Header Ads


Bari: una storia di fascismo proletario - 1

Della realtà barese mi sono occupato nella prima edizione di "Fascisteria" e Tonino Fiore (nella foto la bara avvolta nella bandiera italiana con la runa di Odal, il simbolo di Avanguardia nazionale) vi figura in misura marginale. Al centro della mia narrazione la vicenda tragica del gruppo di fuoco assemblato intorno alla  personalità carismatica (ma con qualche problema personale: alla sua figura è ispirato il coprotagonista di uno dei romanzi di Giancarlo Carofiglio, il picchiatore neofascista di "Ragionevoli dubbi") di Stefano di Cagno, leader  dell’u­nica realtà in cui l’alleanza tra estre­misti di destra e di sinistra, tanto auspi­cata da un’ampia cor­rente neofa­sci­sta ma in realtà mai sviluppata, ha sfiorato il li­vello dell’a­zione armata unita­ria. Il capitolo non è stato ripubblicato nell'edizione del 2008: perché mi sembravano più ricche e significative da raccontare altre esperienze di nero che diventa rosso, ma anche perché in alcuni casi è opportuno riconoscere il diritto all'oblio. Con la stessa logica dalla stesura originale sono stati cancellati alcuni nomi...


Protagonisti dell’esperienza un nucleo di nazional­sociali­sti di fede strasse­riana (“nazionalbolscevichi”) e qualche sbandato di sinistra, che riuni­rono le pro­prie forze – esigue ed elitarie - mante­nendo inalterati i propri “dogmi”. L’esperienza fu stroncata sul nascere: erano in progetto l’omicidio di un di­ri­gente Di­gos, assalti ad armerie e altre azioni spettacolari ma un incidente nel corso di un’a­zione di propaganda armata (l’uccisione – non voluta– di un dj di simpatie missine in una radio di proprietà della DC) portò all’immediato arresto di alcuni militanti e alla fuga del leader, Stefano Di Cagno, già condannato per “attività fasci­sta”, e della moglie, Cecilia Marvulli (ex trotzki­sta). Tutto comincia alla fine del 1975: un gruppo di ragazzini si appropriano di una sede (4 metri su 4 sulla strada) del Fronte della Gio­ventù. Hanno dai 15 ai 17 anni, di fami­glie medio e alto–borghesi,  per lo più “borghesia rossa” o padri ex partigiani. Qualche volta separate, come i Di Cagno, padre industriale comu­nista, madre stilista svedese. I ragazzini hanno tutti consumato un’e­spe­rienza insoddisfacente nella sezione centrale (anche come ubicazione geografica) del FdG, dominata da una banda di ex avanguardisti, di estrazione borghese ma invi­schiati in pratiche mala­vitose: passa­vano il tempo in federazione a ta­glieggiare i figli di papà che frequentavano il Fronte. La nuova sezione, dedi­cata ad An­drea Passaquindici, un caduto della Folgore, è in periferia. I ragazzini hanno costruito, senza lea­der, senza maestri, una modesta base ideo­logica rivoluzionaria: partecipando alla dia­triba no­minalistica che lacerava tante sezioni periferiche, non si dichiarano fascisti in rottura con la vecchia guardia ma nazionalso­cialisti e per giunta di si­ni­stra (Strasser e i nazional­bolscevichi). Le let­ture “cult” sono il “socialista” Drieu La Rochelle, i romanzi di Larteguy e di Sven Hassel (del genere mirabo­lanti avventure di eroici soldati criptonazisti: ma non si può dire perché non si può parlare bene dei de­moni). La percezione della re­altà è piuttosto distorta, di chi si ostina a ne­gare che il fascismo è rea­ziona­rio, pur avendo avuto già modo di verificare quanto i fascisti lo siano. La quadratura del cerchio: restaurare il giusto stato delle cose, tor­nare alla purezza delle origini (il Dician­nove per il fascismo, la so­cia­lizza­zione della RSI per il neofascismo) e co­struire un’esperienza di fa­scismo so­ciale e popolare. La rifondazione