Freda e la massomafia: una bufala -2
Nella discussione sulla rivolta di Reggio, un "lettore abituale" mi sollecita ad affrontare il tema degli intrecci tra ndrangheta e fascisteria. E' notoria la mia distanza da culti e culture criptologiche che tanto appassionano molti miei colleghi. Così dieci anni fa, affrontando la questione in "Fascisteria" ridimensionavo la portata delle rivelazioni di pentiti sulla presenza di uno dei leader più noti della destra radicale nella cosiddetta massomafia. Il capitolo è lungo ma nella buona sostanza è ancora valido l'intero discorso. Mancano ovviamente i riferimenti agli esiti processuali della maxinchiesta, che sono successivi alla pubblicazione. Lo ripropongo quindi qui, asciugato di alcune minuzie che lo appesantiscono, diviso in tre parti per esigenze fisiche dei lettori. Questa è la seconda parta. Qui si può leggere la prima.
L’inchiesta sulla fuga di Freda trae nuovo slancio dal pentimento di uno degli ‘ndranghetisti che lo aveva ospitato nei sei mesi di soggiorno italiano, Filippo Barreca, già assolto per insufficienza di prove nel maxiprocesso sugli appalti per Gioia Tauro. Per uscire dal carcere era riuscito a farsi diagnosticare un tumore inesistente: “Un giorno – ha raccontato al pm della DNA Enzo Macrì – Paolo Martino venne a casa mia insieme a Franco Freda. Mi disse che lo mandava Paolo De Stefano e che dovevo ospitare il latitante per una ventina di giorni. Vennero a trovarlo a casa mia Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Sapevo da varie fonti che l’avvocato Romeo era massone e apparteneva a Gladio. Egli inoltre era collegato con i servizi segreti, ma non so dire in che modo”. Con l’avvocato Romeo e i fratelli De Stefano siamo nel cuore della connection.
L’avvocato era stato arrestato nel 1980 e processato con la moglie per favoreggiamento di Freda: nel 1992, eletto deputato con il PSDI, diventa segretario della commissione di vigilanza Rai e riceve una richiesta di autorizzazione a procedere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i pentiti sarebbe stato lui, leader della rivolta e dirigente di AN a promuovere l’incontro tra il comandante Borghese e i fratelli De Stefano per sancire il patto ‘ndrangheta–eversione nera. I De Stefano (entrambi uccisi nelle guerre di ‘ndrangheta che insanguinano Reggio dalla seconda metà degli anni ‘70 agli inizi degli anni ‘80: Giorgio dagli eredi di don Momo Tripodo, Paolo dai killer dei Condello, ex alleati) erano personaggi di assoluto rilievo, accusati di contatti sistematici con i bravi ragazzi della Magliana (Paolo è anche coimputato del “banchiere” della banda, Enrico Nicoletti), sospettati per l’Anonima sequestri che aggregava marsigliesi, terroristi neri ed elementi collegati con la massoneria “coperta”. Secondo i “pentiti” sarebbe stato don Paolo a istigare e garantire l’alleanza strategica tra eversione nera e ‘ndrangheta: il boss – raccontano agli inquirenti – disse che dovevamo prepararci alla guerra civile e infiltrarci nella rivolta per pilotarla. Giorgio è accusato di aver commissionato nel1973, a rivolta abbondantemente consumata, un attentato terroristico contro l’Upim. Ad accompagnare Freda a Reggio sarebbero stati due massoni legati ai servizi segreti: un ufficiale medico del Sismi, figlio di un amico del generale De Lorenzo, e un dipendente del museo di Santa Croce di Gerusalemme. Il superlatitante sarebbe stato ospitato da più ‘ndranghetisti prima di spostarsi a Ventimiglia, tappa