fondo. Riguardo Lotta Continua movimento politico vi è ancora una questione in sospeso che fino a oggi non ha avuto soddisfacente risposta. Perché il quotidiano Lotta Continua veniva stampato da una tipografia gestita da americani? Perché il movimento estremista, comunista, movimentista ed extraparlamentare che era contro la borghesia, contro le multinazionali e contro l’America imperialista usava una tipografia «made in Usa»?
Cosa c’entrano gli americani con il foglio Lotta Continua? Cosa c’entra l’intelligence statunitense con il noto quotidiano dove professionalmente si sono formati molti brillanti giornalisti? La stessa domanda la posi ad Adriano Sofri quando andai a intervistarlo. Mi mandò a quel paese. Attendo ancora una risposta. La questione è nota a pochi. Per ricostruirla occorre andare in Camera di commercio e chiedere la stampa delle visure societarie. Quindi legare gli sterili dati camerali agli avvenimenti del periodo. L’intera vicenda si svolge a cavallo degli anni Settanta quando «i berlingueriani non avevano più nulla da offrire alla classe operaia», di conseguenza non rimaneva che volgere lo sguardo sempre più a sinistra. Oltre il Pci. Per diffondere l’ideologia estremista in contrasto con quella più moderata e «ufficiale» di Botteghe Oscure, a partire dal 1969 vennero costituiti alcuni fogli «di lotta».
Tra i tanti, alcuni ebbero fortuna, altri, chiusero dopo pochi numeri. Lotta Continua inizialmente uscì a cadenza quindicinale, poi divenne un quotidiano. I militanti appresero la notizia della trasformazione del loro foglio di riferimento in quotidiano nell’agosto del ’71 nel corso di un affollato convegno che si tenne a Bologna. Come promesso (direttore Adele Cambria) l’11 aprile ’72 uscì il numero uno di Lotta Continua quotidiano (registrazione del Tribunale di Roma 14.442 del 13 marzo ’72). Aggressivo il titolo d’apertura della prima pagina: «Così i padroni della Dc si preparano alla guerra civile contro i proletari». Una nota importante: bisogna sapere che quasi sempre la società che «produce» un quotidiano non è la stessa che fisicamente lo stampa. Una cosa è l’editore, i giornalisti che scrivono, altra lo stampatore. La redazione del quotidiano militante si trovava a Roma in via Dandolo al civico 10. Anche la stampa si faceva nello stesso edificio: incaricata era la società Art Press. Una società a responsabilità limitata con oggetto sociale «l'esercizio dell'attività tipografica ed editoriale». L'Art Press venne costituita a Roma il 1° dicembre ’71, pochi mesi dopo l’annuncio fatto durante il convegno di Bologna. A sorpresa nella compagine societaria troviamo degli americani. Amministratore della piccola stamperia risulta essere Robert Cunnigham junior, nato nello Stato dell’Ohio. Nella stessa strada vi era la Dapco che stampava Daily American, il giornale degli americani a Roma, ancora una volta, amministratore era un Cunningham. Alla fine del ’75 il quotidiano Lotta Continua si trasferì in via dei Magazzini Generali al civico 32/a (direttore Enrico Deaglio). Cambiò sede e cambiò stampatore: questa volta i fogli scorrevano tra i rulli della Tipografia «15 Giugno» con sede nella stessa via, ma all’attiguo civico 30. Tra i soci della nuova tipografia, con una quota minoritaria, vi era anche il solito Robert Cunningham junior (insieme, tra l’altro, a Marco Boato).
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RispondiEliminaNon distante dalla Tipografia «15 Giugno» si trovava la società per azioni Rome Daily American che stampava in lingua inglese il quotidiano degli americani che vivevano in Italia. Per ribadire la liaison tra la via Dandolo e i legittimi interessi statunitensi, va segnalato che a partire dal dicembre 1982 allo stesso indirizzo dove si stampava Lotta Continua si insediò la società Am.P.Co. Srl, American Publishing Company, società a responsabilità limitata. E nuovamente troviamo Robert Cunnigham junior a ricoprire la carica di amministratore unico. Naturalmente avere ricoperto cariche societarie in società che stampavano il famoso quotidiano Lotta Continua non costituisce reato: ognuno è libero di spendere o investire soldi o tempo come meglio crede. Non mi meraviglia se uno o più membri della famiglia Cunningham abbiano amministrato o abbiano ricoperti altri incarichi in un’azienda che stampava il quotidiano Lotta Continua. Ciò che fa alzare il sopracciglio è la posizione della dirigenza, o di chi sapeva, in Lotta Continua. Come faceva il movimento extraparlamentare di sinistra a conciliare una politica apertamente anti-americana quando i soci della stamperia venivano da Oltreoceano?
