Quel miliziano oltre le linee
Sugli Altri di questa settimana, da oggi in edicola e (si spera presto) online c'è questo mio articolo su Giovanni Ventura, un miliziano oltre le linee, per usare la nobile definizione del suo compagno di lotta. Più tardi pubblicherò un post sul sodalizio rivoluzionario di Freda.
Quella mattina di dieci anni fa, quando i carabinieri si sono presentati a casa sua per notificargli l’ordine di carcerazione per scontare la pena residua per il Fronte nazionale, anche un aristocratico come Franco Freda, che si è imposto come cifra stilistica la divina indifferenza alle cose terrene, per un attimo, per un attimo solo, ha ceduto al suo sangue meridionale e si è fatto attraversare la mente, affilata dalle frequentazioni con Nietzsche e Platone, da un dubbio volgare: “Ma allora è proprio vero che Giovanni porta sfiga”.
Sì, perché a rompere la routine monastica del suo buen ritiro brindisino era arrivato proprio il giorno prima, dalla lontana Argentina, l’antico compagno di tante (dis)avventure giovanili, il complice, il coimputato che la povertà intellettuale dei gazzettieri aveva improvvidamente elevato a suo pari in una endiade diventata l’antonomasia delle trame eversive degli anni Settanta.
Freda e Ventura alias la cellula nera veneta, l’infinito processo per la strage di piazza Fontana. E ancora oggi, in morte dell’amico Giovanni, i “venditori di chiacchiere” non hanno potuto fare a meno di riesumare la strana coppia, all’apparenza così mal assortita: l’uno alto, slanciato, bello, femminaiuolo, dotato di naturale carisma e di indefettibile supponenza; l’altro grassottello, goffo, insicuro, lacerato dai dubbi e dai ripensamenti, chiacchierone più per angoscia che per vanagloria.
E in effetti una buona fetta delle comuni disgrazie giudiziarie, dal primo arresto del 1971 alla condanna definitiva per associazione sovversiva e gli attentati non mortali del 1969, le aveva procurate il suo inconculcabile bisogno di parlare. Dalle confidenze a un amico di collegio, subito dopo la strage di Milano, sul suo coinvolgimento nel programma bombarolo che stava insanguinando l’Italia, nasce la prima inchiesta sull’eversione veneta. Poiché il professore Lorenzon, quadro democristiano mite e civile, era stato pronto a riferirle ai giudici trevigiani. Così anche in prigione le ammissioni di Ventura avevano irrobustito il filone d’indagine, tanto da mettere in allarme i servizi segreti che, dopo aver mandato all’estero un paio di complici della strana coppia, il bidello patavino Pozzan e il giornalista a stipendio del Sid Giannettini, si stavano dando da fare per organizzarne l’evasione dal carcere di Monza.
Alla fine, e questo gli fa onore, Freda non ha mai mollato il suo amico di gioventù, giustificando in qualche modo le sue condotte processuali altalenanti e decisamente disdicevoli per uno che si è preso la briga di partecipare a centinaia di udienze senza mai sedersi, per rimarcare la sua abissale distanza dal rito e dalla messa in scena giudiziaria. Del resto, anche con Giannettini, che di mestiere faceva la spia, Freda è stato più che indulgente: assicurandogli il suo ombrello protettivo in carcere, in tempi e luoghi dove una coltellata non si negava a nessuno, ribadendo ancora pochi anni fa che sì il giornalista era stato un infiltrato, ma al contrario, una pedina del gruppo rivoluzionario che si era audacemente spinto in territorio nemico, per raccogliere notizie e condizionare gli apparati delle nemica repubblica italiana.
E in fin dei conti, anche l’imbranato Ventura i suoi servigi alla rivoluzione nazionale li aveva forniti. Fin dal 1966 quando, poco più che ventenne, aveva collaborato con Freda a una campagna di mailing, diretta a duemila ufficiali della Difesa, tesa a diffondere tesi “interventiste” in una fase in cui lo stallo riformista di un centrosinistra svuotato di ogni spinta dal “tintinnar di sciabole” dell’estate 1964, non giustificava nessun allarme anticomunista. Poi la comune bibliofilia li aveva portati a una parallela iniziativa, con l’apertura di libreria e casa editrice a Padova (Freda: Ezzelino e Ar) e Treviso (Ventura: Galileo).
Meno esposto, meno visibile, a Ventura, grazie al sostegno di un altro formidabile personaggio, Guido Lorenzon, noto come il “conte rosso”, [stavolta la matita rossa scatta per me: il conte rosso è Piero Loredan, la segnalazione è di Monica Zornetta, che ringrazio, ndb] era stata affidata l’impresa tipografica che avrebbe costituito uno degli snodi fondamentali del progetto rivoluzionario di Freda. Sulla falsariga della Jeune Europe, il gruppo internazionale di Jean Thiriart, che praticava uno spregiudicato rapporto tattico con i gruppi maoisti in chiave antiamericana e antisovietica, anche la cellula nera veneta entrò in contatto con una delle tante frazioncine nate dalla scissione del partito comunista d’Italia (marxista-leninista). Ventura, utilizzando l’esca della disponibilità di un grande stabilimento tipografico, aveva agganciato un paio di partigiani stalinisti (tra cui una medaglia d’argento che poi fu accusato in un volume di controinformazione di aver avuto contatti con i servizi segreti britannici) probabilmente interessati ai benefici piuttosto che alle confuse idee politiche del giovane imprenditore che si dichiarava genericamente di sinistra. Pronti, a ogni modo, i due eroi della Resistenza, all’esplodere dell’inchiesta giudiziaria, a sconfessare Ventura, che dietro la nuova identità politica si trincerava per respingere le accuse, e a sostenere, con grande determinazione, che loro gli avevano dato spago per smascherare le trame nere. Comunque sia, nella conferenza stampa del loro gruppetto stalinista per la prima volta fu esplicitamente associata la rete neofascista veneta e il controspionaggio americano.
Qualche frequentazione di sinistra, comunque, Ventura effettivamente nei mesi che precedono la strage di piazza Fontana ce l’ha, tant’è che le armi a lui affidate (e di cui parla diffusamente l’esperto ‘amerikano’ Carlo Digilio, che a Ventura fornisce consulenza e supporto tecnico) passano poi per le mani di un paio di esponenti locali del partito socialista.
Tenterà inutilmente di accreditarsi con i giudici come uomo di sinistra, facendosi schermo delle veline del Sid sui gruppi extraparlamentari scritte da Giannettini e da lui custodite in una cassetta di sicurezza, ma alla fine Ventura resterà inchiodato al suo ruolo di spalla (per di più sfigata) di uno dei maggiori talenti intellettuali della destra radicale europea del dopoguerra. Assolti entrambi dai giudici naturali dall’accusa di strage ma condannati a passare alla storia come i responsabili di piazza Fontana per due righe inserite nella motivazione dell’ultima sentenza, che a sua volta scagiona gli ordinovisti veneti Maggi e Zorzi e il milanese Rognoni. Consegnandoci come unico condannato (prescritto) lo spione pentito Digilio.
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