di avvicinamento alla Francia, da dove avrebbe preso il volo per il Costarica. Il suo arresto è merito di Filippo Barreca, autore della “soffiata” giusta. Nel centro ligure Freda sarebbe stato ospite di un calabrese già segnalato in un vecchio rapporto della Finanza per i contatti con Freda e accusato da Barreca di essere al tempo stesso ‘ndranghetista e massone (anni prima il boss dei marsigliesi Bergamelli era stato segnalato come frequentatore di una loggia nella città di confine). Gli inquirenti indicano come prova documentale una lettera di ringraziamento di Freda a componenti del clan De Stefano per l’appoggio ricevuto, elemento che è piuttosto a discarico: è notoria la sua concezione monastica della disciplina organizzativa – tanto che per un lungo periodo nella corrispondenza dei detenuti è definito antonomasticamente il Priore – e quindi Freda si sarebbe ben guardato dal ringraziare dei subalterni. Una lettera di ringraziamento a persone nei confronti dei quali si sente in obbligo e che viola palesemente le norme di sicurezza rientra invece perfettamente nella sua concezione di stile. Uno stile che l’ha portato a subire un’aggressione in carcere dai camerati (nel maggio 1982) per aver espresso cordoglio alla vedova del direttore del carcere di Novara (goccia che fa traboccare il vaso in una situazione di mobilitazione crescente degli “spontaneisti” contro la vecchia guardia compromessa con i servizi segreti e i progetti golpisti). Leader emergente tra i detenuti di Novara è Marcello Jannilli, responsabile militare del Movimento rivoluzionario popolare. Colto, di buone letture, invita i camerati ad appropriarsi della teoria dell’entropia. Il manuale di Rifkin, però, nessuno riesce a finirlo. Espertissimo artificiere, Jannilli trascorre gran parte del suo tempo in cella a studiare come fabbricare la bomba atomica. Nelle ore di socialità si affanna a divulgare il suo progetto. Con grande opportunismo tattico ogni volta ne cambia le finalità: quando parla con i “bucolici” la destinazione è un attentato contro la metropoli, ai “mercenari” assicura che servirà per la più grande rapina della storia. Con i fissati della “geopolitica” si avventura in una più precisa descrizione del progetto: una mongolfiera si leverà in volo sul confine tra le due Germanie e lascerà cadere la bomba, innescando un conflitto di immani proporzioni tra Est ed Ovest. Al suo termine, armati di lance e frecce, i “nuovi indiani” (anche Jannilli è un discepolo di Lele Macchi) si sarebbero lanciati, cavalcando, alla conquista degli immensi spazi della pianura europea, disabitati dopo la catastrofe. Ai componenti della più stretta cerchia confida la verità esoterica. La Terra è circondata da asteroidi dai quali sta per partire un’invasione di extraterrestri e bisogna attrezzarsi per la battaglia finale. Questa evidente paranoia non gli garantirà l’impunità giudiziaria (nel processo Ordine nuovo bis deve rispondere di tutti gli attentati dinamitardi del Mrp e dell’omicidio di un vigilante nel corso di una rapina) e per evitare l’ergastolo deve ricorrere a una prosaica dichiarazione di dissociazione. All’epoca, però, Jannilli è il più duro dei duri: mentre Giuliani accoltella Freda (che limita i danni grazie al busto ortopedico) lui stesso “dà una lezione” a Fachini nel carcere di Rebibbia. L’altro ispiratore della campagna “antifascista” è Calore, che mantiene rapporti con Freda e le edizioni di AR anche dopo l’accoltellamento.