IL GIORNALE ON LINE
Questa storia è vecchia. Io l'ho letta raccontata da Adinolfi. Il fatto che un giovane Cunningham stampasse o partecipasse alla società di stampa e un suo parente (o omonimo?) avesse analoga attività con il Daily American vuol dire molto poco.
RispondiEliminaIn quegli stessi anni nella sinistra insurrezionalista militavano figli e nipoti di editori, di ministri, di parlamentari, di banchieri, di industriali farmaceutici.
Centinaia di figli della buona borghesia si sono svenduti gli assi ereditari per finanziare il gruppo maoista "Servire il popolo".
Nessuno all'epoca pensava che fossero manovre del capitale o del mondo delle professioni per controllare o infiltrare il movimento rivoluzionario.
E comunque, per quanto possa pesare il giovane americano, quando si parla del quotidiano Lotta Continua, bisogna, per pudore, per rispetto, mettere sull'altro piatto della bilancia i distributori morti nel trasporto del giornale, i compagni del lavoro illegale che hanno messo in gioco la loro vita per finanziarlo, i sacrifici di migliaia di militanti e di proletari che gli hanno dato vita e senso.
PS: A scanso di equivoci. Non ho mai militato in Lotta Continua e la peggiore sveglia l'ho beccata (in modo infame) da uno del servizio d'ordine di Lc. Ma non si può confondere sempre la merda con la cioccolata.
Adinolfi è più preciso:
RispondiEliminahttp://www.blogpolitica.it/2010/02/09/lintervista-con-gabriele-adinolfi/
"Addirittura il gruppo leader, Lotta Continua, che stampava un quotidiano, aveva tra i suoi soci fondatori il futuro braccio destro di Ronald Reagan per la politica americana in Europa, Robert Hugh Cunningham Jr".
Quanto a questo, nel suo piccolo, il corrispondente da Napoli ha fatto una bella carriera: dal Sabato al Giornale ai vertici Mediaset: Paolo "Straccio" Liguori
Il capataz dei periodici Mondadori, Briglia, proviene invece dai ranghi del servizio d'ordine.
"E comunque, per quanto possa pesare il giovane americano, quando si parla del quotidiano Lotta Continua, bisogna, per pudore, per rispetto, mettere sull'altro piatto della bilancia i distributori morti nel trasporto del giornale, i compagni del lavoro illegale che hanno messo in gioco la loro vita per finanziarlo, i sacrifici di migliaia di militanti e di proletari che gli hanno dato vita e senso."
RispondiEliminaGuarda UMT, sì, sì, sono 'tutte storie vecchie' ma i morti di LC li ricorda Grimaldi, ma proprio per sottolineare la disonestà e il ruolo poco chiaro del sopravvalutato Sofri.
Cunningham non era un rampollo spiantato, ma un dirgente del Partito Repubblicano USA. Sarà uno dei responsabili della campagna elettorale di Reagan, dalla tolda del suo Daily American, o come si chiama (e parliamo del 1980).
Alessandro
Alessandro, io comunque ho un pregiudizio negativo per "Il Giornale"
RispondiEliminaSofri come la maggior parte dei dirigenti di Lotta continua, era figlio uscito da lombi borghesi e non proletari, per la precisione di un ammiraglio, borghesia marcia.Aveva esordito da giovane rimproverando Togliatti di non fare la rivoluzione al che il "migliore" replicò che la doveva fare lui la rivoluzione...il giovane rampollo rispose che lo avrebbe fatto! Stiamo ancora aspettando ...la rivoluzione proletaria, nel frattempo, dopo aver visto suo figlio apparire (poi sparire spero per sempre)in televisione con Ferrara, con la stessa spocchia,lo stesso sussiego del padre, scrivere sul quotidiano radical chic di Scalfari, ex-fascista, ex-socialista, ex-tutto.. poi per finire come dimenticare la campagna mediatica condotta a favore del povero malato innocente che soffre in carcere, (innocente lo è come Eva Henger è illibata), dai vari ex-sessantottini alla Pannella, alla Liguori, alla Ferrara, puah che schifo!