politica comincia dal nome della sezione, ribattezzata AP15 (da An­drea PassaQuindici...) e dall’uso esclusivo della croce celtica come simbolo. Nessun componente del gruppo prende la tessera del Fronte ma sono re­golarmente iscritti i nuovi adepti (anche questo succedeva ai mar­gini del Msi). Attorno al nu­cleo di estrazione borghese, si raccolgono una cinquantina di militanti per lo più proletari e sottoprole­tari e un centi­naio di sim­patizzanti, una cifra per gli standard lo­cali. Uno degli ele­menti di punta della SS (la Squadra di Sorve­glianza: una trentina di lumpen che ga­rantiscono l’“ordine nero” nel quartiere) è figlio di un ambulante che vende fiori al­l’angolo del car­cere. Lo chiamano “lampadina”, per i capelli ricci e biondi che gli fanno un “capocchione”: lui, disoccupato, fa il trimestrale all’ufficio pacchi del car­cere, poi lavora come mecca­nico. Un altro lumpen della SS, finisce al carcere mino­rile per furto: qui mostra la sua coscienza politica, ca­peg­giando una protesta con un “compagno”. Sarà re­golarmente pestato e trasfe­rito.
La massiccia adesione popolana – come in tutti i circuiti di profezia che si au­toav­vera – accentua nei ragaz­zini il rifiuto di accettare il giudizio di condanna dei “compagni”. Nasce anzi il mito risarcitorio di una borghesia, di una cul­tura dominante che disinformano per mettere contro “camerati” e “compagni”. A li­vello istintivo si sviluppa una contraddizione lacerante tra la fru­strazione per l’antifasci­smo della larga maggioranza dei gio­vani, alimentata dalla simpatia per la frenetica attività militante dei “rossi” (che stimo­lava il culto vi­ta­listico dell’a­gisco, quindi sono) e il continuo scontro fisico, per avere la pos­sibilità di “fare politica”. Questi senti­menti contrastanti non contaminano l’impianto ideologico dell’AP15. Il libro politico più gettonato (ed è già una rarità che in una se­zione del Fronte si leggesse tanto) è La conquista di Berlino, il diario in cui Goeb­bels narra la sua storia di agitprop nella Ber­lino rossa di Weimar, che nello stesso pe­riodo è un testo base delle scuole quadri di Lotta studen­tesca. Nell’immaginario dei ragazzini – che si stanno facendo le ossa negli scontri quotidiani con i compagni – la batta­glia per lo spazio vitale è una riedizione della via Paal. In un anno la missione della SS è compiuta, con l’epura­zione di tutti i compagni nella zona al di là della ferrovia che divide Bari, lasciando ai “rossi” la parte verso il mare, dove ha sede la federazione del Msi. I giovani nazionalbolsce­vichi, me­mori delle angherie subite dai ca­merati più sca­fati, neanche mettono piede in centro godendosi il “territorio liberato”, l’a­rea più de­gradata della città, che è interdetta ai compagni. I mili­tanti di Lotta Continua e gli autonomi che vivono nel quartiere, stanchi delle aggres­sioni sistematiche, ottengono un patto di non bellige­ranza dai militanti dell’AP15. Per loro, del resto, il nemico vero sono i “kompagni” della Fgci e del Movimento lavo­ra­tori per il socialismo, che ha in Bari il punto di forza al Sud. I “katanga” sono ossessionati dall’anti­fa­sci­smo e pic­chiano duro (a Milano hanno mandato in ospedale più di un auto­nomo e l’odio è reci­proco). Nel clima del 1977 – anche per l’ultrasini­stra il nemico principale è il Pci – il passaggio dalla non bel­lige­ranza alla be­nevolenza è facile. La scandalo di un quartiere controllato dalla teppa nera e interdetto solo ai mili­tanti della sinistra ufficiale non può durare e così alla prima occasione – l’omicidio Petrone – il Pci re­gola la partita per via giudiziaria. (1 - continua)

Nessun commento:

Powered by Blogger.