L’avvocato era stato arrestato nel 1980 e processato con la moglie per favoreggiamento di Freda: nel 1992, eletto deputato con il PSDI, diventa segretario della commissione di vigilanza Rai e riceve una richiesta di autorizzazione a procedere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i pentiti sarebbe stato lui, leader della rivolta e dirigente di AN a promuovere l’incontro tra il comandante Borghese e i fratelli De Stefano per sancire il patto ‘ndrangheta–eversione nera. I De Stefano (entrambi uccisi nelle guerre di ‘ndrangheta che insanguinano Reggio dalla seconda metà degli anni ‘70 agli inizi degli anni ‘80: Giorgio dagli eredi di don Momo Tripodo, Paolo dai killer dei Condello, ex alleati) erano personaggi di assoluto rilievo, accusati di contatti sistematici con i bravi ragazzi della Magliana (Paolo è anche coimputato del “banchiere” della banda, Enrico Nicoletti), sospettati per l’Anonima sequestri che aggregava marsigliesi, terroristi neri ed elementi collegati con la massoneria “coperta”. Secondo i “pentiti” sarebbe stato don Paolo a istigare e garantire l’alleanza strategica tra eversione nera e ‘ndrangheta: il boss – raccontano agli inquirenti – disse che dovevamo prepararci alla guerra civile e infiltrarci nella rivolta per pilotarla. Giorgio è accusato di aver commissionato nel
Lasciano comunque fortemente perplessi le rivelazioni di Lauro sulla costituzione a Reggio e Catania, nel 1979, di due logge massoniche supersegrete con uomini di punta della criminalità organizzata e dell’eversione nera. Le informazioni di Lauro sono più precise per quel che riguarda la loggia reggina, che avrebbe avuto al vertice Paolo De Stefano e Romeo. “Tutto avvenne – ha raccontato Lauro – in coincidenza con l’arrivo a Reggio dell’estremista di destra Franco Freda. Gli organizzatori della loggia furono lui e Romeo. Un’altra loggia con le stesse caratteristiche era stata costituita nello stesso periodo a Catania. L’obiettivo era comune: un progetto eversivo di carattere nazionale che doveva essere la prosecuzione di quello iniziato negli anni Settanta con i moti per Reggio capoluogo. Anche quello prendeva le mosse dalla stessa città e avrebbe dovuto investire tutta Italia”. Qualche mese dopo, nell’autunno 1979, con ambizioni simili sbarca in Sicilia Michele Sindona. Alla loggia reggina avrebbero aderito i capi della ’ndrangheta (i De Stefano, Peppino Piromalli, Antonio Nirta), estremisti di destra (Romeo, Giovanni Criseo, poi ucciso, Benito Sembianza, il leader calabrese di AN Fefé Zerbi) e altri personaggi come l’ingegnere D’Agostino, un massone coperto munito di nullaosta di sicurezza. L’adesione di Freda – una vita dedicata alla guerra santa contro il potere demo–pluto–giudaico–massonico – a una loggia coperta ci sembra francamente una delle fandonie più fantasiose prodotte in vent’anni di pentitismo. Il confronto tra i verbali e le deposizioni orali di un Contorno ha reso manifesto un meccanismo ben noto agli studiosi di scienze sociali che usano come fonti i materiali polizieschi e giudiziari: la sistematica traduzione dal parlato popolare – in dialetto o nelle tante sfumature delle varianti regionali dell’italiano – nel linguaggio alieno dei cancellieri e dei marescialli (fatto di “appiattamenti” e di “attingere”). È quindi possibile che Lauro – o chi per lui – abbia tradotto nella onnicomprensiva categoria di “massoneria” discorsi orecchiati su un progetto di “organizzazione coperta” o, meglio, su un Ordine, forma organizzativa tipica delle società tradizionali. Perché, come ha giustamente osservato Ferdinando Camon che di Freda ha fatto il protagonista del suo romanzo Occidente, il “Priore” non ha mai costituito in vita sua organizzazioni ma gruppi, perché, come ha spiegato lui stesso ai giudici, non ha mai trovato capi che fossero degni di averlo come adepto né si è mai sentito all’altezza di essere un capo. Per questa ragione in più di un’occasione si è definito il Vicario, alludendo al fatto che “in vari contesti mi sia attribuita una sorta di funzione ‘vicariale’ (...) va inteso nel senso che con riferimento a una comunità ideale, ‘perfetta’, la mia funzione poteva essere soltanto di sostituto, di ‘surrogato’, in attesa di un capo adeguato”. (2- continua)
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