RispondiEliminaHo passato io a umt un parere richiesto privatamente a adriano sofri su una vicenda dolorosa e irrisolta. Inutile accalorarsi ,lombi,stracci, ammiragli, cunningham, manca inigo campioni e la battaglia di punta stilo, per fortuna c’è reagan.. a proposito vi passo una notizia vera: si è detto che reagan nell’ultimo periodo della sua vita abbia avuto la demenza di alzheimer, bè è falso. Ha avuto una fibrillazione atriale cronicizzata e i suoi medici non l’hanno scoagulato in tempo col warfarin ( o l’acenocumarolo) e così una spruzzata di emboli gli ha ridotto il cervello in pappa in pochi mesi. Ma questo è un rischio relativo, come diceva il commendator morini a chi lo esortava a frazionare la mitica monocilindrica 250 :“quello che non c’è non si può rompere”, inutile accalorarsi dicevo, tanto sofri non vi legge.
RispondiEliminaalessandro smerilli
Certo non ci legge, é troppo impegnato a piazzare il figlio, (dopo essere convolato a giuste nozze, con un altra stella della televisione la Bignardi) presso qualche televisione (magari a fianco di Ferrara) e non mandarlo in miniera...!Gridava ai bei tempi:"fascisti borghesi ancora pochi mesi"...siamo ancora in attesa della rivoluzione proletaria, nel frattempo gli ex-lotta continua sono stati tutti assunti da Berlusconi!
RispondiEliminaSei quell'Ephifanius di "Comunismo e comunità"? Ciao, io sono Davide...
RispondiEliminaCiao Davide, io sono Ephyfanius ad origine controllata, quello di Comunismo e comunità" che ho trovato io, è Epifanio; non confondiamo la seta con la lana....ma a meno che non mi sia sfuggito un omonimo nel quale caso siamo due persone diverse, che smanettano sul computer!
RispondiEliminaNo, direi che sono tre. Perché io ricordo che usa questo nom de plume la coppia di intellettuali cattolico-integralisti che produce la bibbia italiana del complottismo, un volumone imperdibile su massoneria e sette segrete
RispondiElimina...mettendo a posto il mio archivio ho trovato una pubblicazione di Lotta Continua che taglia - come si diceva prima dell'avvento animalista - la testa al toro: è un grazioso elenco in ordine alfabetico corredato da foto "segnaletiche" di giovani e vecchi fascisti e/o missini e/o estremisti... beh, Sofri manco ci pensa: ammazzare un fascista non è reato, perciò lui non ha fatto niente di male... aggiungo soltanto una cosa: c'è un preciso spartiacque tra chi ha preso qualche schiaffone o addirittura li ha visti nei documentari e chi ha messo sul piatto la propria vita...
RispondiEliminaSofri e tutto il culturame sinistroide dell'epoca ha avvelenato e intossicato l'anima di qualche centinaio di migliaia di giovani...intere generazioni alle quali veniva detto:"compagni la resistenza c'è l'ha insegnato, uccidere un fascista non è reato"!Fosse per me avrei buttato la chiave...lasciandolo marcire in galera, ma non si può fare,tutti i reduci sessantottini si sono mobilitati per lui,alcuni facce toste hanno sostenuto che molta acqua era passata sotto i ponti e quindi doveva essere liberato. Allora spiegatemi perché un ultranovantenne Erich Priebke, l'ultimo superstite prigioniero di guerra del secondo conflitto mondiale, è tuttora in cattività!!
RispondiEliminaSofri non mi è né parente né amico ma merita rispetto, al di là della naturale antipatia che suscita (come Enzo Tortora): non si è sottratto né al processo né alla pena e se è stato scarcerato è perché gli è schiattata una vena in gola e ci stava rimanendo.
RispondiEliminaColgo l'occasione, visto che questa vicenda, per la prima volta nella brevissima storia del blog, suscita diatribe per ricordare a tutti che questo è uno spazio liberissimo ma che il titolare del blog gradisce il rispetto di alcune regole elementari:
si denuncia l'errore e non l'errante
si rispetta l'avversario
si mantengo bassi i toni perché già di suo la materia è incandescente